3.7 Problemi di lettura

Siamo coscienti che questo sito non è altro che una breve presentazione di testimonianze mistiche ridotta a poche note essenziali e servirà a mostrare solo una scarna ossatura della mistica. La possibilità di risposte umane, le prospettive profonde, l’arricchimento spirituale che la mistica cristiana dona alla cultura umana, impregnata di cristianesimo, permette all’uomo di raggiungere le più alte vette della sua grandezza e di produrre innumerevoli benefici instancabilmente creati e generosamente distribuiti dai “chiamati” a quella vocazione d’unione col Verbo incarnato che diviene sempre missione; costoro hanno trasformato la società mutando la visione dell’uomo e dei suoi sforzi. La descrizione delle maggiori conseguenze di questa esperienza esigerebbero dunque uno sviluppo ben più ampio. Ma evitiamo anche solo di evocare il panorama dell’umanesimo cristiano e della ricchezza spirituale apportata dalla mistica. Nonostante ciò, alcuni problemi che non abbiamo trattato andrebbero almeno indicati. Ci limiteremo a toccarne tre, che derivano dall’esperienza essenziale della mistica e che ne costituiscono, per così dire, la conseguenza.

FEDE E VISIONE

Nell’esposizione di una teologia davvero sana Karl Rahner sottolinea a buon diritto che, già il buon senso può difficilmente ammettere che il grosso della truppa dei cristiani raggiungerà la sua felicità finale salendo più di due gradini: “luce della fede” e “luce della gloria”, né tantomeno i mistici attraverseranno le tappe salendo tre gradini: fede, mistica, gloria.
Da una lettura erronea di San Giovanni della Croce come di Ruusbroec, quel grande erudito del P. L. Reypens conclude che l’apice della contemplazione mistica, quaggiù, comporta una visione dell’essenza divina. E per mettersi d’accordo col Concilio di Vienne (1311/1312) che condanna tutta la dottrina riguardante una tale visione sulla terra, P. Reypens suggerisce che basta sottrarre a questa visione il suo carattere d’eternità per farla cessare di esse quella “visione beatifica” di cui parla il Concilio: e non si avrà questa visione, sulla terra, che “per transennam”, in maniera passeggera.
Dom J. Huyben risponde dimostrando che i testi impiegati dal P. Reypens sono stati male interpretati. Si potrà ignorare qui questa controversia, ma essa è solo frutto di un errore di lettura.
Il P. Reypens comprende il termine “essenziale” come “oggetto” della “contemplazione essenziale” invece di vedervi la “qualità” di questa contemplazione.
P. Maréchal non si era appoggiato sulla competenza di Reypens per ammettere una possibilità della contemplazione dell’Essenza divina nei suoi “Studi sulla psicologia dei mistici”.
I due grandi mistici citati all’inizio sono ben d’accordo su questo punto: per San Giovanni della Croce, resta sempre “l’ultimo velo”, nella nostra condizione terrestre, da togliere, da strappare; Per Ruusbroec la contemplazione più alta accordata ad un mistico non è ancora “il bagliore del sole”, ma la luminosità della nuvola (la shekinah) che illuminò Israele nel deserto. E’ strano che il Padre Reypens stesso, con la collaborazione del P. M. Schurmans, abbiano curato l’edizione critica dello “Specchio dell’eterna beatitudine”, in cui Ruusbroec si pronuncia esplicitamente a questo riguardo, e non se ne sia accorto. Oh! E’ interessante constatare che Ruusbroec non si degna neanche di ritenere coloro che hanno queste visioni passeggere sulla terra per “eretici”, poiché egli non li considera che degli “imbecilli” (= “dooere menschen”). Egli davvero non sente il bisogno di rifarsi alla teoria della relatività per rendersi conto che tempo e spazio sono le dimensioni della materia: “Quaggiù noi dobbiamo camminare in tutti i suoi doni con una fede ferma e non con una visione chiara e gloriosa, poiché è per la nostra fede piena che noi meritiamo la visione eterna. Così sono degli stupidi quelli che vogliono fare entrare la vita eterna e la gloria di Dio nel tempo o portare il tempo nell’eternità, poiché la prima cosa è impossibile quanto l’altra”. (Spieghel der Eewigher Salicheit, in “Werken” III, p.173).

