3.4 Tratti essenziali della mistica occidentale

Le testimonianze mistiche delle altre Religioni sono sempre più vicine e a portata di mano. Per una Teologia elaborata della mistica occidentale antica e moderna possiamo suggerire, senza troppo pericolo d’inganno, tutte le opere della maturità di Hans Urs von Balthasar, che ne sono un ottimo saggio, continuo e perseverante, ma questo non è il luogo adatto per riassumerle. Padre Henri de Lubac invece ha abbozzato in maniera magistrale e breve il problema di una Teologia “sui generis”, in relazione con le altre mistiche nella Prefazione al grande libro “La mystique et les mystiques”. De Lubac vi affronta il problema della “mitologia comparata”, della scristianizzazione del nostro Occidente, l’invasione della spiritualità orientale o pseudo-orientale, l’incontro tra le Religioni, che appaiono come realtà concrete e che l’uomo d’oggi sente chiamate ad un largo confronto. Così l’Occidente stesso apre un magnifico varco alla “disputatio”: da un lato l’armata dei cercatori d’uguaglianza, sullo stile di Simone Weil, la quale afferma che “i mistici di tutte le tradizioni religiose si riuniscono per la loro comune identità”, dall’altra la falange della dottrina sicura, a compartimenti stagni, sullo stile di Dom Anselm Stolz: “al di fuori della Chiesa, niente mistici”.

Ma già sette secoli fa, nel suo primo trattato (Il Regno degli amanti), Ruusbroec ammetteva volentieri la realtà di una “mistica naturale”, religiosa ella stessa. La creazione è stata colmata d’amore e la relazione tra Dio e la creatura spirituale può essere vista come “esperienza mistica”. C’è chi la chiama “la via naturale della contemplazione”. In un cammino di interiorizzazione, “l’uomo s’eleva fino a raggiungere nella sua semplicità (intesa in senso spirituale e non morale) il fondo essenziale dell’anima, la quale porta in sé l’immagine di Dio e costituisce un Regno naturale di Dio”. (In “Il Regno degli amanti” Werken I, Tielt, 1944, p.12) E ancora: “La sommità della via naturale è l’essenza dell’anima, che è sospesa in Dio e che si tiene immobile, più in alto del più alto cielo, più in profondità degli abissi marini, in una vastità superiore a quella dell’intero universo con tutti i suoi elementi, poiché la natura spirituale trascende tutte le nature corporali. Ella costituisce un regno naturale di Dio e il termine di tutta l’attività dell’anima. E nessuna creatura può agire sull’essenza dell’anima, eccetto Dio e Dio solo, che è l’essenza delle essenze, la vita di tutto ciò che vive, il principio e il sostegno di tutte le creature”. “Tale è la via della luce naturale, dove si può progredire nelle virtù naturali e nella libertà dello spirito; è per questa ragione che essa è detta naturale, perché si può procedere senza un impulso dello Spirito Santo e senza doni divini soprannaturali; ma è raro che si arrivi al termine ultimo in modo così eccellente senza la grazia di Dio”.

Precursore su questo punto di Pico della Mirandola, che si sentì ingiustamente affibbiare l’etichetta di “sincretista”, e di Padre de Lubac, il Dottore Ammirabile ammette dunque, nel trattato dell’anno 1320: 1) la possibilità di una mistica religiosa naturale; 2) la probabilità di un’azione soprannaturale nei casi pienamente “riusciti” e, di conseguenza, la loro appartenenza alla Chiesa invisibile.

