6.3 L’imitazione di Cristo

LA DEVOTIO MODERNA e L’ IMITAZIONE DI CRISTO

(Dalla registrazione del corso d’esercizi spirituali tenuti da P. Max de Lonchamp in Sicilia nel 2007. Trascritto e integrato da don Roberto Tarquini)

LA DEVOTIO MODERNA E TOMMASO DA KEMPIS

Può sembrare che tutti l’abbiano letto… ma, non è così. Alcuni di voi sicuramente avranno avuto l’Imitazione di Cristo come bagaglio di formazione cristiana.
Questo testo, che pensavo fosse considerato – come dire – superato, in realtà suscita ancora molto interesse. E’ stato uno dei libri più diffusi della storia dell’umanità. E’ incredibile, ma fa parte dei cinque o sei titoli più diffusi al mondo e tradotti nelle varie lingue, da quando la stampa è stata inventata (cioè dal 1450 ad oggi).
E’ letto molto spesso in chiave moralistica; come espressione di un “impegno volontaristico cristiano”, è visto come una “giusta misura in tutte le cose”, mentre – e spero di scoprirlo pian piano insieme con voi – è un libro profondamente spirituale, che rappresenta il culmine di quel fenomeno storico definito “devotio moderna”, cioè un modo nuovo di vivere alla presenza di Dio, che nasce più o meno nel 1350 e che sarà in voga fino al ’500; sarà – per esempio – pienamente assunto da S. Ignazio nei suoi Esercizi spirituali: vale a dire “l’intimità con Gesù”; e dico “Gesù” anziché “Cristo”, perché Cristo è il mistero, Gesù è la persona, o meglio, l’amico.
Questo libro, in tante traduzioni, è completamente sbagliato; lo riproducono come un trattato di morale cristiana: e la morale cristiana non esiste, esiste la morale e basta (cioè esistono regole di comportamento nella società, e il cristianesimo non è una regola di comportamento è piuttosto l’accoglienza di una persona speciale: Gesù Cristo). Il secondo errore è quello di non inserirlo in un contesto (quello della devotio moderna appunto) di “cultura dell’intimità con Gesù Cristo”.

Ci troviamo nelle Fiandre (nei Paesi Bassi) del 1400, in un momento delicato, quando il Medioevo finisce e già i primi lumi del Rinascimento arrivano nell’Europa settentrionale, più precisamente nella vallata del Reno, e ancor più precisamente da questi eredi di Ruusbroec l’Ammirabile, che si chiamano i Fratelli della Vita Comune.
Questa vuole essere una vera introduzione all’opera, senza prendere di petto il testo. I brani che vi ho copiato li riservo per dopo; sono 10 punti, ai quali dedicherò 10 catechesi. Lo scopo di queste catechesi sarà quello di farci entrare nell’intimità con Gesù. Non ho altro intento che questo.

I Fratelli della Vita Comune hanno costruito la loro forma di vita sulle poche istituzioni che hanno prodotto, con questo unico scopo: trovare delle case, dove potersi stanziare, con un minimo di regolamento interno e il maggior numero di libri che parlino di Gesù, per coltivare in modo autonomo e con legami fraterni autentici l’aiuto vicendevole a tutti i livelli (dal più materiale al più spirituale), sviluppando un “colloquio” silenzioso e colto, nutrito dalla grande Tradizione spirituale cristiana.

Ecco quindi i due punti: A) intimità con Gesù e B) studio.

Quando costoro daranno il via ad una vita religiosa canonicamente approvata, è naturale che abbiano trovato nella Regola di S. Agostino la forma canonica necessaria, perché c’è qualcosa di “agostiniano” in questa “intimità con Gesù” secondo il clima delle Confessioni. Quando si legge l’Imitazione, S. Agostino non è mai lontano; poi c’è quel tono che riecheggia: “Tu mi hai trovato Signore e anch’io ti ho trovato. Si sta così bene insieme, noi due!” E’ questo – direi – il supporto costante, il tono di fondo…
Quando leggiamo le sentenze dell’Imitazione di Cristo, lasciamole risuonare dentro di noi, prendendo tempo, gustandole in silenzio (in Chiesa, in camera o nel giardino), senza far lavorare tanto il cervello quanto piuttosto il cuore. Lasciate cantare questi testi! Nel silenzio, gustateli, come si gusta una caramella, che non si mastica, ma si scioglie lentamente in bocca. Sì, questi testi, lasciamo che si sciolgano pian piano dentro di noi e ci diano sapore.

Spendo poche parole di presentazione per questo libro; parole necessarie.
Prima cosa: chi è l’autore? I più grandi specialisti, dalla fine del Medioevo in poi, hanno discusso a lungo sull’attribuzione dell’Imitazione di Cristo all’uno o all’altro. Tale questione però non tocca l’autenticità e il valore spirituale dell’Imitazione. Si sono fatte solo ipotesi sulla sua paternità: Tommaso da Kempis, Giovanni Gerson, Giovanni Gersen, Geert Groote, Corrado di Fritzlar, ecc. (quella dell’autore italiano Gersen non regge, sia perché il suo nome non è che una variante grafica di Gerson, sia perché l’argomento paleografico non ha trovato sufficiente chiarezza per decidere in suo favore). Per il momento l’attribuzione a Tommaso da Kempis sembra essere ancora la più probabile… ma lasciamo stare le questioni aperte.

Prima di tutto il “titolo”; non è all’origine del libro, ma è stato messo al momento dell’invenzione della stampa, presumibilmente cinquant’anni dopo la fine della redazione e risente un po’ dell’identità dell’autore che, comunque, rimane un po’ dubbia; Imitatio, Imitatione, Imitazione di Gesù Cristo rimane un titolo d’edizione a stampa. Non dimentichiamo che i primi libri stampati sono libri religiosi; per primo la Bibbia (1455), detta appunto di Gutenberg, quindi testi religiosi, storici e opere consacrate alle grandi figure della storia dell’umanità.

Le prime edizioni a stampa sono offerte alla gioventù del XVI secolo e presentano appunto i grandi della storia, Gesù prima di tutto. Da qui, probabilmente, il titolo “Imitazione di Gesù Cristo”, come si poteva scrivere “Imitazione di Giulio Cesare”. Non dimentichiamo che gli antichi manoscritti, precedenti la stampa, come quelli medievali del primo ‘400, assumono sempre a titolo le prime parole del testo (come le encicliche del Papa); sono le espressioni iniziali a dare il titolo all’opera, quindi se dovessimo prendere le prime parole dell’Imitazione, scriveremmo Qui sequitur me = “Chi segue me non cammina nelle tenebre…” ecc.

L’opera è un insieme di 4 libri. Quattro libri riuniti dopo una redazione sparsa e composta in una ventina di anni (forse trenta) se l’autore è Tommaso da Kempis (se fosse possibile verificarlo con certezza…). Se ciò è vero, i capitoli dei libri dell’Imitazione non son altro che le “istruzioni” che Tommaso da Kempis dava ai suoi figli spirituali, i giovani chierici del monastero di S. Agnese. Axters, Professore di Bruxelles, dice che l’Imitazione è il diario personale dell’autore; racchiude l’itinerario interiore, i desideri intimi di Tommaso da Kempis.

Si sa che già nel 1427 circolano i manoscritti di questi quattro libri dell’Imitazione in tutta Europa (il più celebre è diventato l’attuale Libro III). Dal 1428 si cominciano a ordinare e raggruppare insieme i 4 libri, i 4 trattati, ma non compare il testo così come lo possediamo oggi (la stesura completa e definitiva, così come è adesso, si ebbe solo nei primi anni del ‘600, e tutti i testi odierni si rifanno a quell’archetipo, quel primo esemplare, del 1617).
Comunque, la prima “stampa” (parziale) dell’opera si ebbe nel 1471 (anno in cui morì Tommaso da Kempis) ad Ausburg, ma non era completa.
Per cominciare, ammettiamo che sia lui l’autore del libro (se non proprio l’autore senz’altro il compilatore del testo), anche perché è nelle Fiandre che questo testo è apparso… Tommaso era “maestro dei novizi” nel monastero di Monte S. Agnese; inoltre il latino dell’originale ha un “sapore fiammingo”. Per chi sa il fiammingo è facile notare subito, nel latino, una trasposizione d’un verbo e una costruzione letteraria tipica del fiammingo e non rispondente alle forme latine classiche. E’ dunque sicuramente una mente fiamminga che ha redatto l’Imitazione di Cristo. Perciò, con molta probabilità l’ambito redazionale fu quello dell’Abbazia di Canonici regolari di Antwerpen. Ma, a questo punto dobbiamo fare una pausa e fermarci a qualche considerazione.

