6.2 La vita di Santa Caterina da Genova

PER UNA LETTURA DELLA BIOGRAFIA
(dalla “registrazione vocale” di un ritiro)

Non so se conoscete questa donna, se avete mai letto qualcosa di S. Caterina da Genova, ma vi ho dato tutto lo scritto perché abbiate la possibilità di leggerlo.

Non è un testo molto difficile, almeno spero; non è neanche facilissimo… E’ una composizione letterariamente complessa. S’intravede – tra le righe – l’opera di un biografo, forse più d’uno, ma sicuramente c’è la mano d’un redattore: un sacerdote, figlio spirituale di Caterina Fieschi (sposata Adorno). Il marito apparteneva alla famiglia Adorno. Lei apparteneva ad un importante antico casato, quello dei Fieschi, che diede alla Chiesa dei Beati e anche due Papi: Innocenzo IV (sec. XIII) e Adriano V (suo nipote).

Caterina nasce a Genova intorno al 1447 e muore nel 1510 pure a Genova; è coetanea di Cristoforo Colombo (1451 – 1506); (mi piace pensare che da bambini, abbiano giocato insieme, d’altra parte la casa di Colombo non dista molte decine di metri dal palazzo Fieschi. Anzi, se vi trovate a Genova un sabato pomeriggio, stanchi del via vai cittadino scendete in Via degli Orefici per andare verso Banchi, quando la strada piega per la prima volta a destra, compare, a sinistra, Vico Conservatori del Mare, denominazione che commemora un’antica magistratura della Repubblica di Genova. Entrate nel vicolo e quando un palazzo vi sbarra la strada girare a sinistra: siete così giunti in Vico Indoratori. Subito lì, sulla sinistra, un portale in marmo istoriato lascia intendere che quello è un palazzo importante, uno dei tanti che la città antica spesso nasconde. Quello è il palazzo di Vico degli Indoratori 2, “casa natale di Caterina Fieschi”: Santa Caterina da Genova).

Il biografo della Santa sembra riportare testualmente in questi capitoli le sue parole, la sua voce… forse la sua penna… comunque ci troviamo di fronte ad un materiale “registrato” – si fa per dire – cioè raccolto dalla sua viva voce, quando lei era in vita. Sarà poi rivisto e risistemato per formare, qualche anno dopo la sua morte, il libro che possediamo.

Questa redazione biografica, che possediamo, risale sicuramente al 1530-1540. Paolo Fontana, nel suo studio Celebrando Caterina (Ed. Marietti, Genova 1999) cita P. Umile Bonzi e ritiene che il testo della Vita sia uscito dalle mani dei collaboratori di Caterina verso il 1520. Oggi abbiamo a disposizione diversi manoscritti, sono “copie dell’originale” (dell’autografo), che è andato perduto e che ancora non è stato ritrovato. Si pensa (lo presumevano due grandi studiosi e ricercatori: P. Deblaere S.J. e P. Cassiano Carpaneto da Langasco) che esso (il Ms. X, autografo) possa essere nella biblioteca del Seminario di Venezia, nell’archivio della Diocesi veneta, forse tra i tesori della Basilica di S. Marco. Chissà? Non è stato possibile mettere il naso là dentro, finora.

Le edizioni dei manoscritti (i codici) sono stati sistemati, studiati e pubblicati da vari studiosi. Nel 1962 è uscita la migliore edizione “quasi critica” curata dal Padre Umile Bonzi da Genova; questi propone in realtà l’edizione diplomatica (cioè del miglior manoscritto: il Dx, ritrovato solo nel 1960) e sinottica (di altri manoscritti disposti su tre colonne e messi a confronto); sono i tre manoscritti più vicini all’originale.

Stiamo parlando di copie manoscritte, non di copie a stampa, che usciranno poco dopo, nel 1551, anno di pubblicazione della prima Edizione a stampa (del Bellono, di cui è possibile rintracciare se non la cinquecentina, almeno la copia fotozincografica), questa è una rielaborazione globale degli scritti su di lei a nostra disposizione.

Nel testo che avete sott’occhio si è cercato di rendere il genovese del ‘400 in italiano moderno, corrente (lavoro eccellente di Mons. Antonino Raspanti che speriamo sia pubblicato quanto prima), perché l’edizione di Umile Bonzi riporta la lingua di Caterina (comprese le sviste), sulla seconda colonna vi è il manoscritto D, in toscano del ‘500, il quale cerca di correggere il precedente, compresi gli errori inevitabili di ogni trascrizione. Dunque non c’è ancora, ad oggi, in commercio, la versione in italiano corrente dell’opera in questione. Voi l’avete. E’ un testo forse ancora provvisorio, perfettibile, ma è una prima versione linguistica, perciò bisognerà, là dove troviamo difficoltà, consultare l’edizione critica di P. Bonzi, che ripropone l’originale.

I primi 40 capitoli costituiscono la “Vita” e racchiudono l’esperienza più alta di Caterina.

Il capitolo 41 può essere considerato a sé, ed è detto “Trattato del Purgatorio”; più avanti, il capitolo 42° è un “Dialogo” dell’anima e del corpo. Questi due ultimi capitoli sono in commercio da diversi anni, esistono in italiano moderno, essendo più facilmente traducibili e meno spirituali. Comunque, tutti questi capitoli potrebbero essere considerati un tutt’uno con la lunga Biografia di Caterina (un bel malloppo!), che non è altro che il racconto dell’intera sua vita.

Probabilmente il Trattato del Purgatorio e il Dialogo sono stati scritti direttamente dalla Santa, di sua mano. Non ne abbiamo la certezza, ma si presume, da alcuni studi di critica testuale, perché in alcuni punti è evidente l’osservazione di colei che scrive.

L’interpunzione che avete di fronte non corrisponde all’originale, ma si è cercato di interpretare il testo, mettendo tra virgolette il discorso di Caterina, quando è lei che parla. E’ una scelta che si è stati costretti a fare anche quando la cosa non è poi così chiara; allora, alcuni brani, sono stati virgolettati, altri no. Sono scelte; un’interpretazione che si presume sia corretta e rispettosa della verità… ma… comunque questo è il lavoro, duro e serio, di chi vuole rendere accessibile un capolavoro assoluto della Spiritualità, che altrimenti rimarrebbe inaccessibile ai più, relegato negli scaffali impolverati delle grandi Biblioteche (in verità pochissime!).

In ogni caso noi possediamo l’edizione critica di P. Umile Bonzi, testo più unico che raro, da confrontare, e che va “letto e riletto”. Quante volte? 4, 5, 6 volte almeno.

Un ipotetico lettore potrebbe non capire subito… ma… noi ci apprestiamo a “leggere” i primi 15 capitoli della Vita seguendo il commento di Monsignor Antonino Raspanti (Vescovo di Acireale e mio amico), al quale ho aggiunto qua e là delle precisazioni storiche e qualche considerazione personale. Il racconto è semplice, lo dicevamo, ma va analizzato “insieme”, letto in comunità, come si fa nello svolgimento dei seminari di studio all’Università. In cattedra siede il testo. Il Professore dà agli studenti una chiave interpretativa.

Il testo esige un’applicazione mentale, interpretativa del linguaggio, perché Caterina qui userà moltissime immagini, secondo l’uso della spiritualità carmelitana, ma lei è “prima” della riforma carmelitana; vive una generazione prima di S. Giovanni della Croce e di S. Teresa d’Avila. Le visioni di cui parla donna Caterina Fieschi non sono corporee o immaginative, come le classifica Teresa, ma sono essenzialmente “intellettive”, dunque più alte e spirituali. Lei ad un certo punto le spiega… ma, non dobbiamo ingannarci – un po’ come quando leggiamo l’Apocalisse – dobbiamo fare attenzione a capire correttamente. Caterina userà dunque immagini, sensazioni. Per la verità si presenteranno fenomeni anche corporei che potrebbero sembrare scioccanti, come alcuni fatti narrati nella vita dei mistici, di fronte ai quali bisogna – come dire – avere lo stomaco buono, fermo. Cose di fronte alle quali dobbiamo saper cogliere il cuore della narrazione, il senso del linguaggio mistico e l’ardore che spinge tali anime a non essere più padrone di sé, ad essere “fuori di sé”; l’estasi non è altro che questo impeto incontenibile che induce a fare cose per noi inconcepibili.

La comprensione del linguaggio di Caterina rimane il nostro intento… Faremo attenzione a come parla. Da questo punto di vista il testo non è facile… Sembra una normale narrazione, in realtà è qualcosa di più complesso. Per questo vi chiedo pazienza e attenzione.

Inizierò quindi a leggere dal cap. 1: ‘la conversione e la vita’ e, man mano, mi fermerò a spiegare l’opera.

Sceglieremo delle pagine… i primi quindici capitoli della Vita; non leggeremo tutto, a voi il compito di approfondire, di terminare l’opera.

Come in ogni agiografia che si rispetti ci sono anche degli episodi speciali, dei fatti premonitori, ma… leggiamo! Io trascrivo, di seguito, il “parlato”… (abbiamo scelto il “grassetto” per lo scritto di Caterina e il “corsivo” per il commento).

LETTURA: Capitolo primo, intitolato La mirabile conversione e la vita di donna Caterinetta Adorno:

“…a otto anni cominciò ad avere dal suo Signore istinto di Dio, gusto e sentimento…

Ai nostri giorni ha vissuto una certa creatura, figliola del Dio eterno, chiamata Caterinetta Adorno, genovese, nobilissima. All’età di circa otto anni[1]questa figliola del Padre eterno ebbe dal suo Signore un istinto di penitenza: dormiva sulla paglia, sotto il capo si poneva un legno e quando andava nella camera e vedeva l’immagine della pietà, tutte le carni le si affliggevano per il dolore e per l’amore di tanta passione che quegli aveva portato per amore nostro. Così andava vivendo con una grande semplicità, senza mai parlare ad alcuno, obbediente ai suoi genitori e ben ammaestrata nella via dei comandamenti divini con grande zelo di virtù.

A dodici anni poi aveva corrisposto all’orazione, e le sopraggiungevano certe fiamme d’intimo amore e compassione della passione di Cristo, con altri istinti assai buoni delle cose di Dio.

Queste affermazioni sono chiaramente postume… non le scrive lei… sicuramente son opera del cenacolo che si era formato intorno a lei, composto di figli spirituali, sacerdoti e laici (la prima Compagnia del Divino Amore si costituì proprio a Genova per lo zelo di alcuni cittadini genovesi mossi da Caterina Fieschi, nel 1497). Ed è proprio da questo punto d’arrivo (cronologicamente vicino) che guardandosi indietro, si rammentano pochissimi episodi, che vengono riletti. Qui in questo brano se ne narrano due, ma vedete, l’autore… probabilmente il Marabotto, suo “padre” e “figlio” spirituale, va subito al punto cruciale: le sopraggiungevano certe fiamme d’intimo amore e compassione della passione di Cristo

Qui c’è “amore” e “compassione”, intesa come capacità di “patire–con”, cioè di uniformarsi a Cristo. Caterina, come d’altronde molte altre mistiche, è sensibilissima a questi due punti e pilastri della spiritualità cristiana; anche Teresa d’Avila, che era già monaca nel Convento dell’Incarnazione, ha questa “svolta” di fronte alla statua di Gesù flagellato alla colonna… A Caterina le carni le si affliggevano per il dolore e per l’amore, ecco di nuovo i due elementi.

Sono proprio i temi più importanti. Se si parla di “dolore”, dobbiamo cercare di capire perché il dolore, e che genere di dolore è questo di cui la Santa parla… è comunque sempre amore, perché dolore e amore qui sono la stessa cosa… o meglio, non proprio la stessa cosa, ma l’uno è legato all’altro, e l’uno c’è perché c’è l’altro… e aggiunge il testo: A dodici anni poi aveva già corrisposto… Non abbiamo ancora letto S. Teresa di Gesù Bambino, ma dovete sapere che queste cose sono possibili anche quando si è molto piccoli. E’ accaduto più volte nella storia della Chiesa, che dei bambini, dei ragazzi, abbiano vissuto un rapporto d’amore speciale con Dio.

Al cap. 2 si legge: Quando ebbe circa tredici anni, fu ispirata a entrare in religione e si manifestò ad un monastero in Genova, che si chiama Madonna della Grazia dell’Osservanza, nel quale era una sua sorella;[2] ma poiché era troppo piccola non vollero accettarla, benché il suo confessore ne presentasse istanza, conoscendola egli meglio delle monache; eppure non fu accettata e lei rimase con grandissima pena. Entrare in religione allora significava “voler farsi suora”, ma… stesso discorso: poiché era troppo piccola non vollero accettarla.

A 16 anni i suoi genitori la fecero sposare, contro la sua volontà.

Il matrimonio, allora, non era lo sbocciare spontaneo di un amore tra due giovani, ma un “affare” concertato tra le famiglie delle due parti. Un’ignara fanciulla fu, così, immolata sull’altare del calcolo politico e dell’interesse economico. Era il 1463. I coniugi restano per un paio d’anni nella casa di lei per poi trasferirsi in una residenza del marito in via di S. Agnese. La coppia non è bene assortita. Giuliano (il marito) è un adulto con alle spalle anni trascorsi nel Mediterraneo orientale; è alquanto superficiale, rozzo, dedito a vita sregolata e dispendiosa.

Leggiamo: Giunta all’età di circa sedici anni i suoi genitori la maritarono,[3] e poiché lei viveva con grande semplicità, soggezione e riverenza verso i suoi genitori, sebbene malvolentieri, ebbe pazienza. E aggiunge il Marabotto: Ma la bontà divina che sempre provvede a tutti, principalmente a quelli dei quali vuol avere cura speciale, affinché non ponesse in terra il suo amore in alcun luogo, le diede un marito che le fu tanto difforme nel vivere umano e la faceva patire a tal punto da sostenere appena la vita. E’ incredibile quello che dice Caterina… e il modo di agire del Signore! Vedete? Questa è una testimonianza postuma su di lei, sul suo passato. A noi sembra un destino ingiusto, quello di Caterina, un inferno, se il marito la faceva patire a tal punto da sostenere appena la vita; scorgere, in questo volere divino, un bene per lei, potrebbe sembrare illogico, invece… Certo, dobbiamo fare attenzione, il testo non è “Parola di Dio” come la Bibbia, e non dobbiamo accoglierlo come rivelazione divina, tuttavia queste opere hanno una loro autorevolezza, perché ci dicono come questa lettura che stiamo facendo sia “profetica” per l’azione dello Spirito Santo in noi, che matura la nostra fede facendoci vedere il disegno nascosto in maniera più chiara. E’ il disegno di Dio che possiamo comprendere leggendo i testi che la Chiesa ci propone e canonizzando i Santi.

Con questo non stiamo dicendo che approviamo l’azione di un marito infedele e violento, ma semplicemente che una lettura profonda, fatta sotto altra luce, permette di comprendere fatti che pure non sono giusti, buoni, corretti, ma che – attraverso le testimonianze dei Santi – riusciamo a interpretare in chiave salvifica. Ci siamo sbagliati, non ci siamo sbagliati? Qui non si tratta di esprimere un’opinione, ma di leggere un’esperienza di vita, che, di fatto, si è svolta così, che a noi piaccia oppure no. Quando la Chiesa propone certe figure a modello di vita, canonizzandole, ci dice che in loro c’è stata un’interpretazione autentica dei fatti… tutto qui; Attenzione a cosa abbiamo letto: Ma la bontà divina … sempre provvede a tutti, principalmente a quelli dei quali vuol avere cura speciale, Che Dio provvede a tutti è una legge generale, ma poi, il lavoro che fa con il singolo, nella sua provvidenza, diventa con alcuni “una storia speciale”, una storia singolare… cioè non è mai una ripetizione, mai una fotocopia, una cosa schedata, è sempre qualcosa di unico, di irripetibile, che Dio costruisce solo per te. Se ci si entra, immedesimandosi in chi la vive, la si comprende, come una storia di amore, di elezione.

Attraverso i Santi, dice la Costituzione conciliare Lumen Gentium al c. 51, Dio parla con ciascuno di noi, perché facendo storia con loro, intende entrare in comunione e fare storia anche con noi, e chiarirci tante verità. Non è qualcosa di alternativo alla Scrittura, ma una chiarificazione della definitiva rivelazione scritta.

E lo scrittore di Caterina dice che il Signore operò in lei così, “affinché non ponesse in terra il suo amore in alcun luogo”, e questo – vi renderete conto – che nella sua vita significherà “mille cose”. Vedremo, tra breve, che lei, di tutto questo, “sarà consapevole”. Vi farà impressione vedere come lei per principio rifiuterà ogni consolazione, ogni visione, ogni aiuto, per principio, così come più tardi tale scelta sarà codificata da S. Giovanni della Croce; lui teorizzerà su questo, quando dirà: “Respingete ogni cosa!”. Lei, Caterina, istintivamente, per il principio dell’amore, dirà: “non mi servono tutte queste cose… che me ne faccio?… Io non ho bisogno di testimoni, di conferme, tra me e Te non ci dev’essere nulla. Ed è davvero impressionante capire con quanta chiarezza e forza lei dice questo!