L’esperienza mistica, come ogni “esperienza” non è altro che la somma di “sentimento” e “conoscenza”. Bisogna far attenzione però a non abusare del termine “esperienza”; si rischia continuamente di farne un sinonimo di “esperimento di laboratorio”, magari imitando la la Fisica o la Biologia. L’espressione contenuta nella nostra definizione, “sentimento della presenza di Dio”, va presa nel senso che P. J. Maréchal gli dà nel suo “Etudes sur la psicologie des Mystiques”, ma nella maggior parte dei casi, i lettori dei mistici, abituati ad inserire i termini nel quadro d’un sistema filosofico-psicologico generale, tendono a distinguere nettamente “sentimento” e “conoscenza” e si pensa che il primo termine appartenga all’attività della volontà e l’altro a quella dell’intelletto. Ebbene, i mistici non sottoscriverebbero mai questa apparente contrapposizione, infatti una delle loro prime scoperte interiori è che nell’esperienza mistica le due facoltà cessano di esercitare ciascuna la propria funzione per “rifluire” verso quel “fondo”, quella fonte comune, e non si manifestano che come un unico dinamismo. Jean Gerson definisce la Mistica “cognitio experimentalis Dei”, quindi, a differenza di Maréchal, sottolinea la presenza attiva dell’altra facoltà, conoscitiva, come a darle un ruolo preponderante nell’esperienza d’unione mistica. Gerson ha sempre diffidato dei mistici che evadono nel puro sentimento, se non negli ultimi anni della sua vita, quando arriva a riformulare i propri concetti e a comprendere quel che abbiamo appena detto. Il Cancelliere di Parigi fu troppo umanista per ammettere che Dio possa attirare gli uomini a sé solo dopo l’amputazione della loro più alta facoltà. Il segreto della mistica è racchiuso nella felice formula di Gregorio Magno, “amor ipse notitia est” (in Omelie sui Vangeli II, XXVII), ripresa dai medievali con “amor ipse intellectus est”. Non esiste dunque una mistica “speculativa” e una mistica “affettiva”, “sponsale”. Son tutte letture deformanti, che hanno suscitato molteplici equivoci e sospetti; in realtà la Mistica non è mai stata studiata “con rispetto”, quindi non è mai stata ben compresa. Essa non si assoggetta né a sistemi teologici, né a sistemi filosofici o psicologici. Questo carattere nuovo della relazione uomo Dio va al di là di tutte le filosofie delle essenze (della trascendenza e dell’immanenza). La Mistica non ricalca la struttura redazionale classica d’un certo “alpinismo spirituale” che non ha mai finito di scalare le vette o della goccia d’acqua che cade e scompare nell’oceano. Teresa d’Avila apre la strada a tutto uno sviluppo successivo riguardante quell’intimità “personale” in cui lo Sposo divino si degna di introdurre l’anima nelle camere più interne e segrete del Suo palazzo interiore. La contemplazione è sempre infusa, e l’ “acquisita” non si insegna. Questo carattere d’ “invasione” porta con sé l’impossibilità di attribuirsi il minimo approccio o preparazione a questa esperienza che l’anima non può che ricevere passivamente, perché essa non ha alcun denominatore comune con sforzi, conquiste, scoperte dell’ascetica abituale. Tutto si manifesta nel più profondo dell’essere ed è nettamente percepito come “proveniente da un Altro”, noterà con stupore e precisione Dag Hammarskjöld nel suo diario del 1953, nell’ora della sua prima esperienza mistica. Egli ignorava in quel momento di riprendere una dottrina già stabilita dai mistici come norma fondamentale di tutta la contemplazione, come uno dei segni indispensabili della sua autenticità. Nel suo trattato classico sulla vita mistica “Le nozze spirituali”, Ruusbroec impiega, come filo redazionale, la frase della parabola evangelica “Guardate, viene lo Sposo. Uscite, andategli incontro”. L’anima è una vergine saggia, che ha fatto tutto ciò che è in suo potere per servire il Cristo. Nella sua devozione vorrà vedere Colui che ha fedelmente servito, ma ben presto si renderà conto di non poterne essere mai e poi mai capace, perché non le è possibile né “acquisire” né “meritare” il dono della contemplazione; ugualmente, se dovesse immaginare d’essere chiamata alla vita contemplativa, non le resterebbe che attenderla umilmente, disponendosi a riceverla.