Il Grande Ruusbroec, muore nel 1381 vicino Bruxelles, a Groenendaal, dove si era ritirato all’età di circa 40 anni, fuggendo il rumore della città di Bruxelles, insieme a due amici, per stare in piena solitudine e vivere nella quiete l’unione col Signore ma, come tutti i solitari, vede nascere ostacoli e guai. Vede arrivare altri compagni che, semplicemente, si presentano e vogliono condividere la sua esperienza. Così, senza volerlo, Ruusbroec si trova a diventare il padre e l’ispiratore della fondazione più importante del periodo precedente la rivoluzione francese: la Congregazione dei Canonici regolari di Windesheim, che conterà fino a 81 monasteri affiliati, nella vallata del Reno, attuale Belgio.
Come è nata la cosa? Lui “commentava testi”, aveva amicizie in monasteri e certose, e aiutava tanti discepoli che, attraverso di lui, volevano capire l’azione nascosta di Dio vivendo una vita fatta di intimità con l’Altissimo e d’orazione.

Tra questi amici c’è una figura importantissima: Gerard, o meglio, Geert Groote (che significa Gerardo il Grande, perché misurava due metri d’altezza); lui era un ricco signore di Deventer.
Deventer, è nella valle del Reno, oggi in Olanda. Gerardo Groote, più o meno nel 1360, torna da Parigi definitivamente disgustato della Teologia che aveva imparato alla Sorbona: giochi di parole, ipotesi su Dio; questa “teologia delle idee” che non nutre assolutamente la vita spirituale non è altro che un insieme di vuote elucubrazioni che, dalla morte di S. Tommaso in poi, occupano le aule di Teologia delle facoltà europee, non son altro che una serie di chiacchiere insopportabili. Lui, torna appunto disgustato da queste interminabili dispute teologiche e, ancor più, dallo stile di vita clericale. Fa così dei semplici “propositi”; egli fugge i “voti” perché son troppo legati all’ambiente ecclesiastico… e i preti non li può più sopportare (tanto che sarà diacono, mai prete). Tra i suoi “proposita sed non vota”, il primo è: mai più mettere piede a Parigi e alla Sorbona; 2. Mai più seguire un corso di Teologia; 3. Mai più… e così via. Tutti propositi che evidenziano il rifiuto del clericalismo dell’epoca. Opta invece per una piena dedizione a letture in grado di educare alla vita spirituale. Tutto un programma che diventerà la Magna Carta di Deventer, stabilito per sé e per i suoi amici, che arrivavano in gran numero per coltivare… che cosa? La “lettura delle fonti cristiane”, la letteratura cristiana, e uno di questi suoi grandi amici sarà Florentius Radewijns, detto Magister Florentius. Cronologicamente siamo nel 1360-1400. Sappiamo che avevano stretti contatti con il vecchio Ruusbroec e che ci hanno impiegato molto tempo a capire la sua dottrina contemplativa. (C’è tutta una parte dell’opera di Ruusbroec che sarà espressione del tentativo del Dottore Ammirabile di spiegare la sua terminologia e i concetti della sua alta contemplazione a Geert Groote…). Quest’ultimo aveva formato un consistente gruppo di amici che, nelle case, messe a disposizione dallo stesso Groote che era molto ricco, si dedicavano a “leggere” e a “scrivere”, cioè a ricopiare a mano (siamo prima dell’invenzione dei caratteri a stampa) le grandi opere mistiche, per fare un po’ di soldi, perché questi manoscritti si vendevano bene, ma soprattutto per dedicarsi ad un paziente lavoro di copiatura e di spiegazione dei testi spirituali (è lo stesso scopo che ci prefiggiamo con noi oggi, nelle nostre Associazioni).

Inizialmente, questi primi devoti pongono un’attenzione particolare alla formazione dei giovani. Il bello è che, così, si dà anche un programma di formazione di vita cristiana, che è fondamentale, e che ritroverete tale e quale nella scuola di Sant’Ignazio di Loyola.
Chiudo la parentesi storica dicendo che questo gruppo di amici di Deventer diventerà molto importante, le case si moltiplicheranno a dismisura e i riformatori dei monasteri parigini che vivranno un secolo dopo in Francia saranno gli eredi diretti dei Fratelli della Vita Comune di Deventer; siamo nel 1530 (Erasmo da Rotterdam ne farà parte), un secolo dopo. Non dimentichiamo che in quel periodo Ignazio di Loyola verrà a studiare a Parigi e incontrerà i Fratelli della Vita Comune e scoprirà la prima scuola pubblica d’Europa, quella di Deventer, e attingerà dai testi tutta la pedagogia di questa nuova istituzione, che caratterizzerà i collegi dei Gesuiti e la scuola europea moderna. Tanto per dire che ci troviamo ad una svolta decisiva, ad un punto chiave della cultura occidentale.

Tornando a Tommaso da Kempis, sappiamo che lui è nato a Kempen, a Nord di Colonia, che in quel momento storico era un territorio dei Paesi Bassi; adolescente, si trasferisce a Deventer, perché nel frattempo questo gruppo di amici di Geert Groote e di Florentius Radewijns, a forza di accogliere giovani (e meno giovani) nella loro fondazione, per leggere e ricopiare, ricevettero il plauso degli stessi municipi cittadini e le autorità civiche cominciarono a dire loro: i nostri giovani potrebbero, anziché andare a zonzo a perdere tempo, venire da voi, fermarsi nelle vostre case e farvi domande, con grande spontaneità, e così ricevere una buona formazione intellettuale. Così la prima “scuola comunale” è nata a Deventer e ha fornito il modello per le scuole pubbliche successive, quelle del 1500.

Certo l’intenzione rimase sempre quella di acquistare una identità cristiana, leggendo e lavorando sui testi della Tradizione. Vediamo di definire questi testi: sono le opere dei Padri della Chiesa, la Bibbia e alcuni maestri dell’antichità: Virgilio, Orazio… ma seppure questo non sia il luogo adatto per affrontare il discorso, sarebbe interessante vedere qual è l’ordine nel quale si devono leggere certe opere per crescere in una consapevolezza cristiana. Quindi sarebbe bello ricostruire l’itinerario formativo pensato da Geert Groote. Noteremmo che l’insegnamento segue un ordine e quello che noi penseremmo originario e più importante non viene per primo… Certo, bisogna sempre cominciare dai 4 Vangeli, o almeno dai 3 Vangeli sinottici, poi vengono alcuni Padri della Chiesa, poi qualche testo biblico, poi un autore pagano, poi di nuovo un libro della Bibbia… non ricordo bene quale fosse l’ordine preciso, l’ho studiato tanti anni fa, ma il principio importante qui è quello di subordinare tutta la scolarità all’intelligenza del mistero cristiano, usando la Scrittura come un “mezzo culturale”, senza alcuna idolatria del testo biblico. Ciò basterebbe a differenziare i Fratelli della Vita Comune dai protestanti, che ben presto, geograficamente, nasceranno nelle vicinanze. Qui siamo in una linea di Tradizione assolutamente “cattolica” ricca di un umanesimo di fondo che porta a conoscere Dio non tanto attraverso un testo materiale, ma, con l’aiuto del testo, nella preghiera, a contatto diretto con un Dio che parla e che può essere compreso. Questo è autentico cattolicesimo, a differenza di ciò che ha fatto fuggire dalla Sorbona Gerardo Groote, cioè quel “nominalismo” che dice: di Dio si sa qualcosa soltanto in base alle idee, ma a questo punto la Parola di Dio non è più – direi – realmente “accessibile”, nella consapevolezza del nominalismo. La Devotio Moderna è in piena reazione, contrapposizione, a questo nominalismo.

Ora torniamo al nostro autore: sappiamo che il giovane Tommaso da Kempis all’età di 13 anni aveva già come Padre Spirituale Magister Florentius, e questi era da sempre in contatto con Groenendaal, l’Abbazia il cui priore era Ruusbroec, Priorato di Canoinici regolari di S. Agostino, la cui regola era molto liberale per chiunque voleva condurre vita monastica secondo lo spirito di Cassiciacum (il primo rifugio di Agostino in Brianza, nella villa dell’amico Verecondo, dove, egli intraprese una vita dedita allo studio, alla meditazione, all’interiorizzazione, e al dialogo con gli amici che lo avevano seguito).
Bene, per tornare al XIV secolo, diciamo che una delle 81 Abbazie affiliate a quella di Ruusbroec era il Monastero di Monte Sant’Agnese (St-Agnietenberg, presso Zwolle). Ma, detto questo, è necessaria una premessa: Radewijns nel 1387, su consiglio di Ruusbroec, aveva fondato, parallelamente e unitamente ai Fratelli della Vita comune, il monastero di Canonici regolari a Windesheim. Due famiglie accomunate da un’unica spiritualità e strettamente legate tra loro. Tanti alunni della scuola di Deventer entreranno in questa fondazione per una vita “formalmente consacrata” (cioè monastica), diversa quindi da quella dei Fratelli della vita comune, che non proponeva una vita claustrale ma una consacrazione laicale nelle case, sullo stile dei beghinaggi.