Comunque, i primi dieci anni di matrimonio furono vissuti da lei con grande pena… poi il Signore la chiamò in modo mirabile, ma, dice il testo: “circa tre mesi prima le diede una certa pena di mente con una ribellione interna a tutte le cose del mondo.” “Fuggiva la compagnia delle persone del mondo e aveva una certa tristezza da essere insopportabile a se stessa, non sapendo però quel che avesse voluto.

Dei sopraddetti dieci anni, negli ultimi cinque si diede alle cose del mondo, cioè a fare come le altre, non tuttavia in cose peccaminose. Stando in tanta tristezza di cuore faceva ciò per sopportare la vita, e questo suo darsi da fare come le altre nei cinque anni precedenti fu perché pativa della sopraddetta tristezza così tanto da non trovare alcun riparo; eppure non veniva meno la tristezza.[4]

Come vedete questo è il racconto di qualcosa che accade in lei. Sente questa ribellione per le cose del mondo… ma ciò non vuol dire che noi, leggendo, dobbiamo dire: “bene, anch’io farò così… Immagino che questo per voi sia chiaro, sia scontato, quasi banale…Non siamo esortati ad emulare Caterina, dobbiamo soltanto “leggere” la sua esperienza, che non è stata programmabile, né per lei né per noi. Per noi questi concetti sono solo segnali esterni, per lei erano invece dei segni evidenti, delle mozioni interiori, che completavano pian piano l’opera che Dio stava compiendo.

L’inquietudine, la pena di mente, e la ribellione, sono i sentimenti del “suo” cuore. E’ lei che li descrive così… io non posso immaginare altro…

Siccome la famiglia di Caterina era blasonata, di nobile stirpe, il marito, Giuliano Adorno, capitan d’armi molto ricco, sposando lei, vuole acquisire il titolo nobiliare dei Fieschi.

I Fieschi erano una famiglia nobile in decadenza; il marito invece era un rampollo in ascesa, un po’ rozzo, collerico, sanguigno, attaccabrighe, dissipatore… un militare d’alto grado (reduce da un’avventurosa permanenza nell’isola di Scio (Chio) – feudo della potenza Adorno in Oriente – con dietro un… corteggio di 5 figli naturali illegittimi); Giuliano era un donnaiolo, che la fece soffrire molto, come abbiamo già detto. Ora, dovete sapere che, per sanare una situazione insanabile, amici e parenti, cattivi consiglieri, cominciarono a fare pressioni sulla giovane sposa perché, come tante altre donne, abbandonasse la sua vita ritirata e austera e si tuffasse nella società del suo rango. Era l’invito alla vita frivola. Probabilmente le sue amiche, per farle riafferrare il marito infedele, le avranno suggerito di ripagarlo con la stessa moneta, chissà… Essa cedette a queste tentazioni e, in questo primo decennio matrimoniale, dopo cinque anni di desolazione, seguirono per lei cinque anni di vita mondana (balli, ricevimenti, abiti sontuosi, gioielli). “Faceva ciò per sopportare la vita”, dice il testo.

Ma nel decimo anno del suo matrimonio, forse nauseata proprio di quella vita, cominciò a sperimentare questa grande tristezza. Significa che non trovava più gioia e consolazione in niente, e si sentiva vuota. In questo spasimo dell’anima, il pensiero della morte si affacciò naturalmente in lei… avvertì la spinta al suicidio. Leggiamo il perché:

Pativa ancora grandemente per la natura tanto contraria del marito, quando un giorno, la vigilia di San Benedetto,[5] essendo andata nella chiesa di questo santo, disse pregando: «San Benedetto, prega Iddio che mi faccia stare tre mesi a letto», quasi come disperata per la pena da non sapere più che fare.

All’indomani di quella strana richiesta a San Benedetto, Caterina si recò, ancora una volta, dalla sorella religiosa Limbania, nella Chiesa di S. Maria delle Grazie (oggi scomparsa), per aprirle il cuore e versare qualche lacrima. Limbania, consapevole della situazione infelice della sorella e consapevole del potere dei Sacramenti, invita Caterina a confessarsi, ed essa accetta.

Il giorno dopo la festa di San Benedetto (il 22 marzo 1473) su richiesta della sorella, che era monaca nel monastero della Madonna della Grazia, andò per confessarsi con il confessore delle monache.[6]

Arriva il confessore, lei s’inginocchia ma, prima ancora di poter aprir bocca: “Quando gli fu inginocchiata innanzi, subito ricevette una ferita al cuore di un immenso amore di Dio, con una vista della sua miseria, dei suoi difetti e della bontà di Dio.[7] L’illuminazione fu istantanea, assoluta, incondizionata. Mi viene in mente San Paolo… E’ una folgorazione, che produce in lei una “ferita al cuore di un immenso amore di Dio”. Bisogna tener bene a mente questa data e questa grazia, perché sono il punto di partenza del suo grande destino. Non poteva parlare, non le fu possibile confessarsi, e tornò di corsa a casa, dopo aver chiesto scusa di quella fuga. Fu come una consacrazione alla vita mistica, ma di eccezionale intensità ed effetto; perché, mentre tutti gli altri mistici, generalmente, progrediscono nell’unione con Dio di gradino in gradino (S. Teresa dirà che prima ricevette il dono della quiete, poi l’unione piena, poi le estasi, poi il matrimonio spirituale, procedendo col Signore all’interno del castello interiore dell’anima; S. Giovanni della Croce dirà che lui prima sperimentò la notte oscura del senso, poi la notte oscura dello spirito, poi pervenne all’unione con Dio e al matrimonio spirituale, e paragona questa crescita spirituale alla salita di un monte: il Monte Carmelo). Per Caterina da Genova non fu così. Dio le comunicò in un istante tutta la perfezione, la favorì subito dell’unione trasformante. Perché Dio può fare quello che vuole, e non si lascia condizionare dai nostri schemi teologici, secondo i quali prima avviene la purificazione, poi l’illuminazione e infine l’unione.

E Caterina “vede”. La prima cosa che vede, cos’è? Vede ciò che vedono tutti i veri mistici, quello che ha visto, sperimentato, l’altra Caterina, da Siena: “la conoscenza di Dio” e “la conoscenza di sé”. L’abbiamo letto: “una vista della sua miseria, dei suoi difetti e della bontà di Dio”. C’è una strettissima relazione tra le due conoscenze, al punto che l’una produce l’altra, e viceversa.

Dirà S. Giovanni della Croce: più uno è illuminato, più vede ciò che è spirituale. Non è da tutti “vedere”, non dipende da noi il “vedere”. Noi pensiamo di saper vedere… in realtà siamo, se non completamente ciechi, almeno molto miopi nelle cose di Dio. Anche S. Agostino afferma la stessa cosa. E’ l’invasione di Dio che ci apre alla visione ampia della realtà, e questo accade in modalità molto varie, in noi parzialmente, nei Santi, più prepotentemente, ampiamente. In Caterina in maniera sublime, eccelsa… e per descrivere certe altezze mistiche ricorre ad un linguaggio paradossale. Arriverà a dire che lei vede senza vedere e sente senza sentire.

E in quel sentimento d’immenso amore, (“sentimento” è un’altra parola che dovremo saper leggere; tutti termini che si chiariscono durante la lettura) che procedeva dalla vista chiara della bontà divina, e di un estremo e indicibile dolore, che procedeva dalla vista della sua miseria e delle offese fatte al suo dolce Dio, fu talmente attirata con l’affetto purgato dalle miserie del mondo che rimase quasi fuori di sé e stava per cascare a terra; da dentro gridava con amore infuocato: «Non più mondo, non più peccati». Fu come un grido liberatore, che le uscì dalle labbra. In quel momento se avesse avuto mille mondi, li avrebbe gettati via a causa della fiamma d’amore infuocato che sentiva.[8] Anche qui si riscontra la compresenza di due elementi che lei coniuga continuamente nella narrazione: “immenso amore” e “indicibile dolore”. Come vedete, il sentimento è “duplice”, son due cose che diventano una.

Fu attirata – dice colui che scrive – con l’affetto purgato dalle miserie del mondo che rimase quasi fuori di sé e stava per cascare a terra; da dentro gridava con amore infuocato: «Non più mondo, non più peccati». E aggiunge: “In quel momento se avesse avuto mille mondi, li avrebbe gettati via a causa della fiamma d’amore infuocato che sentiva”.

S. Paolo dice la stessa cosa: “di fronte alla conoscenza di Cristo, tutto io reputo spazzatura”. E lei dice, ora: “Basta! Non più!”… Se avesse avuto mille mondi… lei li avrebbe buttati via. E’ il suo vocabolario, un po’ iperbolico: “mille mondi” “avrei sopportato mille morti” “sopporterei mille inferni”… sono tutte espressioni esagerate, che potrebbero sembrare eccessive per noi, ma con le quali dobbiamo familiarizzare, e che indicano la superiorità assoluta di questo fuoco d’immenso amore che ora brucia nella sua anima, che è esploso e che le permette di essere intrepida, di affrontare tutto senza paura. Gli effetti esterni: fuori di sé e stava per cascare a terra; da dentro gridava con amore infuocato, son cose vere, son fatti accaduti, effetti fisici concreti, che non ci devono meravigliare. La corporeità partecipa grandemente a questo evento sconvolgente… il linguaggio della corporeità è interessantissimo; il corpo parla senza parole, vedremo poi… e la sua diventerà quasi una riflessione filosofica, o comunque teologica, interessantissima. Il suo “venir meno” ricorrerà spesso, e sembra un fenomeno superiore all’estasi. C’è stato un urto così enorme che lei viene quasi gettata in terra… vedete quali effetti fisici ebbe su di lei tale grazia! Pensate alla caduta a terra di S. Paolo in seguito alla folgorazione sulla via di Damasco.

Il dolce Iddio operò in quell’anima in un attimo tutta la perfezione, non per virtù acquisita ma per grazia infusa; la purgò da tutti gli affetti terreni, l’illuminò con il suo divino lume, facendole vedere la sua dolce bontà con l’occhio interiore e l’unì, commutò e trasformò in sé tramite una vera unione di buona volontà, accendendola di tratto in tratto con il suo focoso amore.[9]

E’ evidente che questa è una considerazione del biografo scrittore, il quale pur facendo riferimento ad uno schema teologico classico dello Pseudo Dionigi, di S. Bonaventura, che distinguono tre gradi di perfezione infusa: la purificazione, l’illuminazione e l’unione, tuttavia arriva a dire, e ci tiene a precisarlo, che in Caterina Dio operò in un attimo tutta la perfezione; lei dunque non rispettò questa graduale crescita per certi versi simile a quella biologica, ma ricevette “tutto” “subito”, senza applicazione metodica, senza meditazione, senza ascesi, senza sforzi… e la cosa ebbe una rispondenza a livello fisico, un contraccolpo. Leggiamo:

Mentre quest’anima stava dinanzi al confessore quasi come alienata dai sensi a causa di quella dolce ferita e non potendo parlare, il confessore, non accorgendosi però del fatto, fu richiesto e si alzò. Tornato assai presto, non potendo quella parlare per l’intrinseco dolore e per l’immenso amore, gli disse meglio che poté: «Padre, se vi piacesse, lascerei volentieri questa confessione per un’altra volta». E così fece; partì e andò a casa talmente ferita da tanto amore a lei mostrato interiormente e da contrizione per la vista della sua miseria, che sembrava fuori di sé. Andò in una camera più appartata, e lì piangeva e sospirava con gran fuoco.”

Non riuscendo cioè a contenere l’inusitato diletto, si nascose, si chiuse in una camera appartata. Non accade nulla di esterno… tutto è interno, appartato, nascosto: la camera, la grazia… come la cella di Caterina da Siena, come la settima dimora del castello interiore di Teresa. Vedete che tutto è intimo, interno, profondo. A questo punto, a Caterina da Genova viene insegnata l’orazione “intrinseca”: “Allora lì le fu insegnata l’orazione intrinseca e la sua lingua non poteva dire altro che questo: «Amore, è possibile che tu mi abbia chiamato con tanto amore e mi abbia fatto conoscere in un momento quello che con la lingua non posso esprimere?».”

Su queste affermazioni non c’è nulla da spiegare se non questo richiamo all’orazione intrinseca. Lei la chiama così in italiano, e questo è un chiaro riferimento all’interiorità, al fondo dell’anima (per dirlo col linguaggio dei mistici del Nord). Di che cosa si tratta? La preghiera non è più fatta di parole, ma di silenzio puro. I discorsi infatti si articolano, son fatti di parole, quando invece le nostre facoltà superiori (memoria, intelletto e volontà) si semplificano, perché “rifluiscono”, attirate da Dio, verso l’intimo, verso il fondo del nostro essere, allora l’orazione diventa continua, spirituale e senza intermissione. Noi non possiamo conquistare questo stato d’orazione, ma possiamo solo riceverla. Ecco la meraviglia di Caterina: “è mai possibile che tu mi abbia chiamato con tanto amore e mi abbia fatto conoscere” … ecco la parola chiave, “conoscenza”, nella esperienza mistica “si conosce” in maniera più chiara, si vede con uno sguardo interiore… non significa certo vedere tutto, ma vedere in modo nuovo, in maniera soprannaturale. Se accenniamo alla conversione di S. Paolo, basterebbe rammentare che lui, dapprima non vede, deve essere accompagnato… poi, improvvisamente, quando conosce Gesù, ci vede, vede di nuovo, e in maniera nuova.

Anche nel caso di Paolo è la grazia di Dio che lo prepara, che lo acceca, che lo cambia. La difficoltà, l’incapacità di esprimersi sarà sempre il suo problema, di Caterina come di tutti i grandi contemplativi. “Tutti quei giorni le sue parole erano sospiri tanto grandi che era qualcosa di mirabile, con una contrizione di cuore così estrema delle offese fatte a tanta bontà, che se non fosse stata miracolosamente sostenuta sarebbe spirata, e quel cuore le sarebbe crepato per tanto dolore d’amore.” Si parla di “sospiri”, un altro elemento della corporeità, … tanto grandi che era una cosa mirabile… che se non fosse stata miracolosamente sostenuta sarebbe spirata, e quel cuore le sarebbe crepato per tanto dolore d’amore. Più chiaro di così! Come potrebbe spiegare meglio la coesistenza dell’amore e del dolore? Un amore così grande era straziante per lei…

Ma il suo Signore, il quale operava miracolosamente a quel modo tramite cui gli piaceva farla accendere di più nel suddetto fuoco amoroso e nell’intrinseco dolore, le si mostrò in spirito con la croce in spalla, grondante di sangue, in modo che le sembrava che tutta la sua casa fosse piena di rivi di quel prezioso sangue; e lo vedeva tutto sparso per amore. La qual cosa le accese ancor più fuoco, sì che usciva fuori da sé da sembrare una cosa insensata per tanto amore e dolore”. Cosa segnalo? Che è il Signore che agisce e opera. Il suo confessore inizialmente non comprese ciò che Caterina stava vivendo, ma poi si renderà conto che questa donna era stata consumata dall’amore, bruciata, annientata, in questo fuoco divino. Qui, l’Amore di Dio è abbinato all’immagine del “fuoco” che la brucerà letteralmente. E non c’è ragione di chiedere a Dio: “Perché l’hai fatto?” A volte sarà penoso essere investiti dalle fiamme vive di questo Amore. Caterina sotto la potenza di questo incendio si “accascerà”… ma tali trafitture non significano che lei rifiuti, non voglia tutto questo… anzi! Anela ancor più a tale doloroso gaudio, insopportabile e delizioso, che la consuma, la brucia… Questo sembrerebbe inspiegabile e fuori da ogni logica, in realtà, questa visita del Signore produce proprio questo a livelli così alti. Anche l’altra Caterina, quella senese, accenna ad un Dio che ama in maniera smisurata, che è “pazzo d’amore per la sua creatura”. E ogni visita di Dio accende ancora più la sete d’amore. E lo vedeva tutto sparso per amore. La qual cosa le accese ancor più fuoco, sì che usciva fuori da sé da sembrare una cosa insensata per tanto amore e dolore. Ora il Padre scrittore smorza il linguaggio dicendo che “le sembrava” di vedere con gli occhi del corpo… ma… le si mostrò in spirito. E’ una affermazione calibrata, che afferma la stessa certezza che si ha quando si guarda con gli occhi fisici, del corpo, ma Caterina non vede con gli occhi del corpo… qui, la descrizione diventa indicibile e fa uso della corporeità. A volte, quando voglio dire: “ho capito”, dico “lo vedo”. Questa immagine della visione corporea è un “come se”, ma non una visione corporea… era ben più che una visione corporea. Ecco perché ho usato il “come se”… Se io dico: ruggisco come un leone, non significa che qui si materializza il leone, io faccio semplicemente ricorso ad un’immagine per spiegare qualcosa di inspiegabile. Capite?

Questa vista interiore fu molto penetrante e le sembrava di vedere sempre, anche con gli occhi corporali, il suo amore tutto sanguinolento inchiodato in croce.Vedeva ancora le offese che aveva fatto al suo amore, però gridava: «Amore, mai più, mai più peccati». E si accese in lei un odio di se stessa che non si poteva sopportare e diceva: «Amore, se è necessario, io sono pronta a confessare i miei peccati in pubblico». Poi iniziò la sua confessione generale con tanta contrizione e tanti stimoli che attraversavano l’anima, perché le era interiormente mostrato chi era l’offeso e quanto comportava la sua offesa.” Era pronta ad umiliarsi. Cosa sono i suoi peccati? Lei lo dirà, sono cose terribili… lei lo spiegherà più avanti. Per un occhio estremamente sensibile la minima macchia è immensa perché immenso è l’amore che il Signore infuse in lei.