NOTTE E GNOSI

In genere si considerano le “notti” mistiche come “spogliazione passiva” attraverso la quale i contemplativi devono passare al fine di uscire purificati nella fede illuminata. Le “notti” sono sì questo, ma non solamente questo.
Il simbolo della “notte” si è imposto sulla scia del magnifico incremento mistico letterario dei secoli d’oro spagnolo e francese.
Gli altri, dopo Origene, fino alle beghine fiamminghe del XIII secolo, avevano preferito il simbolo dell’ “inverno”, alquanto diverso dal nebbioso delta del Nilo quello degli altri due grandi fiumi che hanno formato i Paesi Bassi. Qui l’inverno è più lungo, più grigio e più triste della notte, ma tutti sanno che è la stagione della crescita nascosta e salda, operata nell’interno. E’ raro, al contrario, che nelle “notti” dei secoli posteriori l’anima dorma un sonno benefico e ristoratore; essa sembra al contrario, esattamente come nella letteratura amorosa profana, passare le sue notti nell’insonnia, piangendo l’assenza dell’amante.
Se si legge la loro descrizione più attentamente, soprattutto nei trattati di San Giovanni della Croce, che le ha esposte con la più alta penetrazione psicologica, si è colpiti dal rigore col quale egli definisce i significati notturni come termini sempre in relazione alla luce, già attivamente presente, come accade con l’ombra proiettata dalla luce.
Nell’esperienza della notte, non è “la notte” ma “la luce” che opera la purificazione: come potrà l’uomo rendersi conto della sua oscurità, che ignora, se non per un confronto con la luce? Ma ciò non si può imparare, lo si deve apprendere al contrario nella pratica della lunga espropriazione di sé. E più l’essere umano è abituato ad acquisire e possedere, più vede che l’irradiarsi di questa luce in lui non può essere percepita che nella pura recezione, soprattutto come “espropriazione” e “mancanza”, prima ancora di esserne posseduto e trasformato.
Se una lettura delle “notti” di Giovanni della Croce s’impone in termini molto differenti da quelli di un sistema referenziale tipico della Teologia morale, sarà ancora più necessario comprendere la lettura del termine “ghnophos”, della “caligo” degli antichi Padri, per esempio in Gregorio di Nissa, esaminando il significato di questa “oscurità” negli scritti del mistico cappadoce, piuttosto che inserire le sue spiegazioni in una spiritualità che gli è fortemente estranea. Ci si ispira sempre alla vita di Mosé che deve passare attraverso la nube oscura per andare a Dio. Da qui tutta una letteratura contemporanea che prende a leggere le testimonianze dei Padri distinguendo due vie per andare a Dio: una “nell’oscurità”, l’altra “nella luce”. Essa può rendere certamente dei grandi servigi alla Teologia, come a proposito della “via negativa”, ma nella descrizione dell’esperienza mistica non è neanche concepibile che la via di Dio passi per l’oscurità. Questo termine non si deve assolutamente inserire in una configurazione significante l’ascensione dell’anima o un cammino da percorrere, un tunnel da attraversare, né tanto meno in una correlazione tra il “prima” e il “dopo”. Mentre le uniche correlazioni possibili sono semmai il “di dentro” e il “di fuori” e, delle volte, “un aspetto” e l’ “opposto di esso”. La stessa nuvola è oscurità per il popolo e per coloro che sono all’esterno, ma è luce per coloro che sono all’interno di essa. Se si compara l’impiego del termine nelle altre opere di Gregorio, si vede bene che è inaccettabile il significato del “tunnel oscuro da attraversare” quando egli l’applica al suo santo e rimpianto fratello Basilio: “Quando delle volte noi l’abbiamo visto entrare nell’oscurità ove è Dio. Poiché ciò che dagli altri non può essere contemplato a lui lo rivela chiaramente la mistagogia dello Spirito”. (“In laudem Fratris Basilii” PG, 46, c.812C).