Un secolo dopo uno dei più illustri alunni di questa scuola di Deventer sarà Erasmo da Rotterdam. Allora, la giovane Università di Lovanio sarà tutta popolata da alunni provenienti dai Fratelli della vita comune. Il più prestigioso tra tutti sarà il futuro Papa Adriano VI (l’ultimo Papa non italiano prima di Giovanni Paolo II), egli chiederà a Erasmo di salvare la cristianità dal luteranesimo e di andare a Roma, egli ne avrebbe fatto un personaggio di primo piano (forse aveva in mente di farlo Cardinale). Egli dette al Papa una superba risposta che riassume pienamente lo spirito dei Fratelli della vita comune e il loro umanesimo. Erasmo risponde così al Pontefice Adriano VI (suo ex-compagno di scuola): “Non ho tempo. Studio il greco”.
Ciò vuol dire che la chiave della Controriforma per Erasmo doveva essere “culturale” e non “religiosa”. Di fatto tutte le grandi “rinascite” nel cristianesimo non nascono mai dal “culto” ma dalla “scuola”.
Comunque i Fratelli della vita comune nel Nord Europa hanno salvato il cristianesimo dall’ondata devastante del protestantesimo, che diffondeva una diffidenza nel valore della ragione umana e un fideismo che non ha nulla a che vedere col genio del cristianesimo, che – torno a dire – è un fatto “culturale” nella sua genuinità. Lo stesso Vangelo è un documento di cultura, è un “textus”, una composizione letteraria – ispirata certo – ma non un miracolo caduto dal cielo.

Tutto ciò ci serve per capire l’ambiente nel quale Tommaso da Kempis ha imparato a leggere, a gustare i testi classici. Questi uomini erano dei grandi lettori, sia quelli di Deventer sia quelli della congregazione di Windesheim con tutta la loro ricca eredità spirituale. Essi usavano comporre dei quaderni di brani scelti (non dimentichiamo che ci troviamo prima dell’invenzione della stampa). Sapevano tante cose a memoria, alcuni l’intera Bibbia. Delle volte, quando si diventava novizi a Monte S. Agnese, era richiesto al candidato un proprio quaderno, dove di solito c’erano raccolti brani di S. Agostino, S. Bonaventura e chiaramente abbondanti testi biblici. Bene, di queste raccolte ne abbiamo abbondanti citazioni nell’Imitazione di Cristo, con frasi facili da memorizzare e aventi una certa musicalità in latino; erano dei brani scelti, come pezzi tagliati con precisione da un bisturi, da una spada brandita da mano esperta. Siamo alla presenza di ciò che era detto rapiarium, cioè un insieme di sentenze, di insegnamenti (immaginate una spada che taglia un foglio in quattro), qui abbiamo quattro Libri, quattro correzioni, quattro “rapiaria”, probabilmente dello stesso Tommaso da Kempis. L’Imitazione è un esempio perfetto del lavoro che all’epoca facevano sia i Canonici di S. Agostino, sia i Fratelli della vita comune; ripropone i temi dello “sposalizio con Cristo”, prettamente monastici, in voga da San Bernardo in poi. Ignazio di Loyola, che pure amava molto l’Imitazione di Cristo, non volle mai parlare di “sposalizio con Cristo, di “nozze spirituali”, uscendo così dalla tradizione mistica di tutti i tempi.

Per terminare la presentazione di Tommaso da Kempis bisogna dire che lui ha dovuto aspettare almeno sette anni, forse fino all’età di venticinque anni, per entrare all’Abbazia di Monte S. Agnese =Agnietenberg (Zwolle), perché aveva già un fratello maggiore all’interno e non era possibile che due fratelli di sangue vivessero nella stessa comunità; la cosa non era vista di buon occhio (forse la comunità era ancora piccola), ma finalmente entrerà. Suo fratello diventerà vice-priore, Tommaso sarà Maestro dei novizi. Comunque, sia come maestro dei novizi sia come appartenente a questa istituzione, Tommaso compone l’Imitazione di Cristo proprio così, e l’opera appartiene a questo “genere letterario”: è un “rapiario”.

Dunque, 4 libri. Probabilmente il quarto, tutto sull’Eucarestia, rappresenta il prodotto della giovinezza di Tommaso, ma, su questo punto, se volete saperne di più, vi rimando ai pochi studi di alta qualità fatti da Pierre Debongnie (Les thèmes de l’Imitation de Jésus-Christ, (1940); L’auteur ou les auteurs de l’Imitation, Lovanio 1957; Dévotion (?); Jean Mombaer de Bruxelles, ses ecrìtes et ses réformes, Lovanio-Tolosa 1928); ma qui siamo ad un ritiro, non ad un corso universitario.
Il tono generale è considerato piuttosto “pessimista”. Certo, l’epoca è terribile: la guerra dei cento anni, le grandi epidemie, il crollo delle istituzioni in genere, di quella scolastica medievale, in particolare dell’Università, che sta malissimo. In un insieme di lotte tra l’impero, il Papa, il Re di Francia. Tuttavia, nonostante un contesto simile, un fattore da non dimenticare è l’ “interiorizzazione” della vita cristiana. Le lotte a cui abbiamo accennato si risolvevano in sanguinosi conflitti armati e migliaia di vittime rimanevano sui campi di battaglia. Il potere spirituale della Chiesa, dal canto suo emetteva un numero incalcolabile di scomuniche e soprattutto di “interdizioni al culto”, sicché, senza il culto, almeno la preghiera silenziosa era possibile. Questo ha molto favorito la vita d’orazione e ha fatto trascurare la vita liturgica; di questo dobbiamo tener conto per capire il tono specifico dell’Imitazione di Cristo.

Prima abbiamo parlato di grandi lettori, con una grande memoria. Chi legge in latino l’Imitazione di Cristo avverte subito che il testo è composto di centinaia di citazioni, soprattutto bibliche. Sembrerebbero circa 1500. E ci serve un po’ di preparazione e un po’ di intuito per percepire che l’autore, qui, pensa a S. Agostino, là si rifà alla Bibbia o a San Bonaventura… e così via; ma questa continua “ruminatio” della Scrittura e dei Padri della Chiesa, produce un’armonia fantastica, facile da memorizzare, che rende unico questo libro. C’è chi può soffermarsi un‘ora su una riga e chi invece legge molto di più; in ogni modo questa lettura è fatta per la “ruminatio”. Sull’autore del presente libro non voglio aggiungere altro, ma ho fatto come Tommaso da Kempis, mi sono documentato, ho letto il testo, l’ho masticato, ruminato, per poi distribuirvelo e così introdurvi alla conoscenza dell’opera e del suo autore.
Doveva essere proprio simpatico Tommaso da Kempis, e si era fatto delle ottime amicizie, aveva dei grandi amici. Uno di questi era Gerlach Peters.
Chi era Gerlach Peters? Un mistico fantastico, della generazione di Windesheim. Egli, purtroppo, era completamente cieco, o quasi; nonostante ciò voleva entrare col suo amico Tommaso da Kempis all’Abbazia di Monte S. Agnese, farsi monaco. Ma un cieco, almeno allora, non poteva essere monaco. Così dunque Tommaso, insieme ad un altro amico, un certo Giovanni Scutken (almeno mi sembra), composero per lui, un “ufficio divino” con delle lettere così grosse da riuscire a far leggere a Gerlach Peters le parti essenziali della liturgia e consentirgli di diventare monaco. Tanto per dire che genere di fraternità riuscirono a vivere questi uomini!

(A questo punto P. Max ci ha consegnato un’antologia di testi dell’Imitazione; quelli che avrebbe commentato)

COMMENTO ALL’ IMITAZIONE DI CRISTO

L’ordine degli argomenti che seguirò è mio; mi sono sentito autorizzato da Tommaso da Kempis a fare il mio “rapiario”. Leggo adesso con voi i dieci temi scelti e finirò questa introduzione. Elenco dunque i dieci titoli. La prossima meditazione entreremo nel primo testo, nel primo tema.

(In questo sito riportiamo solo il commento al primo tema)

1° tema – Lo spirito dell’Imitazione di Cristo: Gesù come amico. (Oggi per noi può sembrare banale, scontato, ma è qualcosa di “rivoluzionario” nella Spiritualità occidentale. Non è che prima fosse “nemico”… ma in questo rapporto Egli abolisce tutte le distanze, si fa vicino, colma ogni dislivello tra Lui e noi). L’ho scelto come primo tema perché è la chiave di tutto il Libro. Tratteremo del colloquio con questo amico divino.
In un’epoca in cui tutto va male, dove si susseguono e si moltiplicano le malattie, dove la Francia è stremata dalla guerra dei cent’anni (certo essi vivono un po’ più a nord, ma risentono dello stesso clima funesto), dove l’istituzione ecclesiastica vive un periodo terribile ecc… beh, dice Tommaso (da K.), la Chiesa può consolarsi con Gesù. Il tema della consolazione, che vedremo, nasce qui con l’Imitazione; e quando, negli Esercizi, Sant’Ignazio riprende l’argomento, questo tema sarà importantissimo per lui e l’intenderà alla maniera di Tommaso da Kempis, come “Gesù unico vero consolatore e amico”.

2° tema – Pazienza e umiltà. E’ il binario su cui corre tutta l’Imitazione. Due categorie che potrebbero essere fraintese. Vi ho già detto che spesso certi insegnamenti sono stati compresi in senso morale, nel senso di uno stoicismo cristiano che non esiste. La pazienza sarà quella di Gesù, e l’umiltà, pure, quella di Gesù. Entreremo in questa attitudine e capiremo il messaggio dell’Imitazione.