E sebbene il dolce Iddio nell’istante di quella dolce e amorosa ferita le avesse perdonato tutti i suoi peccati e li avesse bruciato tutti col fuoco del suo immenso amore, tuttavia volendo soddisfare alla giustizia, la fece passare per la via della soddisfazione. “ Ecco l’altro tema tanto caro anche a Caterina da Siena, la “soddisfazione”. Che una volta, nell’antico catechismo, era la quinta condizione per la remissione dei peccati. Per fare benela Confessione, cioè con validità, è necessario rispettare 5 condizioni:

  1. Esame di coscienza: accurata e sincera analisi dei peccati commessi dall’ultima Confessione.
  2. Contrizione (dolore di aver offeso Dio) o anche solo attrizione (dispiacere di esserci rovinati con i peccati).
  3. Proponimento fermo e deciso che, con l’aiuto della grazia di Dio, non commetteremo più quei peccati.
  4. Accusa dei peccati di fronte al sacerdote e loro assoluzione
  5. Soddisfazione (o penitenza), che è un modo con cui partecipiamo alla Croce di Gesù e diamo segno della nostra volontà di conversione.

Ma in cosa consiste la sofferenza vicaria? E’ chiaro come per la comunione dei santi e per essere parte di un unico corpo mistico ognuno possa pregare efficacemente per un altro cristiano, ma forse non ci è chiaro come sia possibile che alcune persone (penso a Veronica Giuliani, Padre Pio, Marthe Robin e Natuzza Evolo) possano caricarsi le sofferenze di altri ed ottenere in questo modo guarigioni per quelle persone per le quali soffrono. Certo questa idea richiama la sofferenza di Cristo che si è assunto i peccati dell’uomo e caricandoli su di sé, li ha espiati! Ma… se il sacrificio della croce è stato perfetto, perché Cristo chiama altri ad unirsi alla sua sofferenza per la salvezza dell’ umanità? Non è stato sufficiente il suo sacrificio?

Ora, poiché Dio ha pure determinato non solo quanto Gesù doveva soffrire nel suo corpo reale e anche quanto doveva soffrire nel suo corpo mistico, si potrà sempre dire che manca ancora qualche cosa alla passione di Cristo, tanto più che la Scrittura stessa attribuisce a Gesù Cristo i patimenti e le sofferenze della Chiesa e di ciascuno dei suoi membri. Infatti Cristo stesso, apparendo ad Anania dice di Paolo: “Và, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15-16). Ecco dunque la spiegazione più comune che viene data nella Chiesa cattolica, soprattutto ad opera di san Tommaso d’Aquino e che ci deve impegnare a fare quanto è stato stabilito da Dio perché possiamo cooperare per la salvezza del nostro prossimo.

Ma tale contrizione, vista e confessione durò quattordici mesi circa. Dopo aver soddisfatto, le fu tolta dalla mente in modo che non vide mai più alcuna scintilla, come se tutti i suoi peccati fossero stati gettati nel profondo del mare.”

Per Caterina questa non è altro che giustizia, e una tale contrizione durò circa 14 mesi. Dopo aver “soddisfatto” non vide più, mai più, i suoi peccati, come se non li avesse mai commessi. Come se essi fossero stati gettati nel fondo del mare.

Siamo alla fine del IV capitolo della Biografia. Quattordici mesi di continuo dolore: ferita, vista e conversione, avvenute a partire da quell’istante, nella soddisfazione, dal giorno di S. Benedetto. Allora, siamo giunti al quinto capitolo: “In quella prima chiamata, quando fu ferita e stava per cascare a terra, fu tratta ai piedi di Cristo e in spirito vide tutte le grazie, tutte le vie e i modi con i quali il Signore con il puro amore l’attirò alla conversione. E in questa vista stette circa un anno finché ebbe soddisfatto alla coscienza per contrizione, confessione e soddisfazione.

Vedete la differenza? 14 mesi, poi si dice “un anno”… Ecco perché si presume che gli scrittori dell’esperienza di Caterina fossero probabilmente due: il Marabotto e un altro figlio spirituale. Il tempo che trascorse tra tali accadimenti e la redazione dell’opera fu piuttosto lungo: venti, trent’anni… dunque è possibile qualche discordanza, qualche imprecisione. Forse c’erano due tradizioni leggermente diverse, comunque l’idea è resa concordemente. La narrazione dell’evento centrale è inequivocabile.

Poi fu tratta dall’amore a riposarsi con San Giovanni su quell’amoroso petto dell’amore suo, e lì vide una via più soave che contiene in sé molti segreti di un amore che rende grati, il quale la faceva consumar tutta d’amore in modo che usciva spesso fuori di sé e per una certa rabbia interiore di odio di se stessa e per una penetrante contrizione spesso strisciava la lingua per terra; niente meno, tanto era il dolore della contrizione e la soavità dell’amore che non sapeva quel che faceva, ma credeva per tale modo di ristorare il cuore stretto da tal grande intrinseco dolore e soave amore.

Eccoci ad ulteriori eccessi che si continuano a scorgere nel testo, …ma centrale rimane l’esperienza dell’amore, che la faceva riposare sul petto di Cristo con San Giovanni. È chiaramente un discorso metaforico del Padre scrittore per indicare l’eccelso grado d’unione a cui fu elevata. Si dice letteralmente: “fu tratta dall’amore”, dunque è Gesù che la invita, l’attira a sé, al suo cuore, perché finalmente si riposi. E, dentro il cuore di Cristo, vede “una via più soave che contiene in sé molti segreti di un amore che rende grati” (qui si vuol dire che rende graditi, accetti, a Dio).

Rimase così tre anni ad arrabbiare (…espressione che allora doveva significare: incendiarsi, surriscaldarsi fino a diventare incandescenti, infiammati da un estremo odio di sé) di dolore e d’amore, con quei suoi intimi e penetranti raggi che le bruciavano persino il cuore. Questo infuocato amore la colpisce, con i suoi dardi penetranti, ardenti; sono come frecce di fuoco che la investono, la feriscono nell’intimo. E questa “fiamma viva” agisce in lei come esperienza “prolungata”, per ben tre anni.

Dopo fu tirata al petto, dove le fu mostrato il cuore di Cristo che sembrava essere tutto di fuoco, dal quale vedeva che lei era accesa; a questa vista quasi veniva meno, e lì rimase molti anni con quell’impressione del suo cuore infuocato, in modo che gettava sospiri da sembrar continuamente accesa in quel fuoco; lì questo fuoco amoroso consumò e il suo cuore e la sua anima furono interamente liquefatti, sicché poi diceva: «Io non ho più cuore né anima, ma il mio cuore e la mia anima sono quelli del mio dolce amore», nel quale totalmente era annegata e trasformata.” Questo linguaggio cinquecentesco è bellissimo, e descrive un’esperienza mistica elevatissima: la “liquefazione”, cantata dai più grandi contemplativi della storia. Prima di Caterina un’altra grande mistica, Margherita Porete, aveva descritto la “liquefazione mistica”, sfiorando il panteismo. A partire dal Cantico 5,6 essa presentava l’immagine della liquefazione per indicare l’essere trasformato completamente in Dio: «È la vertiginosa ascesa che mi rapisce e sorprende e mi unisce al centro delle midolle del Divin Amore, nel quale sono liquefatta», dice quest’Anima». L’anima è come un fiume che si perde nel mare-Dio e si unisce a lui, è come la sposa che diventa una sola carne con il suo Sposo; l’Anima è talmente unita a Dio-Amore che da due gli esseri diventano una sola cosa e in quest’unità si realizza la concordia; due volontà diventano una sola volontà: quella di Dio, come la cera, prende l’impronta del sigillo, così l’Anima prende l’impronta di Dio.

Io non ho più cuore né anima” dice Caterina, perché ormai lei è completamente trasformata in Dio. I suoi riferimenti sono agli elementi della natura: il fuoco che la incendia d’amore, l’acqua dell’oceano divino che l’annega. Nel matrimonio spirituale si è completamente divorati, consumati. Il fuoco è l’elemento che meglio esprime la sua nuova condizione di totale consumazione nell’incendio dell’amore, che diventa fisico in lei.

Fu poi attirata più sopra, cioè alla bocca, e ivi le fu dato un bacio in modo tale che fosse tutta assorta in quella dolce divinità…”

Dopo essere stata attirata al cuore, ora viene portata alla bocca di Cristo Sposo. Il bacio mistico di cui parla Caterina riprende il Cantico 1,4. Mentre prima si è detto dell’unione dei cuori tramite lo stesso fuoco che accende quello di Cristo e quello di Caterina, adesso si espone l’espressione somma di quest’amore, che è il bacio mistico.

“…ivi perdette tutto il proprio sé, dentro e fuori, di modo che diceva con San Paolo: «Io non vivo più io, ma vive in me Cristo». Per questo non poteva più conoscere le operazioni umane, buone o cattive che fossero, ma tutto vedeva in Dio.” Ecco, questa è forse una cosa ben più complicata da capire, vi è una sorta di congiunzione, di fusione unitiva; il bacio a cui accennavamo è proprio di un linguaggio sponsale e mistico… dal Cantico dei Cantici in poi… uno dei momenti più alti dell’unione col Signore; basterebbe riprendere i Sermoni di S. Bernardo, le opere dei Santi Carmelitani, per approfondire la questione, ma non possiamo soffermarci a lungo. Caterina è assorta, “assorbita” nella divinità, anche se questo concetto può essere un po’ ambiguo, perché potrebbe sapere di panteismo. Ma quello che qui ci interessa registrare è che lei “perdette il proprio sé, dentro e fuori”.

“Fuori”, si può capire: cambiano le sue relazioni con l’esterno, ma “dentro”? Cosa significa? Significa che non ha più un’auto-perfezione, diretta, un’autocoscienza di sé, che tutti noi abbiamo; io ho la consapevolezza di me continuamente; e se è “diretta” significa che in qualche modo viene da me, ce l’ho io, e viene da me, da me a me. Alcune volte questa autocoscienza non è esplicita, evidente: ce l’ho, ma non è esplicita; mentre parlo a voi, sono attento a voi, voi a me, e per questo la consapevolezza del sé ora non c’è… ma se mi fermo un attimo, e mi tocco, mi penso, allora ce l’ho di me: acquisto una consapevolezza di me “diretta”; lei (Caterina), invece, perde questo “sé”, è come proprio “tirata fuori da sé”. E… “tirata fuori da sé” non significa che non si riconosca più o non veda più se stessa, ma – ecco la novità – in lei passa tutto “attraverso Gesù”, anche la consapevolezza di sé; è Lui che le fa conoscere ogni cosa. Lei, non conosce più per se stessa, “non poteva più conoscere le operazioni umane, buone o cattive che fossero, ma tutto vedeva in Dio”; questo vuol dire che lei non conosce più le “sue” operazioni umane! A questo punto è Dio che agisce in lei, che opera in lei, e così accadrà… lo vedremo, tantissime altre volte. Come dire: Dio ha spostato la coscienza di sé che noi tutti abbiamo, fuori di Caterina, in Lui, in Dio. E’ – come dire – un agire non da sé, ma attraverso un centro che è “fuori di me”. Mostra dunque una figura ellittica, dove il centro è fuori, non un cerchio, il cui centro è dentro di sé. Questo chiaramente non è possibile per la nostra natura creata, ma ci può essere “dato”, soprannaturalmente. Ciò avviene “in Cristo”, nel Figlio… in realtà è lo Spirito Santo che lo opera in noi, ma i Due sono in comunione, e compiono la loro “missione” in noi. La Trinità, non è che l’unione di tre Persone che “sono” l’una a partire dall’altra, cioè si distinguono nella relazione. Ecco che i Santi si vedono trasformati nella Trinità: vivono come vive la Santissima Trinità, cioè “a partire dall’Altro” e non da sé.

Ora, tutto questo, che risultati ha? Come continuare a vivere in un corpo umano, dentro relazioni sociali umane? Dentro ritmi biologici umani? Dentro questioni e affari umani? Perché, lei, in queste condizioni, prese a gestire un intero Ospedale come quello di Pammatone… Gestiva una grande impresa… per fini caritativi, ma faceva questo. Come si fa? O meglio: qual è il risultato, sentendo che ti si rivoluziona la vita in questo modo? Cosa succede? Attenti! L’agire di Dio non è mai un problema. Osserviamo i risultati: visto che Dio fa così, cosa accade? Perché “accade”, non è che devo imparare, io, qualcosa o devo gestire una situazione nuova… come quando viene a mancare una persona cara e devo – che so – cambiare abitazione, o arrabattarmi da solo… Che cosa succederà a Caterina? Non è divenuta una macchinetta, una marionetta… no, no! Dio lascia spazio, amplifica la libertà, lo vedremo… ma lei sempre più capisce che le cose terrene sono passeggere, devono finire, sono una semplice parentesi, e che l’Eterno, Colui che è per sempre, sta entrando… pur rispettando sempre ciò che è temporale. Pensate che Caterina non ne sbagliava una. Dio non le permetteva di dimenticare nulla di quanto doveva fare. Le rammentava i conti, le spese, le urgenze, la ispirava ad andare da chi aveva più bisogno. E tutti si stupivano del fatto che lei ricordasse tutto, facesse tutto, e tutto bene. Questo ci dà la prospettiva atta a capire quel che leggeremo. Possiamo dunque andare avanti…

Capitolo sesto. “Non appena fu convertita, le fu dato il desiderio della santa Comunione e mirabilmente le era provvista senza sua industria.

Come detto, fu convertita cioè ferita da quella freccia amorosa il giorno seguente alla festa di San Benedetto; poi per la festa seguente dell’Annunciazione della Madonna (il 25 marzo) il suo amore le infuse il desiderio della santa Comunione, desiderio che non le venne meno per tutto il tempo della sua vita. E il suo dolce amore disponeva così bene tutte le cose che le era data la Comunione senza che lei ne avesse cura; Vedete? Come dicevamo poc’anzi, lei non si preoccupava più di tanto, e, puntualmente, le veniva data la Comunione (allora, nell’epoca in cui visse Caterina, non era permesso fare la Comunione spesso. Pensate che, in quel tempo, alle anime più belle, era concesso di comunicarsi una volta al mese, e l’intransigente Savonarola raccomandava ai devoti di accostarsi al Sacramento almeno quattro volte all’anno in più della Pasqua.) così sempre lei trovava che o per una via o per un’altra le fosse provveduto della santa Comunione.

Essendosi una volta comunicata, le venne tanto odore e soavità che le sembrava d’essere in paradiso; Qui, attenzione, Caterina parla di gusti spirituali, di fenomeni mistici (epifenomeni) sensibili, ma voltandosi umilmente verso il suo amore disse: «O amore, forse mi vorresti tirare con questi sapori a te? Da parte mia non ne voglio alcuno, perché questo è solo un mezzo». È la ricerca dell’amor puro e nudo, che distingue i mezzi, le immagini e i doni dall’Amato medesimo. Questa chiarezza e la volontà di non godere dei doni dell’Amato, ma solo di Lui, sono attribuite all’intensità dell’incontro iniziale. Diceva ciò poiché fin dal principio della sua conversione fu tale la sua unione intrinseca con il suo amore Dio e talmente ne restava soddisfatta, che gli domandò per grazia che mai le permettesse alcuna visione né altra cosa esteriore, dal momento che non camminava per fede bensì per esperienza veramente cordiale. “Cordiale”, in questo contesto significa “del cuore”… Quindi non camminava “alla cieca”, ma aveva questa esperienza profonda del cuore. Questo non significa che lei non cammini nella fede. La sua è una fede illuminata, non una visione. Della fede lei ha la certezza, che non si acquisisce con una pratica esteriore, fatta di esercizi e di sforzi. Anche le verità della fede, i concetti a cui aderiamo son tutte cose estrinseche, frutto di applicazione; lei ha delle certezze interiori, che il Signore le dà, e che son frutto della sua unione con Dio. A questo punto lei lascia con facilità tutte le soddisfazioni terrene, di ogni genere e punta su questa certezza della fede. La visione l’avremo in cielo… la visione è quella “beatifica”, dei beati, in paradiso. Qui noi possiamo ricevere l’infusione della certezza: la certezza della fede. Caterina ricevette una “certezza incrollabile”, perché comprendeva che tutto ciò che le accadeva, in bene e in male, era solo un dono che Dio le faceva … e non rispondeva che ad un disegno d’amore.

Capitolo settimo. Venticinque quaresime e ventitré avventi rimase senza poter mangiare, sebbene cercasse ogni giorno di mangiare. Ecco… cominciano certi effetti, dovuti a questa esperienza celeste.

Un certo tempo dopo la sua conversione, il suo amore le parlò interiormente e le disse che voleva che facesse la quaresima con lui nel deserto;[10] era allora la festa dell’Annunciazione della Madonna. Dunque il 25 marzo. Ma il 25 marzo era già Quaresima inoltrata (la Quaresima liturgica). Però il Signore le chiede di condividere con Lui 40 giorni di digiuno, chiaramente anche dopo la Pasqua.