Dice Ruusbroec:
“Quest’uomo si sforzerà di ordinare tutta la sua vita e tutte le sue opere a lode e gloria di Dio, perseguendo Dio nell’intenzione (= “meyninghe”, termine medionerlandese intraducibile in italiano e ricco di molteplici richiami; implica infatti un “orientamento interiore dell’animo”, una “tensione spirituale verso un fine” e al tempo stesso una “sospensione in Dio”= “hanghen”) e nell’amore (=“minne”, termine molto usato nella letteratura mistica medievale. Attinge all’ “amor cortese” e indica l’ “amore nobile”. In Ruusbroec acquista una connotazione più precisa, più realistica: indica “amore unitivo”, “sponsale”), al di sopra di tutte le cose create, e sarà sovente sopraffatto dal desiderio (=“begeerte”, che è desiderio veemente, incontenibile, confinante con la struggente nostalgia. Il termine è pronunciato vigorosamente in medionerlandese. Non ha il suono languido delle lingue neolatine, come il francese “désir”) di vedere, di conoscere com’è questo Sposo: Cristo, che s’è fatto uomo per amore suo e ha sopportato tutte le pene con amore, fino a morire… Egli allora viene sopraffatto dal desiderio di vedere e conoscere Cristo, lo Sposo, quale Egli è in se stesso, poiché non gli basta più conoscerlo attraverso le sue opere”.
Termina qui la prima parte delle “Nozze spirituali”, dedicata alla “vita attiva”. “La seconda vita” (“Dat ander leven”), la vita “interiore” o “desiderosa di Dio” – dice Ruusbroec – comincia quando “Cristo, lo Sposo, si fa attendere con i suoi doni e con il suo influsso di grazia; allora l’anima diventa sonnolenta, quasi addormentata, e indolente. Ma nel mezzo della notte, quando meno ci si pensa e ci si aspetta, un grido spirituale è prodotto nell’anima: “Guardate, viene lo sposo. Uscite, andategli incontro”.”

Questa invasione è percepita “direttamente” e non in maniera “mediata”; essa rende l’uomo “passivo”, perché questa esperienza non può essere in alcun modo da lui concepita, né egli può in alcun modo appropriarsene o dominarla. Essa fluisce, a parer dei mistici. Questi ultimi lasceranno perdere le belle discussioni e le controversie sulla “contemplazione acquisita”, che spesso mancano persino dell’oggetto di studio. I teologi, dal canto loro, continueranno a disputare tranquillamente fino alla fine dei tempi sui loro ragionamenti teologici; ma, al di là dei problemi accademici, i mistici hanno tirato la conclusione, molto concreta, che il discorso sulla contemplazione non può essere veramente, adeguatamente, compreso se non dai contemplativi stessi e, conseguentemente, è impossibile stare ad insegnare che cos’è la contemplazione agli altri.

Questa esperienza, comunque, può essere ben qualificata come “diretta” e “passiva”. Questi due elementi sono simultaneamente presenti e complementari; da essi procedono altre due proprietà che sembrano così universalmente presenti nella storia della mistica cristiana che è possibile farli entrare, come le note precedenti, nella natura stessa dell’esperienza, piuttosto che catalogarli tra i suoi aspetti consecutivi o secondari. Del primo si trova la descrizione più chiara e sviluppata nei “Poemi in strofe” di Hadewijch e nella “Notte oscura di S. Giovanni della Croce, presente nella notte dei sensi e in quella dello spirito: allorquando Dio è presente, l’uomo è sicuro che mai ne potrà perdere o dimenticare l’evidenza, ma quando Dio ritira l’esperienza della sua presenza, l’uomo è incapace di ricordarsene veramente e l’immagazzina in concetti ed immagini negli archivi della memoria, e le sue esperienze religiose diventano “oggetto”, come tutte le altre esperienze. Ma l’esperienza mistica della presenza di Dio non è mai oggetto. L’uomo ne è preso, afferrato, e non può afferrarla; perciò, in questo senso, egli non potrà mai possederla. Sicurissimi delle descrizioni del “matrimonio spirituale” o “unione trasformante”, o “superessenziale”, i mistici raccontano con meraviglia come Dio si sia liberato da essi come loro possesso, come loro dominio. Ma quando essi lo hanno posseduto, lo hanno fatto solo nella pura “recezione” (= “in den ontfane”), nell’atto di ricevere (= in ghedoghene begripend) come ripete Ruusbroec: “Passivamente noi lo comprendiamo, al di sopra delle nostre operazioni, là dove Egli agisce noi lo riceviamo. Là noi lo possediamo e lo riceviamo, al di sopra di ogni nostra operazione. E così possediamo Dio in maniera incomprensibile, nel riceverlo, nel non possederlo.” (“Vanden XII Beghinen, Werken IV, Tielt 1948, p.31)