3° tema – sarà la pace del cuore. Ricordate l’ideale di Geert Groote? Una bella casa, con buoni amici, con una grande biblioteca, tutto finalizzato a questa “pace profonda” (anche qui pace spirituale, s’intende!). Immaginatela questa casa silenziosa; la pioggia rimane fuori, all’interno si diffonde il tepore del focolare; dentro non disturbano le notizie della Televisione. Se all’esterno gli altri sono interessati alla TV peggio per loro! Noi rimaniamo presso il camino acceso, nella sala di lettura, a gustare cose molto più importanti. Questo terzo tema avrà molto da dirci sull’equilibrio di una vita cristiana costruita sull’interiorità, in un’epoca travagliata come quella di Tommaso da Kempis. Naturalmente questo ci porta al quarto tema.

4° tema – Parlare e tacere. Chiaramente meglio tacere che parlare… ma su questo tema l’Imitazione ha delle considerazioni altissime, formidabili. Comunque i secoli XIV e XV sono un tempo nel quale si prende sempre più consapevolezza della precarietà della vita.

5° tema – La vita quaggiù è un esilio, fortunatamente breve. Questo pellegrinaggio terreno sarà breve, passerà presto. La vita terrena non è molto gradevole, è un “momentaccio da passare”. L’Imitazione, in questo è “specchio della morte”; “specchio” medievale, come “genere letterario”. Lo specchio allora si doveva spostare, manipolare, perché la superficie non era perfettamente levigata e non rifletteva l’immagine con assoluta precisione, perciò l’azione di muoverlo permetteva di mettere a fuoco tutte le sfaccettature (lo scintillio) di ciò che in esso si voleva vedere. In questo caso leggeremo nel testo le considerazioni che ci serviranno a prendere le distanze da tutto ciò che il mondo dichiara importante… e tutto questo, per noi, non è altro che fissare lo sguardo sull’eternità e …preparare il proprio funerale…(risata).

6° tema – E’ un tema che, da S. Bernardo in poi, pervade l’intero Occidente: la croce di Gesù. La croce, ma come patibolo del Cristo che versa il suo sangue, proprio come è rappresentata nel ‘400. Non siamo più nell’iconografia simbolica medievale che raffigurava la croce gloriosa e il Crocifisso vittorioso sulla morte. Di fronte alla croce dolorosa di Cristo le nostre croci diventano delle eco di essa, soprattutto quella della tentazione. Come vivere la tentazione? Vedremo come Tommaso da Kempis sviluppa un tale tema.

7° tema – Consolazioni e desolazioni. Vi ho detto che non si può leggere Sant’Ignazio senza riferirlo a questa “autoanalisi” dell’Imitazione di Cristo. Cosa finalmente mi produce la consolazione, cosa invece mi dà desolazione… E’ il cosiddetto “atto di discernimento degli spiriti”. E, chiaramente, l’abbiamo già detto, la consolazione viene da Gesù.

8° tema – E’ meno specifico e tuttavia interessante; riguarda i beni di questo mondo. L’ho intitolato: ricchezza e spogliamento.
I Fratelli della vita comune avevano un gran senso del conforto. E’ facile essere poveri quando non abbiamo nulla, ma quando si possiedono delle cose… L’Imitazione di Cristo ci dice molto sull’uso dei beni di questo mondo, e per noi sarà molto utile meditare su: ricchezza e povertà.

9° tema – E’ quasi l’ultimo, perché il decimo sarà una trattazione a parte. Il nono riguarda il discernimento. Discernere tra “natura” e “grazia”, cosa viene da noi e cosa viene da Dio, per capire quando agisco secondo la volontà di Dio e non secondo la mia. Anche qui, Sant’Ignazio non è lontano, o almeno, egli non può essere ben capito senza certi criteri.

10° tema – l’ultimo, l’ho preso dal IV Libro e l’ho dedicato all’Eucarestia. L’ho considerato un tema a sé perché a me sembra che queste siano le più belle pagine mai scritte sull’Eucarestia, …per vivere l’Eucarestia. Testi di impareggiabile bellezza per quell’epoca. Se è vero che la liturgia era poco celebrata, poco accessibile, in quel momento storico, a causa delle misure canoniche prese dall’autorità ecclesiastica (per questo c’è chi accusa l’Imitazione di Cristo di filoprotestantesimo), ma vedrete fino a che punto i Fratelli della vita comune sapranno trasmettere il realismo dell’Eucarestia… Vi proporrò due pagine stupende che vi invoglieranno a leggere tutte le altre.
Cercherò di mettervi nella condizione di apprezzare quel che seguirà; perciò vi invito al raccoglimento, nel quale dobbiamo entrare subito. Siamo alla presenza del Signore.

(Noi seguiamo l’edizione bilingue della San Paolo: De imitatione Christi / L’imitazione di Cristo, versione italiana di Ugo Nicolini, Cinisello Balsamo (Milano) 1988)

Prendo la prima pagina del primo capitolo del primo Libro. Leggiamo:
“Tutto è vanità, fuorché amare Dio e servire Lui solo”. (Lib. I,1)
Chiaramente Tommaso ha in mente l’inizio del Libro di Qoelet. E qui siamo già nel cuore dell’Imitazione: vale solo “amare e servire Dio”. Tutto il testo è – come dire – costruito sopra questi due pilastri: l’amore e il servizio di Dio. E nasce subito la domanda: Perché? Troviamo la risposta: “E’ forse qualcosa servire Te? Te che ogni creatura deve servire…” (Lib.III,10,2) Come dire, questa è la normalità. Il servizio è la prima cosa dovuta a Dio, perché siamo creature. E qui emerge il “moralista”, ma, subito dopo, il vocabolario cambia. Tommaso da Kempis, ama intensamente Gesù e, colui che ama, fa del servizio – come dire – una “elezione”. (mi hai ammesso fra gli “eletti”) (Lib.III,10,2). In latino: “diletti servi”. Ho seguito la parola dilectus, dilectio, diligere, in tutta l’Imitazione: è un termine chiave. Tommaso da Kempis sa di essere uno di quelli che Gesù “non chiama più servi, ma amici”, “diletti amici”, e la dilectio è il frutto dell’electio (eligere).
Qui è sottesa tutta una concezione della vita cristiana intesa come “elezione”.
Gli eletti non si identificano con i salvati. Gesù è morto per tutti; è morto per salvarci; ma alcuni li ha “eletti”, e questi hanno con lui una relazione non “servile”, cioè non semplicemente da “salvati”, ma esprimono per Lui una dilectio; essi sanno di vivere da “privilegiati”, per amicizia, per amore, e non semplicemente perché appartenenti all’umanità redenta.
“Come mai io che sono servo, creatura, sono stato scelto per vivere con te, Signore, un’amicizia?”
Tutta la settimana che vivremo insieme, vorrei che la trascorressimo con questa consapevolezza: noi siamo chiamati all’intimità con Cristo, all’amicizia. Tutto ciò che io ho, tutto ciò che posso consacrare al Tuo servizio, è Tuo. E tuttavia, prendendo il mio pasto, so che Tu servi me più di quanto io stesso serva Te.
Andiamo a Lib.III,10,2:
“Ecco, tutto fanno prontamente, secondo il tuo comando, il cielo e la terra, che tu hai creati per il servizio dell’uomo. E questo è ancor poco, perché anche gli angeli li hai predisposti per il servizio dell’uomo. Ma al di sopra di tutto sta il fatto che tu stesso ti sei degnato di servire l’uomo, promettendogli in dono Te stesso”.
Qui avete l’umanesimo, che comincia proprio in quest’epoca: l’uomo al centro dell’universo; servito da tutte le creature. E non solo! Anche Dio – dice Tommaso da Kempis – è “al servizio dell’uomo”. Nel Medioevo si sarebbe detto esattamente il contrario. L’uomo era considerato sempre creatura. Ma questo “stupore” per l’amore di Dio, nei Fratelli della vita comune, fa riferimento all’ultima cena, al Giovedì santo, quando Gesù dice: non vi chiamo più servi, ma amici.
Come mai, Dio, di fronte a noi, si mette in adorazione?
Come mai il Signore dell’universo si pone in ginocchio a servirci?
Come mai Dio si degna di servire l’uomo, promettendogli in dono se stesso?
Perché l’uomo è fatto per diventare Dio. Ecco, abbiamo gettato lo sguardo sul Rinascimento, sull’uomo, che – in qualche modo – è più grande di tutti.
Qui abbiamo l’impostazione fondamentale dell’Imitazione di Cristo; tutto verte sulla nobiltà dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, servito dall’intera creazione e da Dio stesso. Devo accettare la cosa perché Dio ha voluto questo “per amore”. Ci ha messi nella condizione di non essere più servitori, ma amici, amati, diletti. Tutto il resto non conta più; “tutto è vanità”, se non amare Dio e servire Lui solo.
Poniamoci allora una domanda pratica: qual è l’ “atto” della mia vita, cioè la scelta fondamentale della mia vita? Io, ho orientato a Dio la mia esistenza?
Assumiamo un nuovo atteggiamento. Diciamo: “Che meraviglia! Incontrarmi con un Dio che si mette al mio servizio”. E io invece vivo per il mondo. Bene! Allora, che li faccio a fare gli esercizi?!
Chiediamoci: ho capito davvero questa “rivoluzione” di un Dio che si fa mio amico e che mi stima al punto di “attendere la mia dilectio”? E, visto che tutti abbiamo bisogno di prendere delle decisioni, lasciamoci “correggere” dalle sentenze che in queste giornate, il nostro autore ci rivolgerà. Ciò sarà possibile se sapremo consacrare il nostro tempo all’ascolto, alla musica divina dell’Imitazione di Cristo.
Le nostre meditazioni serviranno a determinarci, a convertirci, a cambiare. Pregare, significa questo. Non lasciamo che gli esercizi rimangano inefficaci e non lascino traccia alcuna in noi.. Certo, l’amore autentico non è mai “dovuto”, è sempre una “sorpresa”. Però non accorgiamoci troppo tardi di essere amati da Dio…
Mentre la giustizia vorrebbe che la creatura si metta al servizio del Creatore, ecco il mistero cristiano rivelato in Gesù: il Giovedì santo il Maestro si fa servitore; anzi, molto di più: mettendosi al mio servizio mi dice: “adesso tu sei mio amico”.