Non si tratta assolutamente di un’oscurità mistica da attraversare per raggiungere il giorno, ma piuttosto della correlazione tra: “oscurità” per chi resta al di fuori e “luce” per chi è dentro. Gregorio ne dà ragione nel suo “De verginitate”: “Si possono percepire i raggi della luce attraverso gli occhi – inutile spiegarli a chi ne è accecato”.(PG, 46, c. 360D) Qui ugualmente la correlazione espressa non sembra affatto appartenere ad un insieme più o meno impregnato di moralità, passando dall’impurità alla purificazione, alla purità. Ci permettiamo di rinviare a quanto detto altrove circa la sofferenza del mistico per l’incomunicabilità della sua esperienza. In fine, l’opposizione tra una “scuola della luce”, rappresentata dal grande maestro Simeone il Nuovo Teologo, per esempio, e una “scuola delle tenebre”, rappresentata da un testimone privilegiato come Gregorio di Nissa, sembra essere il frutto di una lettura della contemplazione filtrata da un sistema teologico quanto mai inadatto, per non dire superficiale.
E aggiungiamo che nei testi più antichi si intende senza dubbio l’esperienza mistica quando si parla di “gnosi”, poiché là, ugualmente, questa conoscenza è sempre un “non sapere” attraverso l’intelligenza che vuole possedere ed è sempre dono di una “fede illuminata”, e si ringrazia Dio per la gnosi (ricevuta) e per la fede.
I mistici di tutti i tempi hanno sempre dichiarato che Dio non domanda niente di più che di manifestarsi, se solo gli uomini volessero lasciarlo fare! Tutti proclameranno la gratuità assoluta del dono della contemplazione. Il “movimento gnostico” ha dunque voluto collaborare solo un po’ più efficacemente con la grazia in questa iniziativa divina: lo gnosticismo antico, e moderno, non offre altro che un metodo sicuro di far funzionare lo Spirito che, evidentemente, si concederà in tutta libertà. Non si tratta di passare attraverso il tunnel del “non sapere” per essere gratificati all’uscita da un “sapere differente”. “E’ il modo di conoscere che è differente” dicono i mistici, il cui oggetto è sempre il semplice contenuto della fede. Gli “gnostici” si vedono dunque obbligati ad offrire, al termine della loro iniziazione alla contemplazione, un “modo” di conoscere differente. Ma per come è stato sempre inteso, il passaggio attraverso il tunnel dell’oscurità mistica, questo “modo” così interpretato, produrrà e prenderà inevitabilmente la forma di un contenuto “esoterico”.
Questi contenuti delle dottrine gnostiche però sono secondari, anzi sono frutto dell’immaginazione tardiva di chi intendeva rispondere alle aspettative spirituali e ai più vasti interessi di una funzione leggendaria dell’etnologia piuttosto che uno studio sulle testimonianze mistiche delle grandi Religioni.
Le “nubi della non-conoscenza” artificiali delle scuole gnostiche servono soprattutto a creare una “Chiesa di giusti”, a piazzare una barriera sacra, rassicurante, tra i fedeli che si sono sottoposti a purificazioni e a tecniche di iniziazione e gli altri, i profani, che non hanno fatto questo lungo noviziato della contemplazione. Così i veri mistici hanno ben violentemente attaccato questi pseudo-amici della contemplazione, come dei falsari; considerandoli i peggiori nemici della dottrina cristiana.