Così cominciò a non poter mangiare … vedete, questa richiesta del Signore le impedisce di mangiare: “cominciò a non poter mangiare” e rimase senza cibo corporale fino alla Pasqua. Fatti i tre giorni della festa nei quali il suo amore le fece la grazia di poter mangiare, dopo non poté più mangiare fino a un numero di giorni in cui fu compiuta una quaresima, contando quei giorni prima della Pasqua. Compiuti quei quaranta giorni, mangiò come gli altri, senza alcuna difficoltà dello stomaco.[11] Il racconto è semplicissimo, non fa una piega; il punto è capire il perché Dio operasse così in lei Tali “fenomeni speciali”.

Questo non poter mangiare all’inizio le dava grande stimolo, perché non sapeva la causa e per paura d’essere ingannata. Tuttavia si sforzava di mangiare e le sembrava che la natura lo richiedesse, ma non appena aveva il cibo nello stomaco, lo rigettava e non lo poteva ritenere; più cercava di mangiare per stimolo e più lo buttava fuori.

Avvicinandosi poi l’avvento successivo, fece lo stesso; sempre andava a mensa con gli altri e cercava di mangiare ma non poteva. Sforzandosi mangiava qualcosa, ma lo buttava fuori e in nessun modo poteva ritenerlo, sì che sembrava cosa stupenda a lei e agli altri di casa. Immaginate lo sgomento per lei che doveva porsi con queste limitazioni pubblicamente… poverina! Doveva esserle di grande impaccio e vergogna. Immaginate la scena… ogni volta che si poneva a tavola… Lei avvertiva la straordinarietà della sua condizione, ecco perché si ritirava in camera, perché si sentiva un pesce fuor d’acqua… ma ascoltiamo cosa accadde quando il confessore le ordinò per obbedienza di mangiare:

Per sperimentare ogni cosa al fine di poter mangiare, le fu comandato una volta dal suo confessore di dover mangiare: lei allegramente obbedì e si sforzò per quanto le fu possibile e mangiò alquanto con gran pena. Appena ebbe mangiato, fu costretta a buttar tutto fuori e le sopraggiunse un tale accidente che stava per morire; così il confessore, visto ciò, non le disse più di mangiare.[12]++

Nelle vite dei Santi queste cose sono raccontate continuamente… forse è la prima volta che ci imbattiamo in questi fenomeni particolari, ma vi assicuro che sono frequentissimi nelle vite dei grandi mistici.

Di queste quaresime senza mangiare ne fece anche ventitré e altrettanti avventi.[13] In questo tempo non mangiava nulla che lo stomaco tenesse, ma soltanto qualche volta beveva e quello riteneva. Credo che il calore grande che era in quel cuore, che continuamente ardeva con il fuoco dell’amore divino, consumava quello che beveva come fa una pietra infuocata quando le si butta dell’acqua sopra. Ecco, vedete, qui il redattore, fa il suo bel commentino, affermando: “Credo che il calore … ecc.”. Dà cioè la sua bella interpretazione. Il brano seguente lo potete leggere da voi:

Il suo bere consisteva nel prendere un bicchiere, riempirlo d’acqua, aceto e sale pesto e berli mescolati insieme. Cosa insolita e stupenda, perché non vi è stomaco tanto sano che possa sopportare una simile bevanda, per giunta senza mangiare. Ma lei diceva che era tanta l’immensa dolcezza che sentiva anche nello stomaco, proveniente da quella dolcezza che era nel cuore infuocato, che bevendo quella bevanda così aspra le sembrava che le desse refrigerio all’umanità.

Questo suo non poter mangiare era cosa mirabile, perché il giorno di San Martino,[14] (dovete sapere che in alcuni monasteri si fa la Quaresima di S. Martino, cioè si anticipa, si prolunga l’Avvento, fino a farlo diventare di 40 giorni) di sera, cenava come gli altri e riteneva il cibo senza alcuna lesione; dopo non c’era più possibilità di mangiare fino al mattino della Natività di Cristo,[15] quando nel desinare mangiava come gli altri e riteneva il cibo. Poi continuava a mangiare fino alla cena della quinquagesima, in cui cenava come gli altri, e poi non poteva più mangiare fino al mattino di Pasqua, quando mangiava come gli altri e poi così sempre di seguito senza alcuna lesione. Questo non è un fenomeno anoressico perfetto, come affermato da alcuni biografi moderni, perché la causa non è l’anoressia, ma Dio stesso. I medesimi fenomeni, accaduti a mistici e mistiche in tempi moderni, sono stati analizzati con le conoscenze mediche contemporanee, che riscontrano sintomi a volte simili all’anoressia, e potrebbero essere classificate come malattie, ma non nelle cause, perché le cause dell’anoressia come disturbo dell’alimentazione non presentano le medesime cause dei mistici. Non ci sono i riscontri dell’analisi medica. Gli anoressici, le anoressiche, non potrebbero fare certe cose che invece le mistiche fanno, non presentano il loro equilibrio psicologico, ad esempio; inoltre, mentre le anoressiche dimagriscono fino a diventare scheletriche, le mistiche, pur non mangiando, mantengono un peso stabile, un peso forma, e tutte le forze fisiche. Come è possibile che, pur in queste condizioni, Caterina risulti (tra virgolette) “normale”? Perché la causa dev’essere un’altra. Così i grandi Santi, che non dormivano, si estenuavano nelle penitenze, nei digiuni, nelle peregrinazioni interminabili; …non mangiavano, non dormivano eppure erano sempre in forze, pieni d’energia, di vitalità, di equilibrio ed entusiasmo. La causa non era il loro vigore fisico, non dipendeva dalla loro natura umana, ma da qualcos’altro.

Nel tempo in cui non mangiava, cioè negli avventi e nelle quaresime, dormiva bene e lavorava più che in altri tempi, esercitandosi nelle cose dell’ospedale, e si sentiva più forte rispetto al tempo in cui mangiava. Alla gente di casa e alle altre persone che sapevano ciò, sembrava cosa grande rimanere tanto tempo senza mangiare, ma lei lo stimava una minima cosa, perché vedeva che era opera di Dio senza la sua volontà.

Vedeva però chiaramente con l’occhio interiore che di tutto quel che fa Dio non ci dobbiamo meravigliare né gloriare, perché per lui è come niente; (ma, attenti! Non si è santi perché si hanno questi fenomeni… non si misura la santità in questo modo!) chiaramente vedeva che era cosa da niente rispetto a quello che sentiva nel cuore, cioè l’infuocato amore divino, che continuamente gustava e tutta la ardeva tanto tale che il non mangiare le sembrava una cosa da niente.

Cosa ammirevole, piena di umiltà e chiara prova che non poteva stimare questo non mangiare; il che è in sé cosa miracolosa. Lei diceva: «Poiché si deve stimare più l’interiore dell’esteriore, in un’operazione di Dio si stimi più l’interiore dell’esteriore, ancorché il vero lume ci faccia vedere e intendere che non si deve guardare a quello che esce da Dio per nostra necessità e sua gloria, ma solo al puro amore con il quale egli lo fa; vedete, Caterina ci tiene a sottolineare l’importanza e la superiorità dell’interiore rispetto all’esteriore, per lei cioè non conta tanto il non mangiare, quanto il sentire nel cuore il fuoco dell’amore di Dio e quando l’anima vede l’operazione dell’amore così netto e puro, senza guardare ad alcun bene che noi possiamo fargli (perché non ne ha bisogno e non gliene possiamo fare), l’anima lo deve amare con amore puro senza alcun oggetto né riguardo per alcuna grazia particolare che potrebbe avere da lui, ma solo a lui solo, tutto dolce Iddio, e per lui solo, il quale è degno di essere amato senza alcun altro oggetto, né di anima né di corpo senza misura, forma né intelletto».[16] A parte l’efficacia maggiore del testo originale in genovese antico, che non mi sembra reso alla perfezione in italiano, beh, qui Caterina comincia a parlare dell’”amore puro”… lei è “la santa dell’Amore puro”… Dà una sorta di definizione di “amore puro” e, dopo di lei, tutti si sono rifatti a lei in questa dottrina.

Capitolo ottavo. Le grandi penitenze fatte nei primi quattro anni dopo la sua conversione.

I primi quattro anni successivi alla conversione, cioè nel momento in cui ricevette quell’amorosa ferita al cuore, fece grandi penitenze e mortificò completamente tutti i sentimenti e le inclinazioni naturali; quando vedeva che la natura appetiva una cosa, subito gliela toglieva, e quando aborriva qualcosa, subito gliela imponeva. Portava cilici, non mangiava carne né altre cose gradite al gusto naturale dell’umanità, e anche nel dormire usò grande austerità. Quando aveva deliberato di volere o non volere fare una cosa, non sentiva mai più alcuna tentazione verso il contrario.

Tanto era il fuoco che aveva dentro da non far conto di cosa riguardante le faccende esteriori dell’umanità in se stessa, sebbene non ne tralasciasse alcuna delle necessarie. Ora, questo che il Padre biografo riporta nei termini che abbiamo letto, e in maniera un po’ più teorica, Caterina lo dice nel Dialogo spirituale dell’anima e del corpo. Lì si comprende quello che opera lo Spirito nella nostra umanità… e fa vedere acutissimamente, inventando una storiella simpaticissima di questi personaggi: anima, corpo, amor proprio… che dicono: una settimana comando io, una settimana comandi tu, e così via, poi vediamo…, e lì poi vediamo il complicato rapporto che c’è tra l’anima e il corpo… L’anima ha poteri totali, ma se comincia a cederli perché il corpo vuole le sue ragioni… alla fine rimani incastrato completamente… ma siamo saltati al quarantaduesimo capitolo! Noi ancora stiamo all’ottavo. Comunque, questo gioco è difficile, nient’affatto facile da capire, che qui viene esposto in maniera generale e teorica, nel Dialogo invece c’è tutto un ragionamento sviluppato in termini che sono “modernissimi”, espresso persino con una lite tra l’anima e il corpo, ricchissima di problematiche…

Era tanta la veemenza continua e l’ardore della sua mente che non poteva accostarla alcuna tentazione, eccetto l’inclinazione naturale. E così perseverò sino alla fine, ma le inclinazioni naturali andarono annichilandosi a poco a poco. Davvero lei era “determinata”, in maniera davvero incredibile. Era così certa di Dio e di ciò che Lui operava dentro di lei che ‘quasi neanche pensava’. E le inclinazioni naturali si andavano spegnendo in lei. Leggiamo!

Cosa mirabile! Diceva che dopo quella ferita non sentì mai più alcuna tentazione di qualsiasi natura che la molestasse, né ebbe difficoltà a resisterle. A quel cuore, che sempre ardeva di quel puro amore, non si potevano avvicinare le mosche della tentazione. Simpatico questo accostamento del fuoco interiore alle mosche della tentazione… che non si avvicinano mai al fuoco. Diceva ancora che non sentì mai più alcuna difficoltà nelle operazioni sia interiori sia esteriori. Attenzione a non pensare che per Caterina la vita spirituale fosse come una bella passeggiata, senza più difficoltà. Non è così! Non è affatto così. Il dolce amore, che aveva preso possesso di quell’anima, di quel cuore, di quella volontà e di tutto il resto e tutto aveva trasformato in sé con una vera unione, era quello che operava ogni cosa.

L’assenza di una guida spirituale, in questo primo periodo della santa, ha suscitato, presso gli studiosi di mistica, erudite discussioni, forse più tipiche di altri tempi che dei nostri. Oggi rivalorizziamo l’azione diretta dello Spirito nelle anime. Caterina seguiva una via sicura… che, però, ai suoi tempi, diventa un fatto pressoché unico.

Però era solita dire: «Io non vedo né sento di avere anima né corpo né cuore né volontà né altra cosa; e non vedo altro né sento né gusto se non puro amore».

Fece grande resistenza a tutte le inclinazioni (ciò significa che le cattive inclinazioni le aveva… come tutti, ma…); non rispettava né sé né gli altri per operare contro se stessa. Di nuovo si evidenzia questa sua incredibile determinazione nell’esercizio delle virtù. E lei si meraviglia di come sia possibile volere altro che questo, dopo una tale grazia trasformante. Le era cioè difficile il contrario! Capite? Si ritrova davvero in una nuova condizione, nella quale le era quasi impossibile fare una cosa che fosse minimamente – e dico minimamente – contraria alla volontà di Dio. Non appena vedeva di appetire qualcosa riguardante l’umanità, le faceva resistenza e non se ne curava più; così si vedeva, come s’è detto, che aborriva qualunque cosa gliela facesse fare.

Molte volte, dacché vedeva alcune cose orrende al gusto e aborrite dall’umanità, subito se le metteva in bocca e dopo non sentiva alcuna resistenza. Così mortificò tutti i sentimenti. Camminava con gli occhi inclinati a terra e non guardava in faccia mai alcuna persona. Queste affermazioni ricalcano il cliché tipo dell’agiografia dell’epoca. Comunque, il suo era l’impeto con cui affrontava il cammino della conversione. Il suo era come un “nuovo comportamento”. Questo estraniarsi da ciò che la circondava la portava al centro dell’anima verso cui era attratta, non certo per una ricerca d’evasione. Il suo quotidiano diventava sempre più una vita ascetica ed una prassi spirituale mirabili, eroiche.

In quel tempo dei primi quattro[17] anni stava sei ore in ginocchio di continuo e, cosa mirabile, tanto era il sentimento che aveva in quelle ore nella preghiera che, sebbene sentisse la sensualità (“sensualità” qui va inteso nel significato antico, più ampio della nostra comune accezione… comprende dunque anche la stanchezza, la fragilità umana), tuttavia era tanto obbediente allo spirito che non sentiva alcuna ripugnanza, e si compiva in lei quel detto: «Cor meum et caro mea exultaverunt in Deum vivum».[18]

Come s’è detto, in questi primi anni mortificò mirabilmente tutti i sentimenti; andava contro ciò verso cui li vedeva inclinati e questi in tutto obbedivano senza alcuna ripugnanza né contraddizione.[19] Non teneva conto delle proprie inclinazioni, ma “agiva contro” se stessa (è un principio ascetico della spiritualità antica)

Viveva e rimaneva con una natura molto sottomessa a ogni persona, faceva tutte le cose che erano contro l’umanità e in ogni cosa era sempre inclinata a fare la volontà altrui e non la sua.

È cosa mirabile: quantunque il Signore la rendesse subito perfetta in quella prima ferita (sì che in un istante per grazia infusa fosse del tutto purgata negli affetti, illuminata nell’intelletto e unita e in tutto trasformata nel suo dolce amore, in modo tale che non potesse più avere gusto se non nel suo amore), tuttavia Dio volle che fosse osservata la divina giustizia nella mortificazione di tutti i sentimenti. Nonostante i sentimenti in tutto fossero mortificati, quanto al consentire a difetto alcuno per quanto minimo (dunque Dio la voleva libera, esente non solo dal gusto in quanto tale, ma esente dal più lieve difetto; il difetto, l’imperfezione – diremmo noi – inclina a ciò che non è coerente con la volontà di Dio), tuttavia il Signore le lasciava vedere la loro inclinazione naturale e quali in realtà essi fossero, così lei molto accuratamente li mortificava. Questa si direbbe un’azione, una purificazione, “attiva”; ossia lei ci mette la sua parte, ma anche questa azione umana nasce da quel centro, da quel fuoco, che è l’amore di Dio. Le virtù, Caterina non le ha acquisite tramite sforzi ascetici, ma gratuitamente… le erano “infuse”, per grazia.

Quando operava tali e tante mortificazioni verso tutti i sentimenti, le era chiesto: «Perché fai questo?». Rispondeva: «Non lo so, ma mi sento interiormente tratta a farle così, senza alcun oggetto. Significa che il Signore voleva che lei operasse secondo quel lume interiore che Lui stesso le infondeva, ma senza alcuno “scopo” (oggetto) che non fosse il beneplacito di Dio. Quando Caterina sente che Gesù vuole qualcosa, lei, semplicemente, la fa, perché Lui la vuole. E’ Lui il fine. Lei non ha nemmeno la piena consapevolezza del suo “agire per”… è mossa interiormente a fare una cosa e la fa. Basta. Perché ormai non aveva più nemmeno la percezione di sé; vedete, torniamo a quanto accennato prima… Perché se io dico che una cosa la faccio “per qualche motivo”, sono sempre “io che la faccio”. Lei userà la parola “proprietà”, …se si ha ancora un senso di proprietà, si ha ancora il senso dell’io, del mio. Caterina dunque decide di non pronunciare più la parola “io”. Prima di Lei, anche S. Francesco aveva rinunciato a pronunciare il pronome personale “io” e il pronome possessivo “mio”. Cosa c’è dietro questa scelta? C’è il fatto che lei, non si conosceva più, era espropriata di sé e totalmente presa da Colui per cui viveva, cioè Gesù. Credo che voglia così, ma non vuole che io abbia alcun oggetto». E poi questo fu verificato nel momento in cui non volle che le facesse più alla fine di quei quattro anni, in un momento in cui le fu tolto dalla mente, e quand’anche avesse voluto farle non avrebbe potuto.