GESU’ COME AMICO – L’amore autentico non è mai “dovuto”, è sempre una sorpresa, dicevamo la volta scorsa, non ha niente a che vedere con i miei meriti; è qualcosa che assolutamente non posso fabbricare… Tutta l’Imitazione di Gesù Cristo sarà la presa di coscienza di questa scelta totalmente imprevedibile di Dio… e “sempre troppo tardi” (diceva già Agostino) mi accorgo di essere amato da lui in maniera così totale, fino a stupirmi di questo amore immenso. E la giustizia vorrebbe che la creatura servisse il Signore, il mistero cristiano invece, quello del Giovedì santo, ci fa capire un amore che non vuole renderci servi, ma amici. Il testo che andiamo a leggere e commentare vuole insegnarci ad essere “amici di Gesù”. In questa meditazione sarà appunto l’amicizia di Gesù che ci occuperà. Leggiamo l’affermazione presa dal Libro II, c.7,1, forse è la più “decisiva” di tutta l’Imitazione:
“Beato colui che comprende cosa voglia dire amare Gesù”. Anche qui il Latino è più sintetico e dà forza al pensiero:
“Beatus qui intelligit quid sit amare Iesum” “e disprezzare se stesso per Gesù”; e qui comincia qualcosa che mi mette un po’ paura: una lettura moralizzante di ciò che in fondo non è che “stupore” di tutti gli innamorati del mondo; quando ci si accorge di amare qualcuno, nello stesso sguardo della propria intimità, ci si svaluta agli occhi della persona amata. Veramente, la traduzione italiana parla di “disprezzo”, ma non è esatto questo termine, il latino parla di “contemnere”, che è piuttosto una consapevolezza, ma non triste. Dio non è disgustato dell’uomo, ma, nel suo amore, dice: Come è grande l’uomo quando Dio lo guarda. E così, amare Gesù, è constatare propter Iesum la mia impotenza radicale. Se io, in me stesso fossi qualcosa, Dio non mi servirebbe, ma – dice S. Caterina da Siena – se invece siamo nulla, Dio farà in modo che il nostro esser sia “di solo amore” (“suo”, chiaramente); ecco ciò che qui è sottinteso. Beato dunque colui che comprende cosa significhi amare Gesù. Allo stesso momento capirà che vale soltanto questo amore. Allora, la prima conseguenza la troviamo in Lib.III, 10,3.
“Occorre che il nostro amore per Lui ci distacchi da ogni altro amore, perché Gesù vuole essere amato, lui solo, sopra ogni altra cosa”.
Una decina di parole per rendere tre parole latine: “dilectum propter Dilectum”. Non si tratta di dire: “mi distacco da tutto” per poter, di conseguenza, “amare Cristo”, no! Dilectum propter Dilectum relinquere indica piuttosto “uno scambio”, o meglio: una correzione. Nel vocabolario che stiamo usando il termine “dilectio” è simmetrico ad “electio”; l’amore vero è una “scelta” più che qualcosa di istintivo. Qui, io, scoprendomi “il diletto” di Gesù, lascio perdere “i miei diletti”; essi “svaniscono” in qualche modo, perché ho una “dilezione più grande”. Si progredisce nell’amore sempre “per preferenza”, mai per disprezzo di ciò che amavamo prima. E l’amore autentico, cresce sempre, ma mai “rinnegandosi”.
Il guaio del peccato è che a volte scegliamo “un amore minore”, e il rimedio al peccato non è affermare: “non devi più fare questo!” Ma: “Devi fare meglio di questo”, anzi – ancora meglio – “amare di più”. Tutti i mistici, e Tommaso da Kempis presuppone la mistica, ci insegnano ad amare di più, mai a “rinunciare” tanto per rinunciare, perché la natura, la nostra natura, ha bisogno del “di più”; siamo creati in un movimento di espansione. Dunque, assolutamente, non dobbiamo pensare la vita cristiana, la vita spirituale, come una restrizione. Noi dobbiamo “crescere” nella vita; perciò la nostra direzione, la nostra preferenza, deve mutare in “dilectio Christi”. Ora, pure noi possiamo “eleggere”, “scegliere” Gesù, come Lui ha scelto noi. E questo perché “Gesù (come ogni grande amante) vuole essere amato da solo” (=Iesus vult solus super omnia amari).
Di fatto, il nostro Dio è “un Dio geloso”; tutta la Bibbia lo dice; questa elezione d’Israele… Perché proprio Israele tra tutti i popoli? Il testo sacro, nella Genesi, afferma: “Ho scelto Giacobbe e ho rigettato Esaù”… Perché? Perché è così e basta! L’amore è una preferenza. E una preferenza che determina una esclusione, l’amore è esclusività.
E gli altri? Nel rapporto d’amore gli altri non interessano… e non possiamo far nulla di meglio per loro che vivere il nostro amore esclusivo. L’amore è sempre “tra due persone” che ne fanno nascere una terza. L’amore è sempre trinitario! Non si ama la folla! Gesù non dice mai alla folla: “Voi tutti, venite!”, Gesù dice sempre: “Tu, seguimi!”.
L’amore è una relazione personale, che costituisce una persona in rapporto all’altra. Gesù vuole star solo con te. Questa è la chiave di tutta l’Imitazione. Il dialogo fecondo con Gesù non è egoismo; è radicamento nell’amore vero… Tutto ciò che appartiene al Padre appartiene al Figlio e viceversa, ciò che è del Figlio è anche del Padre… E gli altri? Diventano “figli” nel “Figlio”, perché anch’essi, misteriosamente, sono invitati a questa relazione d’amore. Questa è la fecondità dell’unione. Ma dove non c’è unione non c’è fecondità e qui, parlare degli “altri”, non serve ad altro che a constatare l’impossibilità di un amore che non sia “unitivo” e “singolare”.
E torniamo a porre la domanda di questa settimana: Qual è la nostra scelta di fondo? La nostra “opzione fondamentale”? Il nostro unico grande amore? Gesù o “altro”?
Se non è Gesù… purtroppo… Cosa ci dice l’Imitazione Lib.II, 7,1?:
“Chi s’attacca alla creatura, cadrà con lei” . “Qui adhaeret creaturae cadet cum labili” cioè, chi s’attacca alla creatura cadrà con lei, che facilmente viene meno, mentre “chi abbraccia Gesù, troverà salvezza per sempre”. Perché? La creatura non è di per sé cattiva, ma sussiste soltanto “in quanto inserita in Cristo”. Se tu tieni stretto Cristo, tieni in mano il mondo, perché sei con Cristo; se tu ti attacchi al mondo, non tieni né Cristo né il mondo, e cadi.
“Non sono venuto a condannare il mondo” dice Gesù nel Vangelo, ma l’Imitazione aggiunge: il mondo non è da condannare in quanto “mondo”, no! Ma il mondo è “fragile” e non permette all’uomo un appoggio sicuro. Dunque, attaccarsi alla creatura, significa “finire con la creatura”, invece “abbracciare Gesù” (firmabitur in eum) significa trovare in Lui la forza, come nel Sacramento della Cresima, ed essere veramente uomo; confermato nell’umanità.