MERITO E AMORE

“Inverno”, “notte”, “nube oscura”, tutte espressioni che sottolineano quanto l’esperienza dell’incontro mistico sia agli antipodi dell’esperienza normale, psicologicamente condotta e governata dal soggetto. I mistici renani preferirono l’espressione “povertà di spirito”, senza dubbio perché essa metteva in rilievo questo carattere di “espropriazione” che deve subire l’attività umana, cioè la sua “purificazione passiva”. Le più belle descrizioni di questa povertà spirituale si incontrano in Tauler e nell’autore della Theologia Deutsch, ma si può constatare che, a causa di un vocabolario comune, si può conferire loro un senso “morale”, e una volta che ci si metta a leggere questi testi in chiave di Teologia morale, poco dopo si traviseranno i significati e si finirà per condannare agli “inferi” delle biblioteche religiose gli scritti mistici che celebrano la povertà sotto la sua forma più alta: la sostituzione dell’ “io” con “il Cristo in me” (Gal. 2,20), la mistica dell’annientamento (vernichtung, annichilazione).
Come giustificare “moralmente” gli eccessi seguenti?
“L’amore nell’abbandono completo non aspira ad alcuna perfezione né si arresta su alcun favore, né considera più affatto il grado superiore a cui potrà giungere… esso non teme alcuna tentazione, ma al contrario le abbraccia e le trattiene… poiché la creatura, in preda a questo amore d’abbandono, non ha cura del modo in cui piace a Dio di operare in lei… Amore ozioso, che opera grandi cose.
– L’amore di sazietà gode di Dio, si diletta in Lui orienta verso Lui tutte le sue opere, le inizia e le termina in Lui. Questo amore… non è perfetto, perché possiede il gusto di Dio.
– L’ultimo amore (= d’annientamento) è come morto: esso non vuole, non desidera, non ricerca niente, perché l’anima in questo amore fa a Dio l’inerte abbandono di se stessa, e non desidera più conoscere, d’intendere, di gustare. Essa non vuole nulla, non sa nulla, né desidera alcun potere”. (Santa Maria Maddalena de’ Pazzi)
Queste parole invitano a tutte le ironie della Bruyère nel suo celebre “Pater de l’abandon” del Quietismo. Ma siccome si trattava di una grande santa come Maria Maddalena da Firenze, non si poteva che difficilmente condannare queste espressioni, pur andando alla caccia dei quietisti, come nel XVII, XVIII secolo; così si è preferito relegare le opere della santa negli scaffali più riposti delle più polverose biblioteche.
Dunque non si devono mescolare “descrizione d’esperienza mistica” e “teologia morale”.I mistici sono sempre stati assai formali su questo punto: la mistica è una “grazia gratis data”, non una “grazia gratum facies” (cioè capace di rendere l’uomo più santo e più gradevole agli occhi di Dio), in quanto la contemplazione non si ottiene per virtù propria né per i meriti che possono essere stati acquisiti. Come ho indicato altrove, ci manca proprio una collocazione esatta e dunque un sistema referenziale adatto per stabilire una “scienza delle testimonianze mistiche cristiane”. Da ciò derivano certi effetti di correlazioni trascurate: Gregorio di Nissa si meraviglia che l’incontro con Dio sia “sempre nuovo”, mai “già conosciuto” e l’unione d’amore “sempre più grande di quella che si credeva possibile”, e questo fino all’eternità. Come l’esplosione dell’atomo primordiale respinse le frontiere del cosmo verso una indefinita grandezza, così l’esplosione della felicità che è il cielo in noi. E nelle edizioni italiane delle opere di Gregorio di Nissa, smettiamola di tradurre il termine “agnostos” con “inconoscibile”; in greco “agnostos” significa piuttosto “ignoto”, “sconosciuto”. E la versione giusta del testo dà di esso una ben diversa comprensione!
J. Daniélou riassume la meraviglia del grande Padre della Cappadocia come una “crescita infinita”, aggiungendo, prudentemente, “fino, sembra quasi, alla visione beatifica”. E poiché, nel quadro di un sistema teologico, si pone allo stesso tempo il problema di “una crescita infinita dei meriti”, “beatitudine” e “meriti” devono essere rigorosamente proporzionati.