Per queste e molte altre cose si vedeva manifestamente che era talmente guidata dallo Spirito Santo, che non poteva fare nessuna cosa in particolare senza il sentimento interiore e l’attrazione; e così alla fine di questi quattro anni …vedete? Per un tempo ben definito: 4 anni… poi basta. Non era lei che si metteva a fare una cosa, ma era il Signore che operava in lei, così le inclinazioni rimasero tutte mortificate e le rimase l’abito virtuoso in ogni cosa senza pena.

In questo tempo ascoltò una predica nella quale fu narrata la conversione della Maddalena, con vocazione interiore ed esteriore, e ascoltando tutti quei motivi della Maddalena, lei diceva in se stessa: «Io t’intendo». Talmente le corrispondeva che sentiva la sua conversione essere simile a quella della Maddalena. Caterina e il Signore, ormai, si capiscono… lei sa ciò che Dio le vuole far sapere. In tutto ha questa “astrazione” da sé, e conosce ciò che deve fare… se deve pregare per una persona o per un’altra… e dice al suo Gesù: “Io t’intendo”.

Capitolo nono. Il seguito di questi quattro anni.

Dopo i suddetti quattro anni, le fu data una mente libera, netta, pura e tutta piena di Dio, sicché non entrò in lei mai più altro. E’ la piena maturità di Caterina: maturità spirituale e mistica, unitiva. Ormai, in lei, non c’era null’altro che Dio… l’amore di Dio e basta. Per lo più andava alla predica ed era tenuta occupata dal sentimento interiore, di modo che non udiva quasi alcuna parola di quel che diceva il predicatore (omelia completamente inutile!). Udiva nell’interiore e in quella dolce luce vedeva altre cose, e non era in suo potere fare altro. Così le accadeva quando era alla Messa cantata (una Messa cantata dura almeno 2 ore!): non udiva né vedeva quanto all’esteriore, ma stava tutta assorbita nel gusto interiore.[20] Mentre noi, oggi, i fenomeni naturali, siamo in grado di esprimerli, con alta precisione, qui invece, siamo di fronte ad uno stato soprannaturale, che potremmo paragonare ad un innesto: Caterina, in qualche modo, non vive più la propria vita, ma la vita di Dio in lei. L’elemento naturale di ognuno di noi, in lei, viene – come dire – “consumato” totalmente… ecco che qui ci sta bene la parola “annichilarsi”… la nostra umanità viene “annientata” e assume la libertà assoluta di Dio. E’ la divinizzazione dell’uomo. Siamo su un altro piano, su un altro livello, estraneo alla sensibilità moderna. Stiamo andando “oltre”, e in lei c’è, possiamo dire, un anticipo dell’oltre. Un oltre che è già qui.

“Cristo in noi”. In fondo è per tutti così… con il Battesimo, ma non ne abbiamo la consapevolezza, l’esperienza.

Il dolce Dio le dava una mente tanto piena d’amore che non poteva dire quasi nulla (è il solito problema dei mistici, di non saper dire nulla di quel che sperimentano); stava nel continuo sentimento e dolce gusto del suo dolce amore Dio. E qualche volta era tanto trasportata, che era forzata ad andarsi a nascondere per suo godimento, perché non fosse vista, poiché perdeva i sensi e restava come morta.

Fino a quando poteva, non si separava mai né cercava mai di nascondersi per suo godimento o sentimento; anzi sembrava che fuggisse dicendo al suo dolce amore: «Io non voglio, o dolce amore, quello che esce da te, ma solo te, amore». Vedete come è chiara in questa descrizione dell’amore puro e della sua relazione “diretta” con Lui? Voleva amare Dio senza anima e senza corpo, cioè senza nutrimento per sé, con amore diritto, puro e sincero. Ma poiché fuggiva questi dolci sentimenti, Dio gliene dava di più.

E tanto e talmente le radicò il puro amore in quella mente purificata, che soleva dire che dopo aver cominciato ad amarlo quell’amore non mancò mai più, ma sempre cresceva e crebbe nell’intimo di quel cuore infuocato fino alla sua fine.

Ciò avvenne perché comprendeva ogni giorno di più la rettitudine e la purezza di questo dolce amore, il quale faceva tanto effetto, che era solita dire al cuore: «Sembra di poter dire non in sé ma nell’amore quel detto di san Paolo: “Chi mi separerà dalla carità di Dio?”[21]», nominando tutte quelle cose che nominò lì a quel proposito. Perché diceva: «Mi sembra di vedere la mente di San Paolo, immobile (immobile, nel senso di “fisso”) a molte più cose di quante non potesse mai esprimere con parole, ma tutto quello che lui disse della fortezza del vero e puro amore era quasi niente, poiché come il puro e vero amore è Dio così chi lo potrà separare da se medesimo?».

Quest’anima purificata era talmente assorta nel suo dolce amore e in un modo tale, che molte volte si andava a nascondere sotto il letto e lì stava con la faccia a terra, fuori di sé, in tanta soavità che non si può dire né pensare, se non da chi lo provasse.

Spesso era chiamata e cercata per tutta la casa e non sentiva nulla, benché gridassero. Talvolta rimaneva come morta fino a sedici ore.[22] Era solita, quando sentiva chiamare, levarsi subito e rispondere e accorrere a tutti i bisogni; per qualunque minima cosa lasciava tutto e andava senza pena alcuna. Quindi non indugiava, non rimaneva lì in contemplazione, ma correva, sollecita a servire, ad operare. Fuggiva la proprietà come il demonio, ma quando usciva da tali luoghi, aveva il volto rubicondo da sembrare un cherubino. Ricordate nella Bibbia, il volto radioso, splendente di Mosè, dopo la manifestazione di Dio sul Sinai?

Capitolo decimo. Era guidata dal suo solo amore senza mezzo di creatura; la perfetta regola che le diede questo suo amore. Ciò vuol dire che lei, in questi primi anni dalla conversione, non aveva un direttore spirituale.

Era guidata dal suo dolce amore senza mezzo di alcuna creatura, né religiosa né secolare; la ammaestrava lui solo nell’interiore con la sua divina e intrinseca locuzione circa tutto quello che c’era di bisogno.

Quando si voleva accostare a una creatura, le dava una pena nella mente[23] che subito era costretta a lasciare; e diceva: «Signore, ti capisco». (Incredibile! Dio era geloso!)

Una volta il suo amore le disse nella sua mente: «Figliola, osserva queste tre regole: non dire mai “non voglio” o “voglio”; non dire mai “mio” ma “nostro”; non ti scusare mai, ma sii sempre pronta ad accusarti». Tre regole che lei, sempre, seguirà. Tre regole semplicissime, tre paroline, che lei ricorderà puntualmente. Così fu ammaestrata alla perfezione in questo modo di tutto quello che c’era bisogno senza mezzo di creatura.

Una volta le fu detto nella mente che prendesse del Padre Nostro “Fiat voluntas tua” per suo fondamento, cioè di tutte le cose dell’anima, del corpo, dei parenti e amici, e di ogni altra cosa che le potesse accadere in bene e in male, di quanto si possa pensare: «Sia fatta, Signore, la tua volontà».

«Dell’Ave Maria prendi questa parola per tua sostanza, cioè Jesus, che ti stia sempre fisso nel cuore, che ti sarà dolce guida e riparo in tutte le tue necessità nel corso della vita presente.

Da tutto il resto della Scrittura prendi per tua sostanza questa parola, cioè amore, con il quale andrai sempre dritta, pura, netta, leggera, sollecita, pronta, illuminata, senza errore, senza altra guida né mezzo di creatura, perché all’amore non serve aiuto; esso è sufficiente a fare ogni cosa senza fatica. Al vero amore, infatti, persino il martirio sembra soave; non si può dire una minima scintilla della forza dell’amore né del suo effetto. Quest’amore consumerà da tutte le cose di questa vita tutte le tue inclinazioni e i sentimenti dell’anima e del corpo».

Una volta, permettendo così il suo dolce amore, ascoltando una predica nella quale fu predicato di tutte quelle perfezioni alle quali si può pervenire in questa vita presente, a lei sembrava che tutte quelle perfezioni e stati che aveva udito li avesse per sentimento e corrispondenza; e non c’era da meravigliarsi, poiché non appena fu chiamata, rispose e acconsentì con tanta veloce corrispondenza del libero arbitrio, vedete che qui è meno magico, meno automatico il consenso umano… perché potrebbe sembrare che Dio non lasci libera la creatura in questa invasione divina, invece no. La volontà umana è sempre rispettata dal Signore. Dio attende il nostro si piacendo così al suo dolce amore, da essere resa perfetta per grazia infusa. Questo è quello che lei sente, gusta, intende e con cui dà ragione di tutte le perfezioni, ma non sa spiegare la via per la quale a quella si perviene, non essendovi pervenuta con un cammino temporale, per grazia o virtù acquisita ma condotta a essa per grazia infusa.

Viveva quasi fuori dei sentimenti dell’anima, sì che non conosceva più né anima né corpo. Diceva di non sentire altro che una dolce pienezza del suo amore Iddio, di non potere né sapere conoscere altro che Dio senza se stessa, come se fosse stata senz’anima e senza corpo; si compiva in lei quel detto: Qui adheret Deo unus spiritus efficitur cum eo.[24] Espressione biblica, paolina, ripresa da tutti gli spirituali… basti pensare al commento che ne fa Guglielmo di Saint Thierry e tante altre citazioni di autori celebri…

Così tutti i sentimenti erano bruciati[25] in quella fornace del divino amore per continua astrazione e unione. Gli occhi vedevano senza dilettarsi, il naso aveva perduto quasi l’odorato, cioè per il diletto, gli orecchi non udivano più cose di questa vita che li dilettassero, il gusto appena per necessità. Quando faceva qualcosa delle sue, le cascavano le mani per impossibilità e piangendo diceva: «O Dio amore, io non posso più»; e così stava lì a sedere uno spazio di tempo, abbandonati così i sentimenti come se fosse stata inferma. E questo le accadeva più una volta che un’altra, secondo la pienezza di quella mente purificata.

Abbiamo concluso la lettura dei primi dieci capitoli della Biografia cateriniana.

Prima di affrontare un’altra decina di capitoli vorrei fare una digressione e accennare alle “Confraternite” o “Compagnie” che fiorirono nel periodo del Rinascimento italiano. L’origine delle confraternite – a dire il vero – è antichissima e la sua lunga storia conobbe un primo periodo di grande successo nel XIII, XIV secolo, quando nacquero le prime grandi Confraternite, che si delineavano come dei veri movimenti popolari. La prima vera Confraternita nacque a Roma nel 1263 col nome di Confraternita del Gonfalone; più vasta risonanza ebbe quella dei Bianchi, che nel 1399 percorse l’Italia, invocando pace e misericordia, raccogliendo lungo il suo percorso tanti consensi da entrare a Roma con 120.000 pellegrini. Nel ‘400 si moltiplicarono queste forme così belle e delicate di assistenza ai poveri, ai pellegrini, agli ammalati. Negli ospedali non si cercava solo di curare il malato, ma si voleva anche consolarlo, con la cura delle linee architettoniche, la bellezza e gli ornamenti degli ambienti; l’ospedale, per l’uomo rinascimentale non doveva essere un tetro luogo di dolore, ma un luogo dove potesse rifulgere la carità. E’ celebre in proposito un passo di Martin Lutero nei suoi Tischreden:

In Italia, dice, gli ospedali sono provvisti di tutto ciò che è necessario; sono ben costruiti, vi si mangia e beve bene, e vi si è serviti con sollecitudine; i medici sono abili, i letti e la mobilia sono puliti e ben tenuti; quando un malato vi è condotto, gli si tolgono gli abiti in presenza di un pubblico notaio che li registra; poi si mettono da parte con cura, ed il malato vien ricoperto di una veste bianca e deposto in un letto ben preparato. Due medici vengono a visitarlo. La pulizia è ammirevole: si toccano i bicchieri con due sole dita: delle gentildonne velate vengono a custodire i malati. Queste opere sono buone e lodevoli; ma il male è che gli italiani credono così di meritare il paradiso e salvarsi per tali opere buone, e questo guasta tutto.”

Non essendo ancora istituite le Congregazioni religiose per l’assistenza dei malati, non tanto le suore ma le gentildonne (come dice Lutero) si preoccupavano della cura degli infermi negli ospedali. Ora, Genova era all’avanguardia in fatto di strutture ospedaliere. Fin dal 1150 era sorto l’Ospedale di S. Lazzaro, destinato ai lebbrosi. Nel 1403 venne fondata una casa, detta della Misericordia, per ospitare i poveri e i malati. Si edificarono anche degli Ospedali minori. In seguito, all’incirca nel 1429, si costruì il grande Ospedale di Pammatone, con l’approvazione del Papa Sisto IV, con l’intento di riunire in esso i degenti di tutti gli altri ospedali (venne eretto per la munificenza di un ricco Notaio: Bartolomeo Bosco. …Durante la seconda guerra mondiale, le bombe lo distrussero completamente).

Caterina, agli inizi della sua conversione, esercitò moltissimo la carità: cercava i poveri per la città. In tutta semplicità, dimessi gli abiti signorili, entrava nei tuguri, saliva nelle soffitte, vedeva da vicino le miserie e i dolori della gente, portando a tutti un dolce sorriso e conforto. Con questa “assistenza a domicilio” iniziò dunque la sua opera caritativa… L’aspetto più singolare della nostra dama è la capacità di accompagnare prove tanto particolari alla concreta attenzione per il prossimo, in un armonioso fluire di un fenomeno nell’altro. Una prima attività la svolse entro l’Ufficio di misericordia (magistratura espressa dal Comune e dalla Chiesa per il soccorso dei derelitti). Fa seguito, intorno al 1480, un taglio drastico: in perfetta armonia Caterina e Giuliano, ormai vicino alle posizioni della moglie, si trasferiscono nel recente ospedale di Pammatone cui fa capo buona parte dell’assistenza genovese. Si legge infatti nella biografia: Stette poi nell’Ospedale Grande di Pammatone, dove aveva cura di ogni cosa, con tanta sollecitudine, che sarebbe impossibile ciò poter esprimere… Qui la donna concentra l’opera a favore del prossimo e supera un contagio di peste; (vi resterà anche dopo la morte del marito, cioè dopo il 1497). Oltre che essere benefattrice, la fiducia che Caterina ottenne fu tale da indurre i protettori del pio ricovero a conferirle il titolo di “Rettora di Pammatone” (nomina che le fu prolungata per ben 32 anni); era divenuta cioè – come dire – Presidente ed Economa dell’Ospedale, che gestiva con assoluta capacità e dedizione: lei sceglieva e organizzava il personale di servizio, i ricoveri, gli aiuti alle persone povere, provvedeva al materiale sanitario e alla cura dei bambini abbandonati. Mirabil cosa ancora è, che avendo per molti anni spesa e maneggiata gran somma di denari per l’Ospedale, nel dar conto che faceva, mai si trovò mancare un solo denaro… Di quel poco che bisognava per sé, usava della povera sostanza sua.” Chiediamoci il motivo di quest’ultimo accenno ad una sopraggiunta povertà. Ecco la spiegazione: contemporaneamente all’inizio dell’opera caritativa di Caterina Fieschi, avvenne il crollo finanziario di Giuliano Adorno, che dilapidò gran parte del patrimonio famigliare. Sulla base di quanto è a nostra disposizione, possiamo dedurre, dai testamenti successivi di Giuliano, da quelli di Caterina e dall’inventario notarile degli effetti personali della Santa che, al momento della sua morte erano rimaste loro poche cose: due sacconi di abiti e di biancheria e alcune suppellettili che non bastavano ad arredare una villetta.

Il Palazzo degli Adorno venne venduto da Giuliano poco prima di morire. Comunque, il marito di Caterina non era ridotto in assoluta povertà come insinuano alcuni biografi antichi; aveva ancora dei possedimenti: due quote dell’Isola di Chio (in Grecia), che valevano più di 30.000 lire (di allora), e luoghi della Casa di S. Giorgio per altre migliaia di lire. E’ probabile che Caterina, dal canto suo, abbia donato ogni cosa, assieme al suo patrimonio, via via, all’Ospedale. In ogni modo, la sua trasformazione interiore e il suo esempio, produssero la conversione del marito (che si fece, con lei, Terziario francescano) e determinarono la ferma risoluzione di Giuliano, di abbandonare il genere di vita condotto fino ad allora, e di associarsi al lavoro della moglie, insieme alla quale decise (nel 1476) di abbandonare la casa in cui vivevano e di trasferirsi tout court all’Ospedale di Pammatone (lasciando parzialmente aperta la residenza di S. Agnese). I due coniugi vissero come eroici santi medievali, insieme, dormendo nello stesso letto, ma come fratello e sorella, dopo aver fatto voto di castità. Giuliano, travolto dallo spirito di sacrificio della moglie, si diede a sua volta a curare I malati, mettendo inoltre tutta la sua esperienza a disposizione dell’organizzazione e dell’ente. Aveva ormai passato la cinquantina; Caterina, poco più che trentenne, doveva essere ancora bella e desiderabile… non fu per lui, quindi, un sacrificio da poco.