Essere “meno di Dio” non è sufficiente per l’uomo, perché l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. L’uomo non è “un lontano riflesso di Dio”, “è Dio” “completamente”, anche se distinto da Dio; ma “partecipe della divinità”. Questa grandezza dell’uomo permette la reciprocità, senza la quale non può esserci vero amore tra due esseri, bensì confusione. La personalità, il fatto di essere qualcuno, richiede la distanza, ma una distanza che non impedisce l’unione, anzi, la permette, affinché non ci riduciamo ad una “confusione di cose” ad una distruzione delle persone. Chi abbraccia Gesù dunque, troverà questa pienezza di umanità.
Andiamo ancora a Lib. II,7,1: “Ama e tieniti amico Colui che, quando tutti se ne andranno, non ti abbandonerà, né permetterà che, alla fine, tu abbia a perire”.
Dunque, quando tutto il resto e tutti gli altri, ti mancheranno… e non per cattiveria, ma solo perché esseri finiti e fragili, che non potranno a lungo sostenerti, Gesù non verrà mai meno e non ti lascerà. Una delle chiavi di lettura di questo bellissimo testo è la seguente: comunque, Dio, ci ama infinitamente più di quanto noi stessi riusciamo ad amarci. Per questo, non ci sarà mai una “concorrenza” tra “amare Gesù” e “amare me stesso”. C’è chi crede che essere cristiano sia un sacrificio…no! E’ un investimento intelligente! Cercando Cristo, trovi la felicità; cercando la felicità senza Cristo perderai Cristo e la felicità, perché, dirà un po’ più avanti l’Imitazione, non è che “Gesù ti rende felice”, “Gesù è la felicità”. Questa è un’idea basilare di Ruusbroec: per essere di più noi stessi dobbiamo essere di più Cristo. Il cammino verso di noi, e la conoscenza di noi stessi, è solo Gesù Cristo.
Viene poi una delle tante annotazioni cariche di buon senso che attraversano tutta l’Imitazione; qui parlo di buon senso “soprannaturale” – attenzione – anche se, la frase che stiamo per leggere può venire da Seneca, autore tanto letto da tutti i sapienti cristiani: “Che tu lo voglia oppure no, dovrai un giorno separarti da tutti”. Sarà tra un giorno, tra un anno o tra vent’anni, non so… ma certo non saremo eterni su questa terra. “in vita e in morte dunque, tieniti stretto a Gesù, e affidati alla fedeltà di Lui, che solo ti potrà aiutare quando tutto verrà meno” (nel senso che tutto ti mancherà, difetterà).
Ma andiamo avanti, Lib. II,7,2:
“(Per sua natura) Tale è il tuo Diletto che non vuole permettere che tu ami altra cosa; egli vuole possedere da solo il tuo cuore, e starvi come un re sul suo trono”. Riprende dunque questa esclusività dell’amore, ma qui fa riferimento ad un re sul suo trono. Un accenno che è piaciuto a tanti lettori dell’Imitazione. Gesù “Re dei cuori”. Egli regna nei nostri cuori, dicono Teresa d’Avila, Marie de l’Incarnation, Molinos e tanti altri… Tutti hanno desiderato che Gesù fosse l’unico Re dei nostri cuori.
Continuiamo a leggere: “Se tu saprai liberarti da ogni creatura, Gesù di buon grado starà presso di te”. Anche qui si corre il rischio di pensare: “Devo vuotarmi per fare in modo che Gesù possa entrare”, mentre il testo originale rende un’idea un po’ diversa: “Quando Gesù entra, il resto se ne va”. Dobbiamo saper accorgerci sempre di questo pensiero e movimento positivo dell’amore. E l’amore più forte non “caccia” ma “integra”, “supera”, l’amore meno forte (non c’è nulla che regga al confronto!). Il latino gioca con “ab omni creatura evacuare” e “Iesus libenter tecum habitaret”. Abitando Gesù in te, la creatura deve evacuare. Questo trasferimento, questa presa di possesso, che in qualche modo “sgombera il campo”, va inteso chiaramente in senso spirituale. L’autore avrà in mente qui – sicuramente – l’habitavit in nobis del Prologo di Giovanni, e dunque non si tratta di “uccidere”, “rifiutare”, “sopprimere la creatura”, ma di invitare Gesù ad abitare in noi… Fatto questo, il resto viene con sé. Si instaura in nuovo equilibrio, non più “nelle creature” ma “nel Creatore”, quando Lui troverà posto in te. Qualunque fiducia tu abbia posto negli uomini e non in Gesù, a lungo andare, ti risulterà perduta.
Passiamo direttamente al Lib. II, 7,3, perché non pretendo di commentare ogni sentenza di Tommaso da Kempis; sarebbe troppo lungo e stancante. Questo libro è così ricco che necessita di essere ripreso e meditato con calma da voi e al vostro ritmo (una frase alla volta, o cinque, o cento), magari nella preghiera. Vedrete come vi nutrirà.
In questo paragrafo compare una legge della vita spirituale, più constatata che provata, è la seguente: “Se cercherai in ogni cosa Gesù, troverai certamente Gesù (il latino dice “ovunque Gesù”), ma se cerchi un’altra cosa, “mai” troverai Gesù. E’ il caso di coloro che dicono: per mettere in pratica i comandamenti, comincerò ad amare prima i miei fratelli, poi, se mi rimane tempo, amerò pure Dio”. Proprio no! Gesù dice: “Il secondo comandamento è simile al primo”, e non dice “il primo comandamento è simile al secondo”. E’ giusto dire che l’uomo è “a immagine di Dio”, ma è cretino dire che “Dio è a immagine dell’uomo”.
Ma andiamo al testo e continuiamo: “Se cercherai invece te stesso, troverai te stesso, ma con tua rovina”; non certo perché Dio vuole castigarti… Questa rovina è solo dovuta al fatto che l’uomo è “tutto in Gesù” e “niente fuori di Lui”. Sì, ribadisco che il cammino verso di noi è Gesù; infatti, l’uomo che non cerca Gesù nuoce a se stesso, più di quanto non possano nuocergli tutti i suoi nemici, satana e il mondo intero. Ah! Se fossimo persuasi di questo! A volte trascorriamo le giornate a prendere precauzioni, nel caso Dio ci chieda cose difficili da attuare o ci dia delle prove… e così passiamo il tempo ad assicurarci il futuro… Ma, chi è più interessato alla nostra felicità se non Gesù? Dunque, pensare che Lui ci castighi è semplicemente “stupido”!
…Eh sì! Sposare la figlia del banchiere è meglio che aprire un conto in una Banca che non mi dà interessi… solo così, avrò tutto in un istante.
Tutta l’Imitazione non fa altro che invitarci a mettere ordine, intelligentemente, a tutto ciò che, dal peccato originale in poi, riceviamo in un disordine totale.
Dunque, l’uomo che non cerca Gesù, ad immagine del quale è stato fatto, nuoce a se stesso.