Fortunatamente non si è studiato troppo Ruusbroec sotto questa angolatura; poiché la dottrina del Dottore Ammirabile è, con Gregorio di Nissa, la mistica che insiste di più sul carattere “sempre nuovo” (“nuwe” diviene delle volte un vero e proprio ritornello nelle sue più belle descrizioni), sempre preso a sé e, s’intende, al di là di tutto ciò che era già stato donato nell’unione amorosa quaggiù in questo mondo e “per l’aternità”. Speriamo che si riesca un giorno a stabilire una “griglia di lettura” dei mistici; una griglia che non riduca le loro testimonianze a un vago lirismo poetico, al fianco dei sistemi concettuali, teologici.
La stabilizzazione di un metodo di lettura esatto non sembra impossibile, ma non è cosa fatta. Si potrebbe per esempio costruire la visione mistica sull’uomo in maniera “discendente”, cominciando da ciò che i mistici hanno presentito del cielo, apice dell’evoluzione e dell’espansione umana e che potrà già dirigere i primi passi spirituali di coloro che Dio chiama. Oppure, su questo soggetto, si potrebbe trovare una linea di continuità sorprendente dopo Gregorio di Nissa, passando per i sermoni eckhartiani, verso il grande movimento mistico delle donne: Hadewijch di Anversa, fino a Santa Caterina da Genova, senza nulla togliere ai diritti della Teologia morale né ai meriti che essa discerne in ciascuno, come capacità di felicità eterna.Per i mistici il cielo sarà la gloria degli altri. Così il settimo sermone di Eckhart spiega i doni straordinari attribuiti alla Vergine: “Tutti i privilegi e le grazie che ornano in cielo la Vergine Maria, mia madre, sono molto più miei che suoi: i santi gioiscono più di queste grazie che possiede Maria, che se le avessero trovate in se stessi”. (Deutsche Mistiker des viergehnten jahrhunderts, Hrsg. V. FRANZ PFEIFFER, Bd. II, Meister Eckhart, Neudruck der Ausg. Leipzig 1857, Aalen 1962, p. 39) E ci può essere anche una Caterina fieschi Adorno, questa grande donna del Rinascimento italiano, che fu “la grande dama del puro amore” che osa prendere posizione tra due linguaggi, ancora oggi separati come due mondi, con la più audace e creativa luminosa precisione:
“Una fiata uno predicatore li disse che lui era più apto ad amare che lei, perché haveiva renuntiato tuto dentro e di fuora, et per questo era più apto et libero ad amarlo che lei, con molte altre rasone che se podeivano alegare a quello proposito, masime contra di lei la quale era maritata al mondo, et lui era in religione. Or quando hebe dicto circa queste cose asai, … se drisò im pede con tale fervore, che pareiva fora di sì, et disse: Se io me credese che questa vostra capa me dovese crescere una minima sentila de amore, io ve la tirerìa da le spale a pecio a pecio quando non podesse fare altrimenti. Circa che voi meritati più che mi per le renuntie che aveti facto per Dio et per ordinatione de la religione, chi ve fa continuamente meritare in buona ora non cercho queste cose, sono vostre! Ma che io non lo posia amare tanto como voi, non me lo dareti mai ad intendere! – et questo diceva con talle fervore che tutti i capelli le cadevano zu per le spale…” (UMILE BONZI DA GENOVA, “Santa Caterina Fieschi Adorno, Torino, II, 1962, p.191-2.)
“Non posso dire beato ad alcuno sancto, perché me pare parola corrota, e non vedo alcuno sancto beato, ma sì vedo che tuta la santità e beatitudine che hano li sancti, è tuta fora di loro, e tuta è in Dio. E non poso vedere ne alcuno bene, ne beatitudine di alcuna creatura, salvo se, totalmente essa creatura è un sé de tuto annichilita et tallemente annegata in Dio, che solo Dio rimanga in la creatura e la creatura in Dio. E questa è la beatitudine che pono haveire li beati et tamen non la hano. Dico la hano in quanto sono annichilati in loro medemi et vestiti de Dio. Non la hano in quanto se trovano in lo essere proprio, che possano dire alcuno di loro: io sono beato.” (Ib. P. 148-9)