Le Confraternite, o Compagnie, sono delle “corporazioni” ecclesiastiche composte da fedeli, in prevalenza laici, canonicamente erette e governate da competente superiore con lo scopo di promuovere la vita cristiana per mezzo di attività caritative e attraverso l’esercizio del culto divino, a partire dal 1264 , data di fondazione della prima grande Confraternita: quella romana del Gonfalone. Nel ‘400 altre confraternite sorsero con lo scopo specifico di provvedere all’incremento degli ospedali per infermi e pellegrini, e ben presto si mutarono in veri Ordini ospedalieri. Molto contribuirono al rinnovamento della vita cristiana sul principio del Cinquecento; soprattutto le Compagnie della Carità o del Divino Amore, fondate nelle principali città con l’intento di provvedere ad una più intensa vita cristiana con una illuminata carità verso il prossimo.

Un grande diffusore delle confraternite fu il Beato Bernardino da Feltre, che predicava ovunque con grande fervore e favorì il sorgere dei Monti di Pietà, i quali, sovvenzionati dalle elemosine dei buoni cristiani, davano denaro a prestito gratuito ai bisognosi. Ma la sua attività non era ristretta solo a questo… Bernardino badava a tutti i bisogni dei poveri, sia temporali che spirituali.

Nel 1490 aveva predicato a Genova anche Fra Girolamo Savonarola, ma non conosciamo i particolari in proposito. …Ora, sappiamo che Caterina fu in relazione con Bernardino da Feltre. Egli soggiornò a Genova dal 9 agosto del 1492, e possiamo dunque supporre che da lui Caterina abbia attinto incoraggiamento per l’opera che intendeva avviare. Sappiamo anche che, i primi di settembre, Bernardino riuscì a convertire una giovane ebrea catalana che le era stata presentata da alcune signore genovesi, e lui la affidò immediatamente a Santa Caterina, perché la istruisse.

Uno dei maggiori discepoli e collaboratori di Caterina Fieschi fu Ettore Vernazza, uomo colto, notaio di grande fiducia, segretario della Repubblica, da lei lanciato nell’apostolato sociale. Il Vernazza, su sollecitazione di Caterina, fondò a Genova un ospedale per malati cronici, il lazzaretto per gli appestati e due monasteri che fossero in grado di soccorrere donne strappate alla malavita oltre ad un ricovero per fanciulle orfane o cadute in povertà. Lo stesso Vernazza finanziò anche importanti opere portuali al Molo Vecchio, ed organizzò, sempre ispirato da Caterina, la Compagnia del Divino Amore.

La Compagnia del Divino Amore di Genova aveva avuto il suo inizio il 26 dicembre 1497 ed è la prima che ci abbia lasciato un ordinamento particolareggiato, che servì ben presto come esemplare per le altre che si fondarono in Italia. Il suo Statuto comincia così: “In nomine Domini nostri Jesu Christi incipiunt capitula fraternitatis Divini Amoris sub divi Heronymi protectione. Fratres, questa nostra fraternità non è istituita per altro se non per radicare et piantare in li cori nostri il Divino Amore, cioè la carità; e perciò è intitulata Fraternita del Divino Amore…”. Con questo Statuto si viene alla costituzione della Fraternita. Era retta da un priore che durava in carica sei mesi e non poteva essere rieletto che dopo un anno e mezzo; lo si eleggeva al primo gennaio ed a Ss. Pietro e Paolo (il 29 giugno), secondo un proprio cerimoniale, e con lui si eleggevano due consiglieri, quindi, per acclamazione, tre aggiunti ai consiglieri. I visitatori degli infermi dovevano anche dispensare le elemosine.

Caterina incrementò il fervore verso il Santissimo Sacramento. Specie nei pericoli di epidemie e pestilenze, la Compagnia del Divino Amore moltiplicava le processioni e portava il Santo Viatico agli infermi (Non c’erano ancora i Ministri Straordinari della Comunione Eucaristica, ma i Religiosi, numerosissimi all’epoca, venivano chiamati e accompagnati dai membri delle Confraternite). L’esempio di Caterina da Genova e dei suoi maestri/discepoli spirituali concorse a diffondere dunque fra i laici, le monache e gli ecclesiastici, la Comunione frequente. Un tempo c’era solo il “precetto pasquale” da rispettare, non dimentichiamolo.

I confratelli dovevano tutti essere persone di buoni costumi e amanti delle cose spirituali, disposti a digiunare un giorno alla settimana, oltre che nei giorni comandati (Mercoledì delle ceneri e Venerdì santo); dovevano anche santificare le feste con opere sante, confessarsi spesso ed esercitare la carità. Contro la corruzione e il rilassamento dell’epoca, possiamo rilevare in Caterina Fieschi una vera e propria bonifica morale in tutta la città e fermenti di vero spirito riformatore. L’apostolato della nostra santa si irradiò e si estese così tanto che non ci è dato di valutarne tutta la profondità…

CAPITOLI 11, 12, 13.

Come vedete, è una sorta di quadro che io sto presentando a voi, attraverso la cornice storica e la presentazione di questo testo biografico, paragonabile ad un quadro, (proprio come quando si va a vedere una mostra e ci si pone dinanzi a una opera d’arte, da certi capolavori siamo interpellati, nel senso estetico, cioè nel fruire, nel godere di una visione, nell’ammirare la composizione venuta fuori dalla capacità interpretativa dell’artista, dal suo talento, dal suo spirito). E anche qui l’atteggiamento è simile; che poi, detto in termini religiosi, questo atteggiamento fruitivo possiamo chiamarlo “contemplativo”, in senso lato, ovverosia, fissiamo, guardiamo, ammiriamo, cerchiamo di comprendere un tessuto (textus) del vissuto di Caterina, che porta verità, una verità da capire, da godere; in questo testo ci sono molte cose belle che ci vengono prospettate, che hanno una forza non solo estetica e quindi attrattiva, ma anche una qualità salvifica da accogliere, perché scaturisca per noi il bene da ciò che viene raccontato. E questo per noi è un esercizio che si confà ad un ritiro; è una sorta di revisione di vita personale, di messa a punto di certi comportamenti… In un ritiro vogliamo contemplare, vogliamo guardare l’opera di Dio, che in questo caso è la vita di questa persona.

Questo mi sembra l’atteggiamento giusto da assumere nel porci dinanzi alla presentazione di un testo qualsiasi.

Capitolo undicesimo. Sembrava che anche l’umanità gustasse il suo amore…

Questo è un capitolo di una certa importante che ha riscontro nel Dialogo; Dialogo sotto forma di sceneggiatura, di scenografia teatrale, qui invece (nella Biografia intendo) in forma più teorica. Dico importante perché determina e dice che l’umanità non rimane fuori, anzi, partecipa della gioia, del gaudio, ma fino a un certo punto, con un certo limite, essendo poi davvero un passaggio verso l’altro, come accadrà nel trapasso della morte.

Quando aveva e sentiva tanta soavità spirituale con tanto sentimento che non poteva agire né esercitare i sentimenti , cioè quando era così presa da questo fuoco; e come vedete io ho messo nella nota, la domanda è sempre la stessa, “come fa a sentire senza i sentimenti? Ma è il suo linguaggio tecnico, mistico, che lei usa quello che utilizza per dire una cosa che non si riesce a dire… Sì, noi usiamo un linguaggio che si riferisce direttamente a fenomeni naturali, per i quali i nostri termini usuali sono appropriati, mentre lei si sta riferendo a delle esperienze che non sono del tutto naturali… per cui il suo linguaggio diventa inadeguato… ma non ne abbiamo altri per poter esprimere l’inesprimibile. Quindi si entra continuamente nel mondo della metafora, del paragone, dell’immagine, e così via… diceva all’umanità: «Ti accontenti di questo nutrimento?». E quella diceva di sì e che avrebbe lasciato ogni altro nutrimento che avrebbe potuto avere in questa vita (mentre in altre fasi recalcitrava, come si vedrà nel Dialogo, dove anzi, portava l’anima a sé, all’umanità)

Ora che cosa riceveva l’anima quanto al gusto allorquando l’umanità, che sembra contraria allo spirito (e dice “sembra” contraria allo spirito), si nutriva anche con tanta pace ed unione insieme, e ciò sin dall’inizio?

L’idea è, come dirà nel Dialogo, quella di un’umanità che sembra non nutrirsi e rimanere totalmente a digiuno, e ha molta fame, ma, a un certo punto, si lascia portare docilmente e si nutre anch’essa, e non rimane a digiuno, di nutrimento ce n’è per lei.

Verso la fine, invece, era a un altro modo: aveva un amore tanto puro e penetrativo nel cuore, che sentiva tanto fuoco che anche all’esterno la pelle non si poteva toccare …qui l’umanità sembra un po’ schiacciata dal divino. Anche S. Filippo Neri subì un contraccolpo dall’irruzione violenta di Dio…; sembrava che avesse una piaga davanti e dietro all’altezza del cuore e vi teneva la mano per ripararla. Il cuore le ansimava come un mantice e questo accadeva più in un giorno che in un altro, perché non avrebbe potuto sopportarlo due giorni consecutivi senza morirne, secondo quanto si comprendeva allora di lei.

Queste sono manifestazioni esterne nell’umanità, nella corporeità. La debolezza del corpo era prodotta – come dirà altrove – da “li assalti del dolce Dio” e da questo “continuo estremo fuoco amoroso, che di continuo le bruciava nel cuore”. Da questa perenne combustione procedeva quel raggio che, nel linguaggio spesso fiorito delle grandi contemplative, si trasforma in “saetta” o “dardo d’amore”, che nei testi cateriniani viene modulato nelle più svariate dizioni. Una saetta da cui lei è ferita. Aveva l’impressione che il cuore le si riducesse in polvere… ed era solita, come per riparo, tenervi sopra la mano, dice il biografo…

Quando quell’eccesso di fuoco era passato un po’, le rimaneva il cuore liquefatto per il fuoco di tanto amore, e quell’impressione le durava alcuni giorni; poi quell’eccesso le ritornava come prima un’altra volta, e ogni volta più grande. Ma di quest’ultimo l’umanità non si poteva nutrire, piuttosto era per lei un martirio, al punto che, quando vedeva dei morti ovvero sentiva l’Ufficio o la Messa dei morti o sentiva campane, sembrava che l’umanità si rallegrasse e riposasse, perché per lei era meglio morire che vivere in tanta alienazione e sottrazione di quelle cose dalle quali potesse avere qualche nutrimento o supporto. Si era ridotta a non avere quasi altro supporto se non quando dormiva; allora le sembrava di uscir fuori di prigione, perché quel fuoco penetrativo non la occupava tanto. La cosa ammirevole era questa: per il tempo in cui perseverò in quelle aspre penitenze la sensualità non contraddisse mai, ma in tutto era obbediente e godeva, sebbene tanto patisse in questi fuochi d’amore tanto ardenti.

Quindi non si trovava male, non erano per lei cose insopportabili. Per chi ne è fuori sembrano torture da inorridire, per chi ne è dentro non è affatto così.

A chi considera bene, tutto era operato con somma sapienza dal dolce Iddio.Cioè davvero Dio orchestrava e faceva sì che nulla si distruggesse – Dio non distrugge mai la sua opera – . Questo è quello su cui, nel Dialogo, l’umanità fa forza, la salvaguardia di sé, la ragione che l’anima adduce per non andare dove Dio la vuole portare.

Quasi una lotta tra la natura e il soprannaturale.

L’umanità è soggetto capace delle penitenze di carattere umano, ma non è capace di tanto amore infuocato; (c’è un limite) ma bisognando far da supporto allo spirito, quasi interamente divenuto fuoco d’amore per vera unione e intima trasformazione, diveniva per lei più di un martirio da sopportare quel che era fuori e sopra le forze e della capacità sue.

Lei è mossa interiormente, noi possiamo essere portati a qualcosa…, ma qui è diverso, perché quello era fuoco, Dio, è il sopra-naturale in lei, Caterina era trasformata e unita intimamente allo Sposo divino, e allora non regge più sopra e fuori le sue forze e capacità. Da questi “assalti” il suo corpo ne restava come forzato, “rotto e pesto”.

C’è una domanda: perché succede questo? Perché una persona che è ancora sulla terra deve incendiarsi? Facendo una allusione all’arte, potremmo porre lo stesso interrogativo: perché Michelangelo ha fatto la Pietà a quel modo, e Tiziano o Caravaggio, hanno inserito quegli elementi nelle loro opere? A parte il valore che può avere per gli altri, ma non è solo questo. Non è che mi deve succedere qualcosa di clamoroso per arrivare a servire agli altri…

Che l’esperienza mistica di Caterina operi questo effetto, niente da obiettare, ma che essa debba accadere anche a me per poter servire gli altri, non è pensabile, non è possibile. Ci vuole una intrinseca bontà personale, certo, ci vuole l’impegno di mettersi al servizio della verità, in questo caso, di Dio che è Amore… Non ci sono altri modi per spiegare la carità… Per “Amore” si intende la perfetta dignità, compiutezza, grandezza, bellezza di Dio come persona e anche dell’uomo nella sua nobiltà. Tutto è fatto ad esaltazione di me come persona, come dignità, come bellezza. Certo, se Dio dovesse invaderci in maniera travolgente (come ha fatto con Caterina) per indurci alla carità, questa sarebbe piuttosto una prevaricazione violenta di Dio su di noi. Ma a lei è accaduto così… e per questo lei era felice. C’era in lei un eccesso di felicità, in una contraddittorietà di ristrettezze oggettive, di consumazione del corpo, di limitazione della natura… ciò sembrerebbe contraddittorio, ma solo se visto in una modalità che parte dal basso. Dal basso non si capisce questo. E, infatti, Lui l’ha presa dall’alto, perché se non c’è una chiave per entrare in ciò che accade, a partire dal trascendente, dal soprannaturale, e dal punto di vista cristiano, non si può comprendere nulla della nostra fede, né di Dio che è Trinità, né dell’incarnazione, della passione, morte e risurrezione… cioè, se non c’è questa chiave di lettura, una cosa del genere è semplicemente impensabile.

È per via dell’Incarnazione che è possibile che accada tutto questo. Come dice P. Max, noi siamo risorti adesso, la resurrezione è in opera “adesso” e quindi è chiaro che la forza della risurrezione si sprigiona già sulla terra in una corporeità vivente, in una umanità che vive, in terra, con più o meno forza e più o meno visibilità esterna.

(Presentazione del libro di P. Max de Longchamp: Ressusciter d’entre les morts. Interessantissimo!)

Capitolo dodicesimo. Si esercitò da principio per un certo tempo nelle opere della pietà.

Il suo amore le lasciò per un certo tempo esercitare le opere della pietà, così andava per la città cercando i poveri (quelle che noi chiamiamo opere di carità). L’Amore che la muoveva, la indirizzava a compiere quelle opere che avevano suscitato i suoi sentimenti fin di bambina, e che ora prendono il nome “di pietà”. Era condotta da quelle che erano in quel tempo deputate a tale ufficio e le davano i soldi e altre provvigioni per quei poveri e infermi. Ella andava e puliva tutte le miserie e le brutture dei suddetti poveri ed infermi, e quando lo stomaco si muoveva a nausea per tali brutture, metteva in bocca alcune delle brutture che maneggiava per vincere quella ribellione della sensualità.

Prendeva i vestiti degli infermi, pieni d’immondezze, e se li portava a casa, li puliva e li riportava; e questo frequentemente. La cosa mirabile era che mai si ritrovava addosso simili immondezze benché tanto le maneggiasse. Serviva gli infermi con ammirevole affetto tanto nelle cose dell’anima, ricordando loro le realtà spirituali, quanto nei loro bisogni corporali e non schivava alcun infermo, qualunque infermità avesse. Quindi questa indifferenza… che fa parte dei suoi principi. Comunque Dio le fece far questo solo per un breve periodo. Era veramente guidata, perché aveva questa forma assoluta di libertà.

Rimase poi all’ospedale per tutta la sua vita (i coniugi Adorno vendettero il palazzo e si trasferirono lì per tutta la vita) e aveva cura di ogni cosa con tanta sollecitudine che sarebbe impossibile esprimerlo, in modo che né a motivo della sollecitudine le mancava mai il sentimento del suo dolce amore Dio, né per il sentimento mancava qualcosa all’ospedale.

Ecco il punto chiave: totalmente attratta da questo vortice divino acceso… E con ciò mai una mancanza nell’ospedale che lei dirigeva.

Questo era tale da esser giudicato da tutti cosa miracolosa, dal momento che sembrava impossibile che una persona tanto occupata nelle faccende esteriori (quante volte ci siamo chiesti questo punto? Ovviamente è un dono di Dio ed è il normale modo con cui Dio vuole condurre una persona, quella cioè della continua preghiera nel continuo dialogo con lui e nella perfetta applicazione a qualunque tipo di mestiere al mondo), potesse nell’interiore sentire di continuo tanto gusto. E viceversa, sembrava impossibile che una persona annegata in tanto fuoco di amore divino si potesse così di continuo esercitare nelle faccende e avere tanta memoria di tutte le cose, dacché mai una sola volta si dimenticò qualcosa di necessario.

Cosa mirabile: fece le spese per tanti anni di continuo e per le sue mani passavano tanti soldi, ma mai un sol denaro si trovò mancante nel resoconto.