Questo ci porta a considerare un sotto-tema: la dolcezza di Gesù.
Possiamo dire che, nella storia della Spiritualità, si comincia con l’Imitazione una “riabilitazione” – e lo dico con un po’ di timore – dei sentimenti… Ho paura dell’inflazione che oggi hanno i sentimenti nella vita spirituale. Si dà loro troppa importanza, e la parola stessa “sentimento” non è facile da capire. Parliamo qui di “sentimenti spirituali” ma, nell’Imitazione, questi sentimenti spirituali sono la percezione di Dio, che, al contrario, nella maggioranza degli autori medievali, dev’essere assolutamente spirituale e quindi scevra – sentimentalmente parlando – dal concorso dei sensi. Nell’Imitazione trova eco invece una sensibilità innegabile. Ultimamente ho dovuto scrivere un articolo su una parola: “La devotio nella storia della Spiritualità”, mi sono accorto che, di fatto, il termine “devotio” è qualcosa di completamente neutro dal punto di vista sentimentale. Almeno fino all’Imitazione di Cristo indica l’ “essere legato, per voto, alla divinità” (devotio viene appunto da “voto” “votum”); ma qui, con l’Imitazione, comincia questa sfumatura moderna, per la quale un “devoto”, quasi con le lacrime agli occhi, o per gioia o per tristezza, vive la fede con una forte componente sentimentale. Non è vero al cento per cento, ma, di fatto, comincia con l’Imitazione questa “attenzione”, e aggiungerei “valutazione”, di tali risonanze sensibili. Naturalmente non bisogna esserne vittime. L’Imitazione rimane un cammino di fede “completo” e constaterete, almeno un po’, leggendo “Gli esercizi” di S. Ignazio, che “la presenza di Dio” provoca in noi un certo stato emozionale. E’ l’emergere delle emozioni nella vita spirituale. E’ in questo senso che va intesa la “dolcezza di Gesù”. Certo, una dolcezza “maschia”, forte. Tommaso da Kempis considera l’uomo nella sua “gravitas”, ma come un essere che sa piangere, ridere… che sa gustare la dolcezza e l’amarezza della vita, in ogni momento.
Ma, passiamo al Lib. II, 8:
“Quando Gesù è presente, tutto è per il bene e nulla pare difficile. Invece, quando non è presente, tutto è difficile”.
Non so perché in italiano sia ripetuto due volte “difficile”, perché in latino si legge: “(con Gesù) nulla pare difficile. Invece, quando non è presente (Gesù), tutto è “duro”. Quest’ultima parola, “duro”, in Tommaso da Kempis è precisa e sta ad indicare che, quando Gesù non c’è, la vita è pesante; è come dire: se sono a cento chilometri da un caro amico, sto male, perché vorrei essere con Lui e basta; non tanto per il fatto che non riesco a fare ciò che ho da fare.
“Quando Gesù non parla nell’intimo, ogni consolazione vale assai poco. Invece, se Gesù dice soltanto una parola, sentiamo una grande consolazione”.
Ecco il termine: “consolazione” (consolatio); si ritroverà in senso un po’ meno sentimentale in S. Ignazio, come “criterio della presenza o dell’assenza di Gesù”. Comunque, quando Gesù non parla nell’intimo, può succedere di tutto, può accadere il peggio.
In latino l’espressione è così: Quando Iesus intus non loquitur, consolatio vilis est. Qui siamo, come è stato già detto, sulla scia di Ruusbroec; i traduttori latini di Ruusbroec, traducono la sua innig leven come “vita interna”, vita di Dio dentro di noi. Egli (Dio) “parla internamente”; la vita interiore, di cui trattiamo, si riferisce a questo, e quando Gesù non ti parla internamente?… E’ un guaio.
Ruusbroec parla di “vita desiderosa”, cioè di una vita inabitata dal desiderio di Dio. Questo desiderio veemente (in olandese medievale: begeerten) è il segno inoppugnabile che il Signore sta parlando dentro di noi. E dunque, quando Gesù non parla nell’intimo, ogni consolazione vale assai poco; se invece Gesù dice “soltanto una parola”, sentiamo grande consolazione.
E ancora: “Forse che Maria Maddalena non sobbalzò subitaneamente dal luogo in cui stava in pianto, quando Marta le disse: c’è qui il Maestro che ti chiama? Felice (per noi) il momento nel quale Gesù ci invita dal pianto al gaudio spirituale!” Anche qui la traduzione – che pure non è cattiva – elude il tema soggiacente della “chiamata” dello Sposo che viene di notte; altro tema fondamentale di Ruusbroec: “Ecce, Sponsus venit, exite obviam ei” (“Ecco lo Sposo che viene. Uscite per incontrarlo”). Quando lo Sposo arriva si ode un grido nella notte. L’eco di questo grido nella notte la trovate dieci volte nell’Imitazione; questa è una di esse.
“Come sei arido e aspro – il latino traduce di nuovo “durus” (senza Gesù la vita è dura) – lontano da Gesù”; come sei sciocco e vuoto se desideri qualcosa d’altro”, dice il latino: si cupis aliquid extra Iesum!
Dunque tutto è bello “in Gesù” ed “extra Iesum” nulla ha sapore… non perché le cose siano malvagie in sé, ma perché le cose sono buone “in Gesù”. E dunque è sciocco e vuoto desiderare una cosa “extra Iesum”, perché è solo Gesù che ci darà tante cose.
Anche qui c’è una leggera sfumatura che nella traduzione si perde; è come se il traduttore mostrasse l’amico di Gesù disgustato delle cose. No! Il resto mi piace, ma in quanto viene elargito dalla mano di Gesù. “Non è, questo, per te, un danno più grave che perdere il mondo intero?”
E’ quel che dicevamo prima: il mondo, senza Gesù, non sussiste; mentre Gesù, con Se stesso, ci dà Se stesso e il mondo. Ma “chi potrà darti il mondo senza Gesù?” Adesso viene la più bella definizione dell’inferno e del paradiso: “Essere senza Gesù è un duro inferno; essere con Gesù è un dolce paradiso”. (Lib. II, 8,2)
Questa frase si può far trascrivere anche ai bambini del catechismo, senza fare discorsi escatologici troppo complicati… magari parlando di fiamme e del diavolo con la pentola… Dove c’è Gesù c’è il paradiso, dove non c’è Gesù c’è l’inferno… lo troverete più volte nell’Imitazione. E’ così semplice…
Gesù non è “un premio”, “è la vita”. E’ per questo che il peccato è detto “mortale”. Non perché Dio ha mantenuto la pena di morte, ma perché, quando vi staccate da Dio, siete morti. Ma siete voi che vi suicidate, non è certo Lui che vi ammazza dicendo: “Eh no, ora hai veramente esagerato, adesso ti uccido!”
Questo ci permette anche di chiarire la nozione di “peccato mortale”. Il peccato mortale non è un peccato che “fa male”; è un peccato che potrei definire piuttosto come “il massimo dell’indifferenza”. Vivere senza Gesù è l’inferno. Questo è il peccato mortale!
Chi ama, dimostra di essere ancora con Gesù, e dunque non è perduto, ma salvato. Amare Gesù è più che la semplice salvezza… è il paradiso in terra. Nel Vangelo, chi è condannato? Chi è veramente perduto? Il fariseo, non il peccatore. Basta riconoscere il peccato per essere certi di essere salvati. Quando uno viene a confessarsi, non viene tanto per riavere in prestito la vita cristiana, ma viene perché “ha ritrovato la vita cristiana”. Il Sacramento in questione “non perdona”, ma “celebra il perdono”, esattamente come l’Eucarestia: non ti dà Cristo, ma celebra la tua unione con Cristo. Altrimenti tutto si riduce ad un gesto “esterno a voi”. Tutti i Sacramenti “celebrano”. Tutta l’importanza della Liturgia non è per “produrre” la grazia, ma per “celebrare la grazia” e darle una veste umana, culturale, un linguaggio.
Andiamo avanti: “Se Gesù è con te, nessun nemico potrà nuocerti”. La conseguenza di perciò è: “Chi trova Gesù trova un grande tesoro prezioso; anzi, trova un bene più grande di ogni altro bene… Colui che vive senza Gesù è privo di tutto; colui che vive saldamente”. In latino l’espressione è molto graziosa “Pauperrimus est qui vivit sine Iesu, ditissimus est qui bene est cum Iesu.” (=Poverissimo è colui che vive senza Gesù, saldissimo è chi sta bene con Gesù). L’idea fondamentale dell’Imitazione è appunto: “stare bene con Gesù”.
E ancora: “Grande arte è saper stare con Gesù… (ed infine) sii umile e pacifico, e Gesù sarà con te; abbi devozione e serenità di spirito, e Gesù sarà con te”. Il latino – ancora una volta – è musicale… E’ il risultato di una lunga meditazione. L’Imitazione, direi che è il quaderno delle meditazioni di Tommaso da Kempis, e c’è un equilibrio persino nella pronuncia delle parole, nel loro uso, ed è per questo che, di tanto in tanto, bisogna ricorrere al latino: “Esto humilis et pacificus, et erit tecum Iesus”. Ed ora, un passo avanti: dopo aver detto “sii umile e pacifico, e Gesù sarà con te”, aggiunge: “abbi la devozione (non “la serenità di spirito”, ma) “la quiete spirituale”. “Sit devotus et quietus (che è il parallelo di “sii umile e pacifico”, allora cosa succede?), “permanebit tecum Iesus”, dunque non “Gesù sarà con te” (come è tradotto), ma “Gesù rimarrà con te”. Vuol dire che, nel passaggio dall’umiltà e dalla pace alla quiete (contemplativa), si realizza la permanenza di Gesù in te. Vedete come è preciso ed equilibrato il nostro autore?! Egli indica il movimento dell’anima, che cercando la pace, trova la quiete, e Gesù abita in lei. Trovato Gesù, essa risiede in Lui, e questa è la vita contemplativa.