La seconda proprietà dell’esperienza in questione è intimamente legata al carattere diretto e passivo di essa, ed è la sua “non comunicabilità”. Purtroppo il contemplativo non può partecipare nulla di questa unione. Dice Giovanni della Croce nella “Llama de amor viva”: “Dilo al mundo. Ma no lo digas al mundo, porque no sabe de aire delgado el mundo, y no te sentirà, porque no te puede recibir ni te puede ver, oh Dios mio y vida mia!”. Guglielmo di Saint Thiarry, a quanti desiderano curiosare sui rapporti di intima unione dell’anima con lo Sposo divino riserva le ultime parole del suo capolavoro “La lettera d’oro”: “Secretum meum mihi, secretum meum mihi”.
Da ogni parte, negli studi sulla mistica, si parlerà anche esattamente di “presenza divina”, ma nella testimonianza dei mistici cristiani si riscontrerà una insistenza molto più chiara sulla “presenza di Dio”, piuttosto che sulla “presenza divina”. Non che i mistici cristiani ignorino l’esperienza della “goccia d’acqua che si perde nell’oceano”, anzi, la cantano con i mistici delle altre religioni. Ma la loro esperienza “adulta” non s’arresta a questo “incontro d’essenze”, a questa “fusione di esseri”. Ben al di là, essi conoscono le gioie e le estasi di una scoperta: l’immanenza di un Altro, che al tempo stesso rimane pur sempre trascendente e tuttavia “personale” ed esigente. Uno che incita l’uomo ad un gioco d’amore tra eguali, un duello di reciprocità nel quale l’uomo assaporerà sempre il “fallimento”. Questo Dio è nascosto sotto tutti i nomi divini, ma allo stesso tempo non ha che un unico nome, personalissimo, quello delle Persone trinitarie. Egli ci chiama col nostro nome, che è la grandezza e la capacità infinita dell’anima; Egli è già in noi come pienezza dell’Essere, soprannaturalmente, e ci ammette ad una intimità personale con sé, pur presentandosi come “Altro”. Da qui l’esclamazione di Pascal, quando redige il ricordo della grande esperienza mistica del 23 novembre 1654. Dio non è il Dio dei filosofi (Pascal intendeva dire “teologi”), cioè l’Essere supremo ecc. Egli è sì tutto ciò, ma non si è manifestato così nella meravigliosa illuminazione prodotta dalla sua visita:

“Feu.

Dieu d’Abrham, Dieu d’Isaac, Dieu de Jacob
Non des philosophes et des savants.
Certitude. Certitude. Sentiment. Joie. Paix.
Dieu de Jésus-Christ.
Deum meum et Deum vestrum.
“Ton Dieu sera mon Dieu”.
Cette est la vie éternelle, qu’ils te connaissent
Seul vrai Dieu, et celui que tu as envoyé, Jésus-Christ.”