Ben sembrava che il suo dolce amore operasse ogni cosa, perché essendo talmente unita con tale suo dolce amore, tutto quel che faceva, con lei lo faceva questo dolce amore. Benché lei fosse in tutto dedita e occupata nelle faccende dell’ospedale, mai volle godere o usare per il suo vivere una minima cosa della sostanza di tale ospedale, ma usava tutto dalle proprie sostanze.

Capitolo tredicesimo. Aveva la vera, chiara e mirabile conoscenza di se stessa e del suo amore Iddio.

Aveva una mirabile conoscenza di se stessa in modo che sembrava quasi incredibile alle menti umane. Questa santa anima tanto era purificata in sé e tanto illuminata, unita e trasformata nel suo amore Iddio che non parlava con lingua umana quanto al sentimento di quel che proferiva, ma piuttosto con lingua angelica e tutta divina, di modo che non é possibile intendere né capire quanto ad intelletto umano …ciò che dicevo poco fa: parlava con suoni umani, usando la bocca, dicendo parole, ma la sua era piuttosto una lingua angelica, una lingua divina, che noi possiamo intendere solo con l’intelletto illuminato dalla fede. È vero che le menti umili e desiderose di Dio possono almeno devotamente ammirare e gustare qualcosina per eccesso di mente.

Diceva: «Se io avessi patito tutti i martirii che hanno mai patito i martiri, anche l’inferno per amore di Dio (come soddisfazione presso Dio), sarebbe ancora in certo qual modo un’ingiuria fatta a questo Dio rispetto all’amore e alla bontà con la quale ci ha creato e ricreato e particolarmente chiamato».

Adesso comincia a parlare per eccessi.

Senza la grazia l’uomo in se stesso è peggiore del demonio, perché il demonio è spirito senza corpo e l’uomo senza la grazia è demonio incarnato. Soprattutto egli ha il libero arbitrio, il quale per disposizione divina non essendo soggetto in nulla, può fare quel male che vuole; mentre il demonio non può fare quel male che vuole, ma solo quanto Dio gli permette di fare e quando l’uomo gli consegna la sua cattiva volontà, con la quale lo tenta.

Spiega con chiarezza estrema l’abisso del cuore dell’uomo. Questo suo modo di parlare e ciò che dirà su questo argomento, è incredibile. Parlerà anche del male, anche al male bisogna credere, perché, per capirlo, bisogna crederci, non nel male – certo – bisogna credere nel bene, ma anche in quello che può significare il contrario del bene, l’opposizione al bene. Ecco perché la stessa interpretazione del male, dei demoni, l’esistenza dell’inferno, sotto tutte cose proprie della rivelazione cristiana. Non sono verità scontate, per quanto alcune cose le condividano anche altre religioni, perché tutte le religioni hanno un concetto di giustizia e quindi di retribuzione, alcune ce l’hanno in maniera radicalmente diversa, altre hanno visioni dell’al di là molto simili alla nostra. Sapete bene che determinate religioni, non avendo la concezione di un Dio persona, ritengono che la retribuzione sia ciclica e determinata dalla reincarnazione. Solo così si può soddisfare il concetto di una giustizia e di una retribuzione, …di una equità. Dove non c’è un Dio personale non c’è nemmeno l’ipotesi di un’autorità che dica “tu” – o, “ti giudico”, sia nell’al di qua sia nell’al di là. Mentre nelle religioni monoteiste (Ebraismo Cristianesimo ed Islam), che hanno comunque un Dio che è entità personale, almeno lì, in qualche modo, c’è un’ipotesi di giudizio.

Parlare di un inferno e concepire com’è fatto, questo è una questione riguardante la dottrina cristiana, così anche quanto concerne il diavolo, che ha una qualche personalità e che agisce in quella maniera, con l’inganno, con la dissimulazione, con il sadismo, con lo scomparire dopo il danno fatto, e con la continua dissimulazione tanto da indurci a non credere alla sua esistenza…

«Ma io vedo chiaramente – diceva – che se in me, nelle altre creature e nei santi vi è qualcosa di bene, è in verità tutta di Dio, mentre se faccio qualcosa di male sono io sola a farla, e non posso dare la responsabilità al demonio né ad alcuna creatura, ma alla mia propria volontà, all’inclinazione, alla superbia, alla proprietà, …vi ricordate nell’Imitazione di Cristo il doppio elenco: la natura, agisce così, così e così: vuole “concupire”, acchiappare, carpire, portare a sé; la sovra-natura invece agisce in altro modo? Portare a sé significa acquisire la proprietà… alla sensualità e a molti altri motivi maligni. Se Dio non mi avesse trattenuto, mi vedo peggiore di Lucifero. E vedo questa vista così certa, che se tutti gli angeli mi dicessero che io avessi in me un qualche bene, non potrei crederlo, perché vedo chiaramente tutto il bene in Dio solo mentre in me nient’altro che difetto».

Conosceva inoltre in cosa consistesse la vera perfezione e aveva cognizione in certo qual modo di tutte le imperfezioni. Ciò non fa meraviglia, poiché lei aveva l’occhio interiore tanto illuminato, l’affetto tanto purgato Quindi, non inquinava il giudizio. Nel nostro caso, la maggior parte dei nostri giudizi intellettuali, sono inquinati dall’ affectus, dagli affetti che ti tirano da una parte e dall’altra e ti deteriorano il vedere della mente che, in sé, se è libera, vede sempre bene, perché è stata resa giusta, l’occhio è stato fatto giusto per vedere, ma siccome è quasi sempre soggetta a interferenze e condizionamenti… (è come quando devo fare una fotografia, mi tremano le mani e… la foto viene sfocata, perché sono soggetto a scosse telluriche continue, prodotte dal mio mondo affettivo…, totalmente alterato), il cuore tanto unito con il suo amore Iddio, nel quale vedeva tante cose mirabili e nascoste ai sensi umani.

L’uomo comune non li vede, ritiene che non ci sia niente di male, l’uomo illuminato vede chiaramente tutto.

Diceva: «Finché la persona può parlare delle cose divine, ne può gustare, intendere o avere memoria o desiderio, non è ancora giunta in porto. Ma poiché la creatura non può conoscere se non quello che Dio le dà giorno per giorno e non può comprendere di più, per questo tale creatura rimane pacifica, posta in tale via in ogni momento (dacci il nostro pane quotidiano). Se, infatti, la creatura conoscesse i gradi che Dio vuole darle in questa vita, non potrebbe mai aver quiete, ma avrebbe una certa brama di aver presto quello che Dio ha ordinato di darle, al punto che sembrerebbe essere in un inferno per la gran rabbia (incendio, fegola) che avrebbe di eccessivo desiderio di poter giungere a quell’ultimo grado di perfezione che Dio ha ordinato di darle».

Più tardi lo chiameranno perfetto abbandono, oblio di sé (nella Scuola francese di Spiritualità). Finché una persona può gustare, parlare, intendere, non è ancora al porto.

Perciò diceva questa santa anima, totalmente infuocata del divino amore, sin dal principio della sua conversione: «Signore, io ti voglio tutto, perché vedo nel tuo luminoso lume che mai l’amore può quietarsi sino a che non sia all’ultima perfezione. O dolce Signore, se io credessi che mi dovesse mancare di te anche una scintilla, certamente non potrei vivere». Rileggiamo l’ultimo periodo… è stupendo: “O dolce Signore, se io credessi che mi dovesse mancare di te anche una scintilla, certamente non potrei vivere”. “Questo incendio, che seguì la sua conversione e sempre l’accompagnò, in un crescendo spasmodico e impressionante, fa della Fieschi una delle più alte ed esemplari personalità della mistica cristiana, com’è universalmente riconosciuto. Di Dio, lei, vuole “tutto”, e non sopporterebbe che le mancasse anche solo una “stilla”, una scintilla. Le sue descrizioni raggiungono davvero espressioni altissime e sconcertanti! Questo fuoco d’amore “essenziale”, mistico, che ardeva in lei, la fa uscire in uno sfogo spontaneo e accorato. L’amore vuole “tutto”.

Diceva: «Mi vado accorgendo che di tempo in tempo mi sembrava che l’amore con il quale amavo il mio dolce amore era ogni giorno più grande, ma mi sembrava sempre che fosse tutto quel che poteva essere, perché l’amore ha questa condizione, che non può vedere alcuna benché minima imperfezione». L’amore non sopporta riduzioni.

Appena aveva la vista chiara, lei poi diceva successivamente: «Io insomma ho visto di avere così tante imperfezioni che se le avessi vedute al principio, per togliermele non avrei tenuto conto di cosa alcuna quantunque grande e penosa, anzi nemmeno dell’inferno (per misericordia Dio le impedisce di avere la vista di sé). Ma io non lo capivo, perché l’amore di Dio non lo voleva, dacché voleva lui fare il tutto a poco a poco per la salvezza dell’umanità (Dio conduce piano piano – secondo l’immagine del Pastore) e perché il prossimo sopportasse, perché con simili viste si farebbero cose disordinate tanto da essere insopportabili a se stessi e anche a quelli con i quali si vive. Infine, vedendo una cosa perfetta del tutto fuori della creatura, sono costretta a dire ciò che non potevo dire per il passato, cioè che io vedo che quello che la creatura può capirne era tutto imperfetto ». Questa maturità raggiunta, ci dà la profondità delle cose e la fiducia in Dio che, veramente, accompagna.

Così questa santa anima era solita avere ricco il cuore, e nel parlare diceva queste parole: «O dolcezza di Dio, nettezza di Dio, bontà di Dio», con altri bei detti sulla grande purezza di Dio.

Adesso dice così: «Io vedo senza occhi, intendo senza intelletto, sento senza sentimento, gusto senza gusto né forma né misura. Però senza vedere io vedo una tale operazione e un vigore tutto divino che tutte quelle parole di perfezione e nettezza che dicevo, le vedo tutte bugie e tortuosità dinanzi a quella verità e dirittura. Il sole che mi sembrava così chiaro, adesso mi sembra nero, quello che mi pareva dolce, adesso mi sembra amaro, perché tutte le bellezze e dolcezze secondo quanto hanno della misura della creatura sono in tal modo corrotte. Quando poi la creatura si vede nettata ed è trasformata in Dio, allora vede il vero e il netto, e di tale vista, che non è vista, non si può parlare né pensare. Il problema del linguaggio nei resoconti delle esperienze mistiche, rimane un ostacolo: come si può parlare di questo? Come è possibile descrivere, discutere?… Eppure certe cose si devono dire, si deve dire tutto, ma è arduo “dire Dio”.

Non posso più dire: “Dio mio, tutto mio, ogni cosa è mia”, perché tutto quello che è di Dio mi sembrava mio. Adesso non posso più nominare cose e parole simili né in cielo né in terra, ma sto così, in tutto muta, in Dio perduta.

Per questo non posso dire beato alcun santo, perché mi sembra una parola corrotta e non vedo alcun santo beato, ma vedo che tutta la santità e la beatitudine che hanno i santi stanno tutte fuori di loro e sono tutte in Dio. Non posso vedere né alcun bene né beatitudine in alcuna creatura, salvo che totalmente questa creatura sia in tutto e per tutto annichilata in sé e talmente annegata in Dio che solo Dio rimanga nella creatura e la creatura in Dio.

Questa è la beatitudine che possono avere i beati e tuttavia non l’hanno. Intendo dire, l’hanno in quanto sono annichilati in loro stessi e vestiti di Dio; non l’hanno in quanto si trovano nel loro essere proprio, sì che qualcuno possa dire: “Io sono beato”. Vedete, la coscienza di sé? …Io oggi posso dire: “Mi metto questo anello, questa giacca”, ho la padronanza di me e la “proprietà” di me. Lei dice, “un beato non è così”, non ce l’ha la padronanza di sé… e non è un male per lui, anzi è questa la sua gioia, la sua felicità, perché finalmente ama, cioè non è “in sé” ma nel suo Amato, totalmente. Per questo è felice, perché finché rimane in sé, è prigioniero.

Riprendo me stessa nel parlare di queste cose, perché vedo che le parole e i termini sono corrotti rispetto a quello che io ne sento senza sentire, e che non saranno capite. Ma ho tanto il fuoco, senza fuoco, dentro che vorrei che ogni persona lo potesse capire, e sono certa che se lo potessi insufflare nella creatura, in tutto la brucerei e avvelenerei di fuoco di amore divino.

O cosa ammirevole! Sento tanto amore e dirittura verso Dio; ma vedo che tutto l’amore e dirittura che ho verso il prossimo, per necessità del vivere umano, per quanto io vada drittamente tuttavia mi appare tutto ipocrisia rispetto a quello di Dio.

Dal punto di vista teologico, questo è quello che affermerà Lutero, dicendo che ogni azione umana è peccato, anche la più buona… e non merita niente davanti a Dio, quindi non c’è atto che valga, perché l’uomo è inficiato, l’uomo è nel peccato, radicalmente, allora solo Lui ti può afferrare.

Ma se tutte le azioni che l’uomo fa sono peccato, allora come ci salviamo? Ci salviamo perché Dio ci riveste, ci mette addosso una veste bianca, che è suo Figlio, e ci vede “nel suo Figlio”, e quindi non vede veramente te, perché se vedesse te, dovrebbe riservarti l’inferno. Questa è la “giustificazione”, cioè Dio applica a te i meriti del Figlio suo. Ma tu rimani radicalmente peccatore… Qui non è più così. …Ma nel modo di parlare, quando lei dice “per quanto io vada drittamente tuttavia mi appare tutto ipocrisia rispetto a quello di Dio”, se non ne facciamo questioni concettuali, teologiche, questo è un modo di dire che suscita un problema di linguaggio… Questo per spiegarvi cosa significa usare metri diversi e punti di riferimento nuovi; una cosa è fare una riflessione teologico-scolastica sui concetti e dire “è”, “non è”, un’altra cosa è problematizzare un modo di dire, a partire dall’esperienza.

Per tal ragione io non posso più usare condiscendenza con il mondo, e mi accorgo che quando lo faccio, lo faccio con pena e per non dare cattivo esempio al prossimo, per la consuetudine del mondo, il quale sembra che non viva se non di fumo».

Tremenda! …E vera! E così lei viveva una mirabile armonia tra contemplazione e lavoro, e tutto questo avveniva in modo che lei poteva esercitarsi “in tutte le cose esteriori” che incombevano al suo ufficio, di modo che “di tutte aveva memoria”, come lei stessa dice e le portava a compimento secondo Dio.

CAPITOLI 14, 15

Capitolo quattordicesimo. La vanagloria non poteva entrare in quella sua mente purificata a causa della vista chiara della verità.

La vanagloria non poteva entrare in quella mente a causa della vera verità veduta, e questa sua disperazione di se medesima faceva sì che tutta la sua confidenza fosse in Dio solo, amore suo dolcissimo, nel quale si abbandonava anima e corpo dicendo: «Fa di me tutto quello che vuoi», con una fiducia certa che non la dovesse mai abbandonare, soprattutto nel non lasciarla cadere in alcun peccato. E avrebbe scelto più facilmente tutti gli inferni immaginabili che vedersi una macchia di peccato addosso, per minima che fosse stata; ancorché presso Dio non si possa dire del peccato cosa minima, ma piuttosto grande e grandissima, per quanto minimo si possa immaginare il peccato; dal momento che è tanta la bontà di Dio che ogni cosa, quantunque minima contro tale bontà, è cosa grandissima.

Questo tema della vanagloria era già stato espresso alla fine del capitolo precedente quando ha detto che il mondo e le cose del mondo le sembravano come fumo; questa è la vanagloria, la vanità di questo mondo. Questa “verità veduta” è uno schema che vuol significare una verità che appare soltanto agli occhi che la sanno penetrare; come qualcosa di assolutamente vero rispetto all’apparenza. Mentre Platone diceva: “la realtà che noi vediamo è soltanto un’apparenza; se noi andiamo dietro questa apparenza scopriremo l’essenza della realtà”… qui non è così. Le realtà create, per noi cristiani, non sono ombre di una verità vera, ma sono reali in sé. Quello che noi chiamiamo “apparenza” è soltanto il nostro modo di guardarle e di non saperle leggere; e tutto ciò perché questa verità é distorta, offuscata dal peccato, e siamo noi ad averne una vista distorta, falsa, non perché in sé le cose che vediamo siano ombre di realtà vere, bensì perché sono apparenza da trascendere. Quando noi diciamo di trascendere le cose non intendiamo che questo è fumo e la realtà sta altrove… intendiamo dire che il fondamento di una realtà che ha valore in sé è Cristo, è Dio Trinità. Quello non svilisce questo, quello non annulla una verità del creato, tanto è vero che, per Platone, la materia è negativa, per noi non lo è.