“Senza un amico non puoi vivere pienamente; e se non hai come amico, al di sopra di ogni altro, Gesù, sarai estremamente triste e desolato”. (Lib. II, 8,3) Qui arriva a pronunciare la parola chiave: “Gesù amico”. Tutto quello che abbiamo detto fin qui ci parlava di Gesù amico, ma ora lo si dice espressamente (forse prima di Tommaso da Kempis l’aveva detto San Bonaventura), ma qui si parla di un’amicizia privilegiata con Dio e con i fratelli. A questo punto non si parla più tanto di matrimonio (come in Ruusbroec e nei medievali, a cominciare dalla letteratura di S. Bernardo), ma di “amicizia”. Dopo l’Imitazione di Cristo si parlerà ancora di “matrimonio spirituale”, pensate a S. Teresa d’Avila e a tanti mistici posteriori, ma alla fine del ‘300 il matrimonio non è più un’immagine positiva, né all’interno delle relazioni fraterne, né per la relazione con Dio. Perché?
Perché tra le catastrofi del XIV secolo, c’è il crollo dello “status” muliebre in Occidente, e, direi, nei migliori poeti del tempo, trovate delle pagine orribili sulla donna, che appare lasciva, depravata. Un autore dell’epoca scrive: “La donna è una prostituta. Se non lo è lo sarà o lo è stata.” (Clément Marot – poeta francese del primo ‘500)
Perciò in questo periodo storico si comincia a parlare della relazione più bella tra l’uomo e Dio come di un’amicizia. I Fratelli della vita comune, questo circolo sorto intorno a Geert Groote e a Florentius Radewijns, vivono legami di amicizia nel senso agostiniano della parola.
Il matrimonio, l’istituto familiare, è una comunità. L’amicizia è più una rete di relazioni; non si pretende di fare tutto insieme, quanto di “aiutarci a fare”, personalmente, le cose, senza cercare la visibilità della relazione. Noi siamo in questo contesto. Nei secoli XIV e XV anche l’aspetto canonico della Chiesa era così malato che ciascuno cercava di vivere la propria vita e, semmai, di aiutare i fratelli nel bisogno, ma senza istituzioni forti e ricche di mezzi…
Comunque, Gesù, qui, è innanzitutto un “amico”, là dove, per S. Bernardo ad esempio, il Verbo è “lo Sposo dell’anima”, e dove nei secoli XVI e XVII il Figlio di Dio torna ad essere “lo Sposo”.
Riprendiamo la lettura del nostro testo: “Senza un amico non puoi vivere pienamente”; constatazione di questo secolo, culto dell’amicizia. Ma l’Amico tra gli amici sarà Gesù.
“E’ da stolto, dunque, quello che fai, ponendo la tua fiducia e la tua gioia in altri che in Gesù. E’ preferibile aver il mondo intero contro di te che avere Gesù disgustato di te. Sicché, tra tutte le persone care, caro, per sé, sia solo Gesù” (in latino: “sit Iesus dilectus specialis”); “dilectus” fa riferimento al vocabolario amoroso. Gesù soltanto può essere l’amico del cuore. Questo non nega o abolisce le altre amicizie, ma esse sono “amicizie” soltanto in quanto somiglianti all’unica amicizia vera, quella con Gesù, e in qualche modo ne dipendono, e in qualche modo vi contribuiscono.
Nella Filotea, S. Francesco di Sales ha bellissime pagine sull’amicizia; e lui dice: “L’unica amicizia che vale è quella che, esplicitamente, mira ad aiutarci vicendevolmente ad amare Cristo. Altrimenti non merita il bel nome di amicizia”.
Sicché, tra tutti i tuoi amici, l’unico amico che merita tale nome è Gesù, e gli altri son tali solo se hanno a che vedere con la tua amicizia con Cristo. “Sit Iesus solus dilectus specialis”. Espressione che indica la scelta del cuore. Vedete che, la vita cristiana, in questo contesto, è di una chiarezza totale. Mi stupisco sempre nel vedere che tanti non sono capaci di riassumere in meno di 50 pagine quel che significa per loro essere cristiani. Ai bambini del catechismo basta dire che “essere cristiano è essere amico di Gesù”. Tutto lì! Questa è la semplicità dell’Imitazione. Sia solo Gesù il tuo amico speciale. Questo mette ordine in tutta la tua vita di relazioni: “amate tutti gli altri per Gesù, e Gesù per se stesso”.
I Santi, in questo, sono stati interpretati in maniera negativa dai loro contemporanei. Non è proprio possibile che una amicizia vera con Cristo ti metta in concorrenza con tua moglie o con tuo marito se sei sposato, o con le relazioni interpersonali… perché Gesù è fonte d’amore. Non è che “per amore di Gesù” si amano gli altri, ma è nello sguardo del tuo cuore fisso su Gesù che fisserai in maniera giusta lo sguardo su di te e sui tuoi fratelli. Allora non li disprezzerai più, perché, con grande evidenza, vedrai che Gesù “è Gesù” in loro, è “Gesù” nel tuo sposo, nella tua sposa, nei tuoi figli, e, nello stesso atto che ti rende felice tu ti scopri amico di Gesù, amico dei tuoi fratelli e amico di te stesso. Dice appunto l’Imitazione:
“Tutti gli altri si devono amare a causa di Lui; Lui, invece, per se stesso. Gesù Cristo, il solo che troviamo buono e fedele più di ogni altro amico, Lui solo dobbiamo amare, di amore particolare. Per Lui e in Lui ti saranno cari sia gli amici che i nemici; e lo pregherai per gli uni e per gli altri, affinché tutti lo conoscano e lo amino”. (II,8,3). Al capoverso una sentenza dal sapore un po’ morale ma che, di fatto, è profondamente spirituale:
“Non desiderare di essere apprezzato od amato per te stesso, poiché questo spetta soltanto a Dio, che non ha alcuno che gli somigli. Non volere che uno si lasci prendere, nel suo cuore, tutto da te, né lasciarti tutto prendere tu dall’amore di chicchessia. Gesù soltanto deve essere in te, come in ognuno che ami il bene”.
Qui, l’originale latino non dice “come in ognuno che ami il bene”, ma “come ogni uomo buono”. Ci sono delle espressioni in Tommaso da Kempis, che egli riceve dalla tradizione renano-fiamminga precedente. In questa tradizione si incontra spesso l’ “uomo buono”, come anche l’ “uomo nobile”. Sono termini specifici, tecnici, usati da Eckhart, Tauler, Suso, Ruusbroec. L’ “uomo buono” è colui che ha messo “ordine” nella sua vita, mentre l’ “uomo nobile” è colui che è “maturo nella sua relazione (unione) con Dio”. E queste espressioni vogliono dire che un uomo ha messo ordine in sé, quando Gesù ha in lui il primo posto e la sua dimora. E’ come se Tommaso da Kempis dicesse: bisogna che Gesù sia in te… e allora sarai un uomo buono. Non c’è alcun riferimento al “dover fare qualcosa” nel latino; piuttosto si constata la realtà delle cose, mai valutata “moralmente”. Ancora una volta l’insegnamento è su “come vivere bene”, non su “cosa bisogna fare”. L’Imitazione di Cristo è un “arte di vivere”. Il fine didattico di questa sentenza, comunque, è il “non desiderare d’essere amato”. Questo ci impone un serio esame di coscienza. Certo, il termine latino “cupias”, non è tanto un “desiderare”, quanto un “bramare”. Come dire: non bisogna desiderare tanto ardentemente di essere amati. Il tuo equilibrio non può dipendere dai sentimenti degli altri verso di te. Naturalmente, è umano, normale, compiacersi di essere apprezzati, ma non bisogna eccedere. E dietro questa piccola correzione c’è tutto il senso della “giusta misura”, che attraversa l’intera Imitazione di Cristo.
Il “voler essere amato per se stesso” non esiste proprio nell’originale. Dobbiamo piuttosto far attenzione a non “bramare” di essere lodati ed amati “singolarmente” (singulariter), perché la priorità spetta a Dio, e conviene a Lui solo di “scegliere”. Quando qualcuno mi dice che vuole sposarsi, in genere gli suggerisco di andare in Cappella a pregare; perché? Perché Dio solo può dirti se quella ragazza Lui l’abbia scelta per dartela in moglie… Dice la Genesi che Dio condusse Eva da Adamo… e, da allora, è sempre così che avviene. Se lei (la fidanzata) è solo una tua scelta (singulariter) allora non sarai felice. Perché, quando sarai disgustato di questa ragazza, e ti capiterà come accade a tanti, tu dirai: “E’ finita una relazione”. Ma il matrimonio cristiano è una “relazione spirituale” e “indissolubile” perché “data, voluta, da Dio”. E dunque, sia ben chiaro, che “spetta solo a Dio fare certe scelte”, e tu le ricevi quali sono, cioè come “scelte di Dio”. Allora non ci sarà concorrenza… e “amare tua moglie”, “amare tuo marito”, sarà la stessa cosa che amare Dio. Dunque: hoc solus Dei est (=questo spetta solo a Dio) dice l’Imitazione. E’ Lui che ci suggerirà chi amare e come amare.
Andiamo avanti con la lettura del libro. Qui c’è uno sbaglio di traduzione enorme nel Libro III,21,1:
“Oh! Anima mia, in ogni cosa, e al di sopra di ogni cosa, troverai riposo, sempre, nel Signore, perché Lui stesso costituisce la pace dei santi, in eterno.” Prendiamo ora l’originale: “Super omnia requiesces, anima mea, in Domino semper, quia ipse est sanctorum aeterna requies.”
Tradurre: “Perché Lui stesso costituisce la pace dei santi in eterno” è proprio impreciso, perché “ipse” (Lui stesso), è senza verbo, perché c’è una identità tra “Gesù” e “la pace”. Gesù “non dà la pace”, “è la pace” (come dice la Lettera agli Ebrei), e questo è “troppo importante”, perché Gesù è in noi prima di essere di fronte a noi. Questo è un concetto preso da Ruusbroec: Dio (Gesù) è “noi stessi” prima di essere il nostro possedimento. Tanto per dire che la nostra “unione con Dio” non è una “ri-unione”, ma un “accorgersi” che Lui era già in me senza che io lo sapessi. Egli non è soltanto “in me”, ma è la mia identità profonda. Ciò vuol dire che “il riposo in Dio” è l’equilibrio basilare, fondamentale, dell’uomo.
Mi fermo qui, anche se ho potuto sviluppare pochissimo le riflessioni sui testi che avete a disposizione.
Li leggerete, li “masticherete” durante la giornata, durante la preghiera. Quando li avrete digeriti, questi testi si fonderanno in voi e diventeranno vita.
Ma noterete che le traduzioni, in italiano, come in francese e in inglese, spesso non rispettano le assonanze, i sensi, che Tommaso da Kempis dette alla sua grande Opera.