3.6 Vocazione contemplativa e perfezione morale

La certezza della vocazione, scriveva P. Deblaere, non è mai stata oggetto d’investigazione scientifica. Ci possiamo attribuire il diritto certamente e anche il dovere di esaminare e analizzare il dato “vocazione”, non fosse altro che per renderlo accettabile a coloro che non sono “chiamati”, ma più ancora che per la sua peculiarità di essere qualcosa di sacro, ci si sentirà obbligati a ridurla ad un composto, ad una costruzione complessa fatta di altre esperienze.

Nell’esperienza del sacro, per esempio, si distingue una sorta di “rispettoso spavento” e al tempo stesso “un irresistibile fascino”. Eppure il senso del sacro è un’esperienza “sui generis” che mai, in nessun caso, si lascerà ridurre ad una somma, ad un raggruppamento di ingredienti, conosciuti magari per le esperienze avute in altri campi. Ancor meno si potrà far comprendere l’esperienza “sui generis” che è la vocazione. Tutto al più si potrà rischiare di compararla all’amore umano… se poi è possibile. Poiché un grande innamorato può pensare che tutti gli uomini siano in grado di sentire un amore simile al suo, anche se solo un piccolo numero di essi effettivamente lo vive, mentre colui che è chiamato da Dio sa immediatamente di costituire l’eccezione.

Quel che Gesù diceva dei chiamati al servizio del Regno, che cioè chi aveva orecchie per intendere avrebbe compreso, vale per tutte le vocazioni religiose. Altri continueranno a cercare di spiegare tale vocazione, a difenderla o a farne l’apologia; quelli che sono chiamati non si preoccuperanno mai di giustificarsi, per il fatto che le preoccupazioni e i ragionamenti umani diventano assolutamente insignificanti di fronte alla chiamata e all’incontro interiore.

La vocazione assorbe tutta l’attenzione e l’uomo sarebbe infelice se non potesse abbandonare la mediocrità di tutti i problemi e i pensieri per consacrarsi a quell’ “unico necessario” che lo lascia tuttavia sovranamente libero. Egli fuggirà il tumulto della società, la fiera degli interessi in conflitto, le chiacchiere e le vociferazioni, con le quali gli uomini si fanno valere, e cercherà il silenzio, la solitudine, la tranquillità: L’ “esychìa” nella quale consacrarsi alla preghiera e alla contemplazione.

E là dove la religione ha cessato di essere uno strumento di pressione collettiva la risposta dell’uomo alla sua vocazione religiosa avrà molte componenti comuni col monachesimo cristiano: in parte esse saranno dettate dalla natura stessa della vocazione personale, in parte da una comunità di fratelli nello spirito che ha bisogno di regole e di un certo ordine.

Coloro che sono chiamati sono spesso capaci di discernere la presenza o l’assenza della vocazione in coloro che a loro volta sono chiamati. Ed è possibile che ad essi rivelino qualcosa della loro propria esperienza. Non perché essi calcolino il numero, la successione, la primogenitura spirituale o qualche altra sublimazione dell’istinto di riproduzione, ma per obbedire all’ordine che è stato loro ingiunto dalla Verità che servono.

Uno dei segni più sicuri dell’autenticità della vocazione sarà – per i chiamati – che essi non potranno mai pensare di darne una giustificazione o una immagine accettabile ai loro contemporanei. (E’ inutile introdursi con le telecamere nei monasteri per catturare con esse la vita dei monaci, come nel film “Il grande silenzio”).

La Verità richiede tutta l’attenzione, mobilita tutte le energie per servire la bellezza e lo schiudersi della vita; se essa potesse distogliere lo sguardo da tutto ciò per preoccuparsi della sua immagine o dell’impressione che produce, allora si occuperebbe delle apparenze, e non sarebbe più verità. Soltanto la menzogna deve preoccuparsi della sua credibilità. La Verità non ne ha il tempo.

Durkheim descrisse mirabilmente la tendenza di tutta la società umana a perpetuarsi nella pura ripetizione (Bergson paragonava a buon diritto queste società chiuse a certe repubbliche d’insetti), nell’appiattimento delle masse dove tutti hanno lo stesso valore, sono uguali e interscambiabili, in un orizzontalismo al quale nessuno può sfuggire. Una società simile esercita la sorveglianza ed esige la giustificazione su ogni offerta della vita dei suoi soggetti; essa costituisce un tribunale popolare in sessione permanente: unico mezzo per evitare l’avventura creatrice incontrollabile, che minaccerebbe la sua conservazione e quella delle sue abitudini.

Dunque, l’appello interiore alla vita veritiera e la risposta interiore sfuggono ad ogni inchiesta scientifica, e costituiscono la condizione a priori, “sine qua non” di ogni vita religiosa, monastica, contemplativa.

La vocazione alla vita mistica, in particolare, non esige alcuna perfezione morale. Dio si sceglie i suoi “operai”, dice San Benedetto nella Regola e affida loro una missione.

San Tommaso d’Aquino riconosce due specie di grazie nella Summa Theologica I.2. quaest. III art.1: una si chiama “gratum facies”, l’altra “gratis data”. La grazia “gratum facies” è quella che rende chi la riceve “grato a Dio”, tale è la grazia santificante con l’infusione delle virtù e dei doni dello Spirito Santo… Le grazie gratisdate sono quelle date per la santificazione e il vantaggio spirituale del prossimo. Così la definisce lo stesso Dottore Angelico. Tali grazie non apportano di loro natura la santificazione al soggetto che ne è favorito, perché non sono date direttamente a tal fine, ma al fine di giovare ai fratelli. E “possono stare anche col peccato mortale e con la disgrazia di Dio “ (art.1).

Gian Battista Scaramelli, nel suo “Direttorio mistico per li confessori”, scrive: “La contemplazione infusa poi è quella che sebbene d’ordinario presuppone nel soggetto una remota disposizione non dipende però da alcuna sua industria e diligenza prossima, ma solamente dall’arbitrio di Dio… Non ha dipendenza alcuna dalla meditazione o da qualunque altra diligenza che possa praticarsi dalla persona divota: poiché si dona da Dio improvvisamente, quando meno la persona se lo aspetta, molte volte mentre neppure si trova in attuale orazione…” (Direttorio Mistico, t. II, cap.VII, pp. 106-107).

Ad avvalorare quanto è stato appena detto la vicenda di molti Santi e contemplativi i quali ricevettero la grazia dell’unione mistica pur trovandosi in peccato grave o comunque in condizioni di grave disordine morale; pur trascurando i personaggi stessi del Vangelo, come Matteo il pubblicano, basti pensare all’azione persecutoria di Saulo di Tarso contro la Chiesa nascente. Sicuramente egli fu il “mandante” nell’uccisione di S. Stefano e si macchiò di grosse colpe. Aurelio Agostino, quando ricevette la prima rivelazione, usava spassarsela con più di una donna; non era proprio uno stinco di santo. Lontano dalla perfezione morale anche Francesco d’Assisi, Angela da Foligno, Margherita da Cortona, Caterina da Genova, per arrivare fino a Silvano dal Monte Athos, e Francis Thompson, e Wystan Hugh Auden. Storie di uomini e donne che, dalle tenebre, son passati a sperimentare, inspiegabilmente, improvvisamente, la splendida luce della grazia.