Quando noi diciamo che questa realtà in se stessa non ha il suo fondamento ma ce l’ha in altri, in Dio, non intendiamo dire che essa è nulla o che è un male, diciamo soltanto che è creazione di un Creatore. “La verità veduta” è il nostro sguardo, non le cose. Il nostro modo di vedere – torno a dire – è inficiato, per una responsabilità morale, quella del peccato originale; a partire della quale non vediamo, alteriamo la visione della realtà. Per cui quando diceva: “non poteva la vanagloria”, la vanagloria è vedere il mondo in modo sbagliato, secondo ciò che è vano; la gloria significa la grandezza, lo splendore. Quella di Dio ha peso, è pesante, quella del creato, secondo il nostro modo di vedere, è vana, non ha nessun peso. Ma perché? Perché noi tendiamo a prendere per definitiva quella del creato, non perché in sé non abbia una sua maestosità, una sua grandezza, una sua bellezza, ma perché noi la scambiamo con quella vera e definitiva di Dio, come realtà ultima e finale e vi ci appoggiamo, e la cerchiamo, e non capiamo che non è ultima, che non è definitiva e che transeat gloria mundi, passa la gloria di questo mondo in quanto è passeggera, oltre ad essere mutevole. Quindi il punto cruciale rimane sempre in noi. Quello che il Cristianesimo, a differenza di Platone, mette a fuoco, è: il male non risiede nella materialità delle cose ma nella responsabilità, nella mens dell’uomo, nel cuore, nell’anima, è lì che risiede il male. Allora, saper vedere la verità o non vedere la verità non è una cosa “oggettiva” ma è una cosa che ha a che fare col mio modo di vedere. Quindi Caterina “vede”, è inattaccabile dal punto di vista della vanagloria perché sa qual è la consistenza della gloria terrena, dunque non si può illudere, non può essere ingannata dalla gloria della terra perché lei ne vede la grandezza e il limite. Tant’è vero che lei dice “disperazione di sé” e non del mondo, disperazione di sé e confidenza in Dio.

Non solo quest’anima purificata non aveva alcuna reputazione di se medesima né vanagloria di cosa alcuna, ma aveva molto a cuore di essere ripresa e avvisata di qualche sua inclinazione e mai si scusava, quanto piuttosto cercava di essere consigliata e ripresa. Era tanta la profonda vista interiore di quella mente illuminata che diceva cose tanto intime e di tanta perfezione che erano quasi incomprensibili anche agli intelletti devoti.

Diceva: «Io non vorrei vedere che in me ci fosse stato un solo atto meritorio con la certezza di non cadere mai più ed essere salva, perché la vista di tale atto sarebbe per me un vero inferno. Cioè se vedessi che alla mia salvezza avessi operato, io in quanto io, un sol atto il quale come mio mi aiutasse a salvarmi, sarei peggio di un demonio, volendo rubare a Dio quello che è suo, dal momento che tutte le opere e gli atti virtuosi senza la vivificazione della grazia gratificante sono nulla e di nessun valore meritorio».

Eppure, la dottrina dei meriti sarà sancita dal Concilio di Trento. Lutero si scaglierà contro i meriti, cioè dirà che non abbiamo nessun merito quando compiamo un’opera buona. La Chiesa Cattolica invece dice di sì. In che misura? Non riguarda la giustificazione (cioè il passare dal peccato alla grazia)… questo è solo “atto gratuito di Dio”, noi non meritiamo di passare dal peccato alla grazia, e non possiamo fare nulla. Siamo irrimediabilmente caduti, come in un pozzo. In questo anche la Chiesa concorda con Lutero. Ma, una persona “giustificata per grazia di Dio”, quando compie le opere richieste ad esempio nel Vangelo, queste opere sono inutili o meritorie? Il Concilio dice che hanno “un valore” perché innanzitutto sono “fatte con l’aiuto della grazia” e anche col contributo dell’uomo perché, al momento in cui l’uomo è risanato, può qualcosa. La Teologia di una volta usava distinguere una grazia che previene, una che accompagna e una che segue. Nel caso del passaggio dalla morte alla vita tu sei “prevenuto” senza tuo merito, la grazia ti previene e ti rende gradito a Dio. Una volta che tu sei in grazia, l’azione dello Spirito continua in te suscitando, ad esempio, quella buona azione. Quindi accompagna, asseconda il tuo volere.

Volendo rubare a Dio quello che è suo” dice Caterina. Questo è un generico riferimento al primo capitolo della lettera ai Romani di S. Paolo, dove si dice che tutti gli uomini hanno peccato perché pur potendo conoscere Dio tramite le opere del creato non lo hanno fatto ma hanno usurpato la sua gloria. L’idea di fondo è che hanno tributato la gloria agli idoli: uccelli, tori, animali… La gloria andava tributata solo a Dio, non l’hanno fatto e si sono appropriati di ciò di cui non dovevano appropriarsi, perché tutto era dono di Dio. Il passo di S. Paolo richiama il capitolo 13 della Sapienza; questi sono gli unici passi in cui si spiega che, anche a prescindere dalla rivelazione, l’uomo avrebbe potuto conoscere Dio, a partire dal creato, e invece ha sovvertito tutto. L’Apostolo conclude che, per questa ragione, gli uomini sono inescusabili.

Lo stesso S. Ignazio di Loyola, che verrà una generazione dopo quella di S. Caterina, imposta la questione della gloria di Dio esattamente su questo punto: “ti devi decidere, perché devi prendere consapevolezza che hai rubato a Dio ciò che non è tuo bensì suo. Hai tolto di mezzo il Creatore del mondo e ti sei messo al suo posto quando, da Adamo ed Eva in poi, hai deciso “tu” come il mondo va impiantato, gestito. Ma tu non sei il Creatore, sei l’amministratore”. Allora Ignazio dice “tutto faccio per rendergli Gloria”.

Eppure bisogna agire ed esercitarsi poiché la grazia divina non vivifica né gratifica se non colui che si adopera; la grazia non vuol salvare senza operare, ma dice che tutte le opere senza la gratificazione della grazia sono morte, in quanto operate solo dalla creatura.

La grazia gratifica tutte le opere che sono operate da tutte le persone che non sono in peccato mortale e le rende tutte degne del paradiso, non solo quanto alla persona operante, ma quanto alla grazia gratificante.

Dunque, se tu sei in peccato mortale non sei in grado di compiere opere meritorie. Tu, solo con l’aiuto di Dio passi dal peccato mortale alla grazia, con i Sacramenti, e mai per un tuo merito o opera; una volta che sei in grazia, allora le tue opere sono meritorie. Se no sono dissacranti.

Questa gratificazione dell’opera, che spetta solo alla grazia, è quella che ella diceva di non voler vedere in lei, perché è impossibile che la creatura in quanto creatura, senza la grazia divina, possa operare e fare qualcosa né opera alcuna meritoria. Questo, infatti, appartiene alla sola grazia che è Dio. La qual grazia è sempre predisposta a gratificare tutto quello che la creatura opera, non essendo in peccato mortale. Perciò nessuno può scusarsi di non poter salvarsi, se vuole operare il bene e lasciare il male, cioè il peccato.

Così ognuno può esser certo di andare all’eterna dannazione se sarà in peccato mortale, pur avendo operato tante buone opere, perché non saranno gratificate dalla grazia divina e resteranno morte.

Quindi vi è peccato mortale quando in fin dei conti ci si oppone a Dio, anche se si opera per il bene.

E diceva: «Vorrei piuttosto essere a rischio di tutta la dannazione che essere salva con la vista di quell’atto proprio». Vedete qui il tema ricorrente, il volersi staccare, liberare da questo “io” invadente. Quest’odio di sé le dava una luce con la quale vedeva chiaramente che tutto il bene era solo di Dio, e ivi lo vedeva, voleva e lasciava.

Se avesse potuto trovare un bene nella creatura, cosa impossibile, glielo avrebbe con forza tolto e l’avrebbe tutto posto in Dio. Non voleva che alcuno potesse pensare che ci fosse alcuna cosa buona tranne che in Dio, mentre tutto il male è solo nella creatura. Perciò diceva che la creatura non si può con ragione levare in vanagloria, contemporaneamente dovete pensare che cos’era la vita mondana di quei tempi. Sono gli anni in cui regna papa Alessandro VI Borgia, quando Giovanni de’Medici, figlio di Lorenzo, diventa cardinale, a 12 anni. Per questo motivo lei era così “battagliera”… atteso che tutti i buoni motivi e le operazioni che fa, pensa e dice, tutti sono discesi da quell’originale fontana dell’infinito amore, il quale sembra che non debba pensare ad altro che alla nostra salvezza con tanti infiniti modi. La creatura in sé non può pensare salvo in cose secondo la sensualità e il peccato, secondo la natura proclive al male per il peccato; questo trae verso il basso, come la pietra quando è buttata in aria e sempre cerca di tornare a terra, e vi ritorna se non è tenuta per forza d’altri.

Capitolo quindicesimo. La chiara luce nella quale vedeva chiaramente la nettezza della coscienza; camminava e conosceva la vera e diritta via e vedeva la verità in tutte le creature.

Era tanta la luce chiara di quella mente, illuminata in tutto dalla vera luce, che diceva cose mirabili della purezza della coscienza. Diceva: «La purezza della coscienza non può sopportare se non Dio solo, il quale è puro, netto e semplice. Di tutto il resto, cioè di qualche male, non può sopportare alcuna scintilla; e non intende né può sapere questo se non chi lo sente».

Perciò aveva sempre in bocca per consuetudine questo vocabolo: nettezza. Aveva una nettezza mirabile nel parlare e voleva che tutto ciò che aveva concepito nella mente ne uscisse netto, senza una minima tortuosità. Caterina dunque aveva una nettezza, una chiarezza, mirabile nel parlare… voleva che ogni concetto uscisse netto dalla sua mente, e fosse espresso bene, con un linguaggio limpido e d’immediata comprensione.

Non poteva dimostrare alcuna condiscendenza di fuori verso il prossimo né per amicizia né per necessità, ma solo come sentiva dentro di corrispondere nella sua mente. Non è che si metteva in testa di avere delle particolarità o preferenze, agiva solo come le veniva dettato dentro, senza alcuna condiscendenza esterna. Continuava anche tanta umiltà in quell’anima e avvilimento di se medesima, che era cosa mirabile.

Quando per permissione divina si ritrovava la mente in pena da non poter quasi aprire la bocca, allora diceva: «Amore, lasciami stare qui, affinché sia sottomessa, e questo mio non essere non si possa muovere, perché so che quando si potesse muovere alquanto, non saprebbe fare che male. O mirabile e utile conoscenza! Un’anima tanto perfetta, tanto unita e in tutto trasformata nel suo dolce Iddio vedere tanto chiaramente la sua parte inclinata a ogni male e vedere di esser trattenuta da Dio nel non mettere in opera i peccati!».

Certo, è davvero così, che mai l’anima è tanto perfetta da non aver bisogno del continuo aiuto divino; e sebbene sia trasformata in Dio e la natura del dolce Dio sia di non lasciar cadere tale anima, tuttavia l’anima, quanto in se stessa, potrebbe cadere se Dio non la tenesse. Nondimeno egli tiene e non lascia cadere quelle anime che non vogliono con il libero arbitrio consentire al peccato. E lascia cadere quelle che volontariamente consentono al demonio che le trae al peccato.

Perché avendoci dato il libero arbitrio non ci vuole forzare; perciò chi cade in peccato è per causa sua e non di Dio, il quale sempre è pronto ad aiutare, anzi a sollevare dopo la caduta nel peccato, se però l’anima caduta si lascia aiutare corrispondendo alla grazia divina che di continuo la chiama a sollevarsi dicendo: «Diverte a malo et fac bonum; convertimini ad me in toto corde vestro».

Se l’anima caduta in peccati, quanti essi siano, corrisponde alla grazia che la chiama, è scontenta di tutti i peccati passati e ha il vero proposito di non peccare più, subito il Signore Iddio la solleva da tutti i peccati e tanto la conserva e tiene perché non cada, sinché ella con malizia propria non si allontana da questo dolce Dio, cioè dall’osservanza dei suoi comandamenti, che sono la sua volontà, e volontariamente consente al peccato che è allontanamento da Dio.

Non solo Dio è predisposto a far quel che si è detto, cioè sollevare l’anima dai peccati e conservarla dal cadere, per parte sua, ma vedo anche chiaramente con l’occhio interiore che questo dolce Dio ama con puro amore tutte le creature che ha creato e non odia se non il peccato, il quale è tanto contrario a lui da non potersi stimare né immaginare.

E dico che le ama con tanta perfezione che mai si trova né si troverà intelletto così angelico che ne possa comprendere una minima scintilla. Seppur Dio volesse concedere a un’anima di poter vedere ciò, bisognerebbe che le facesse anche il corpo immortale, perché naturalmente non lo potrebbe mai capire.

Perciò è impossibile che Dio e il peccato, quantunque minimo, possano stare insieme, (e per peccato si intende la volontà contraria a Dio) perché tale impedimento non lascia ricevere all’anima la sua glorificazione.

Come tu vedi che una piccola cosa che tu abbia nell’occhio non ti lascia vedere il sole, così si può paragonare Dio al sole. Poi si può paragonare la vista intellettiva alla vista dell’occhio corporale, la quale però è tanta che non si può comparare né immaginare veramente, per la troppo gran differenza che vi è da una all’altra.

Dunque quell’anima, che vuole e deve esser conservata in questa vita dal peccato e glorificata da Dio nell’altra, bisogna che sia netta, pura e semplice e non le rimanga per volontà (da sottolineare “la volontà”) alcuna cosa che non sia in tutto purgata tramite la contrizione, la confessione e la soddisfazione, perché le nostre operazioni sono tutte imperfette e difettose.

Non deve rimanere in noi alcuna traccia di una volontà contraria. Lei omette di dire che la maggior parte dell’opera di purificazione è passiva, cioè è “opera di Dio”, ma lo si capisce.

Perciò considerando le predette cose come sono e vedendole chiaramente con l’occhio interiore, mi occorre vivere senza me medesima, atteso che l’amore mi ha fatto conoscere quello che io sono. E lo conosco in modo che non posso più essere ingannata.

(Versione in italiano moderno e commento di S. E. Mons. Antonino Raspanti; trascrizione e integrazioni a cura di don Roberto Tarquini)

“Sono tornato a te: come se il fuoco
ti avesse prosciugata, ho contemplato
sotto il cristallo i piedi senza forma,
le mani serrate al petto come a stringere
sul cuore Dio – quel Dio che col suo bacio
ha bruciato e consumato le tue labbra.
Ma l’urna non conserva il tuo spirito.
Sei in Dio: l’Immensità non chiude.
Pura trasparenza
dice la tua presenza la sua Luce.
Non qui debbo cercarti.
La parola che mi lasciasti
apre anche a me un varco
alla tua libertà.”
(Versi che Divo Barsotti dedicò alla Santa il 10 febbraio 1980 di fronte all’urna del corpo)

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[1] La data di nascita è incerta; molto probabilmente il 1447.

[2] La sorella era Limbania Fieschi.
[3] Il matrimonio con Giuliano Adorno avvenne il 13 gennaio 1463.
[4] La tristezza denota gli anni di crisi spirituale di Caterina, da considerare sia radice di questo distrarsi mondano sia conseguenza di esso.
[5] Il calendario liturgico del tempo poneva la festa il 21 marzo. Fra Umile pone la data del 20 marzo 1473.
[6] Fra Umile ipotizza che questo confessore delle religiose fosse Manlio Albengo.
[7] L’amore divino fa vedere, cioè dona la conoscenza di sé e di Dio insieme. Si usa l’immagine classica della ferita d’amore, a denotare la passività della creatura.

[8] I “mille mondi” sono il massimo di godimenti e gioie che possono provenire dalla vita mondana.

[9] S’intravedono gli elementi classici della descrizione del cammino di unione con Dio, purificazione, illuminazione, perfezione, qui mirabilmente concentrati in un tempo puntuale: “un attimo”.

[10] La chiamata di Cristo ad associarsi al suo cammino pasquale.

[11] Poiché aveva iniziato il digiuno quando il tempo liturgico era iniziato (l’Annunciazione cade il 25 marzo), compì i quaranta giorni dopo il triduo pasquale.

[12] Per saggiare la natura di questo digiuno, il confessore impone di mangiare, ma dinanzi all’obbedienza di Caterina e al medesimo esito, egli comprende che è un epifenomeno dell’unione con Dio.

[13] Questa indicazione contraddice il titolo. Fra Umile nota il dissenso anche in altri manoscritti.
[14] 11 novembre.
[15] 25 dicembre; è la cosiddetta quaresima di san Martino, di uguale durata a quella propriamente detta, precedente la Pasqua.
[16] È il primo tentativo di definire il puro amore di Dio verso di noi e di noi verso Dio.
[17] Dx D: sei.
[18] Sal 84 (83),3.
[19] È il principio ascetico del “agere contra”.
[20] Uno stato di raccoglimento passivo che diventa continuo.
[21] Rom 8,35
[22] Effetti di questa forte e viva attenzione a Dio, con la quale questi l’attraeva.
[23] La pena non è data da un disprezzo o rifiuto della creatura, bensì dallo scarto tra il trattare con la creatura e quello con il Creatore; questa pena è dovuta al limite in cui vive ancora la persona sulla terra, mentre è superata solo nella vita piena in Dio, nel paradiso, dove lo scarto è affrancato.
[24] Cf. 1Cor 6,17: “Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est. La descrizione spiega come la persona umana non si rapporta e non possiede più nemmeno se stessa se non in Dio.

[25] Tutto si consuma per eccesso: di luce (gli occhi), di soave odore (il naso), di suoni dilettevoli (gli orecchi) e così via.