La fioritura, la dilatazione della coscienza, la beata immersione nell’Essere infinito, è cantata dai mistici di tutte le religioni; è un’immersione che, per quanto grande possa essere, non comprende mai “la totalità”. Per il mistico cristiano l’intrusione dell’Altro in quanto Altro, nel più profondo dell’unione amorosa, resta sempre una “indiscreta quaedam commixtio”, come la chiama audacemente San Bernardo (Sermo II super Cantica), ma essa basta all’uomo, al punto di fargli rifiutare le percezioni d’unione amorosa. Bernardo aggiunge: “Io rifiuto le visioni… Le specie angeliche, persino esse mi disgustano”. Solo un mistico che conosce l’esperienza dell’unione personale può parlare così. Gli specialisti della Mistica cristiana sottolineano la caratteristica trinitaria di questo incontro con il Dio personale nell’esperienza mistica giunta alla sua pienezza.. Questa affermazione è esatta, ma ciò non vuol dire che essa sia ovvia nella lettura delle testimonianze. Se in Origene il Verbo incarnato è “Sposo dell’anima”, in Gregorio di Nissa il Cristo è “mistagogo”; in Ruusbroec “Cristo Sposo, nostro sole”, riconduce l’uomo nello Spirito Santo, fin nel seno del Padre, da cui l’uomo era uscito in quanto creazione d’amore fatta a immagine del Figlio, in cui tutto è creato. In altri, come Meister Eckhart e S. Giovanni della Croce, il carattere cristocentrico-trinitario dell’esperienza diretta è descritta in lunghi passi, che necessitano di una lettura attenta e non frammentaria. Nel memoriale pascaliano si dovrà rimarcare questo carattere trinitario dell’incontro. Certo, si ignora la “storia” mistica di Pascal precedente la notte del 23 novembre 1654, ma certo questa esperienza gli ha fatto rileggere i “Pensieri” nel tentativo di fondere una teologia razionale con un’esperienza profondissima. Questo sforzo assai geniale fu destinato a fallire. Quando Guglielmo di Saint Thierry afferma che il cielo, dove la Trinità vive la sua vita beata, è la nostra anima “in quanto Voi dimorate in noi, noi siamo il vostro cielo, in tutta verità” (Meditativae orationes, t.6, Bruxelles, 1945, p.150) egli non fa che riprendere la lunga tradizione patristica della spiritualità trinitaria, alla quale Hugo Rahner ha consacrato uno dei suoi studi più belli, “Die Gottesgeburt. Die Lehre der Kirchenväter von der Geburt Christi im Herzen der Gläubigen”. In questa presenza personale di Dio nell’unione amorosa non v’è alcun presupposto esoterico. Risulterà evidente che gli “epifenomeni mistici”: visioni, rivelazioni, parole interiori ecc. occuperanno molto spazio nei resoconti scritti nei quali i mistici sono obbligati a dilungarsi, magari per dare resoconti dettagliati a chi esige da loro “traduzioni” in termini psico-somatici, ma l’unione amorosa con lo Sposo divino è detta in due righe.

I mistici cristiani insistono sul fatto che ciò che “scoprono”, direttamente e passivamente, non è altro che quel che possiedono tutti i fedeli, tutti coloro che, divenuti membra di Cristo per il Battesimo, partecipano alla vita divina e sono la dimora della Trinità. La mistica dunque consiste nel vivere una esperienza speciale che corrisponde con ciò che confessano tutti i cristiani e che possiedono tutti i fedeli, ma che resta loro nascosto, spesso per tutta la vita.

La mistica non coincide con la vocazione universale alla santità, ma ne è il presupposto assoluto. Dunque la vita è vita vera solo in quanto il suo fondamento ultimo è la mistica. Senza questa unità essenziale con Dio noi semplicemente “non saremmo”, perché Dio è la vita della nostra vita, l’origine e il fine del nostro essere, la causa della nostra gioia, la misura della nostra grandezza e della nostra dignità. Solo per questo motivo ha senso che noi celebriamo le nostre liturgie, solo per questo noi cresciamo nella conoscenza, nella sapienza, solo per questo noi amiamo la virtù e siamo capaci di autentica carità. “Ogni forma di religiosità che non coinvolge l’interiorità – dice Erasmo da Rotterdam – è pura superstizione”.