3.10 Il tema del ‘Matrimonio spirituale’ nella spiritualità occidentale

Volendo affrontare un argomento specifico del vasto panorama teologico su cui in genere poco si riflette, lasciando da parte i dettagli ci soffermeremo sul tema in sé, uno tra i maggiori della Spiritualità cristiana, almeno dopo Santa Teresa d’Avila.

Le “nozze spirituali”, nella Tradizione occidentale, esprimono

  1. il pieno compimento della grazia battesimale;
  2. lo sviluppo della vita cristiana adulta, come l’intende Santa Teresa, cioè come sviluppo completo della grazia gratis data, la quale porta al matrimonio spirituale con Dio (San Francesco di Sales la definisce una grazia difficile da descrivere, da definire).

Comunque, chiunque voglia affrontare l’argomento in questione non può accantonare gli scritti di Santa Teresa che costituiscono un punto di riferimento imprescindibile. I testi da considerare sono innumerevoli, ma particolarmente interessanti sono le descrizioni del matrimonio spirituale proposte da Guglielmo di St. Thierry, Bernardo, Margherita Porete, Eckhart, Ruusbroec, Giovanni della Croce, Marie de l’Incarnation (Orsolina missionaria nel Quebec), Surin e tanti altri autori mistici, più o meno conosciuti.

Volendo procedere per ordine cronologico, non possiamo tralasciare i riferimenti biblici sul matrimonio spirituale presenti soprattutto in Osea, là dove si parla del matrimonio tra Dio e Israele, con tutti gli elementi della elezione d’amore, dell’ infedeltà, del perdono, dell’ intimità che troviamo pure in Isaia. L’immagine che ne scaturisce è quella di una “figura letteraria”, di una metafora sponsale che delinea l’unione nuziale in tutti i suoi aspetti; infatti i Padri della Chiesa parleranno del Nuovo Israele volendo intendere la Chiesa, ma – attenzione – nessuno di essi considererà, nell’unione con Dio, oltre alla Chiesa anche l’anima.

Sarà Origene, primo vero teologo spirituale dell’antichità, a fare la distinzione e a considerare anche l’anima e non solo la Chiesa come sposa del Verbo incarnato. Ogni immagine biblica in Origene va a introdurre il Mistero di Cristo, ma nel suo Commento al Cantico dei Cantici (che ci è pervenuto attraverso le traduzioni latine di Rufino di Aquileia, in quanto tutti i testi greci di Origene furono distrutti) egli indica lo Sposo, cioè il Verbo di Dio, in relazione alla sua Sposa, che nell’opera è sia l’anima perfetta sia la Chiesa; così il Padre alessandrino già tocca il tema del matrimonio spirituale.

L’influsso di Origene sulla tradizione dell’Occidente latino passa attraverso le figure di Ambrogio e Agostino che riprenderanno l’interpretazione mistica del Cantico consegnandola all’epoca medievale. Non dimentichiamo che nel Medioevo nessun libro è stato commentato più del Cantico dei Cantici (libro che allora era unanimemente attribuito a Salomone) e il cui contenuto diventa descrizione di un’avventura spirituale, matrimoniale e mistica, tipica dell’amor cortese, la quale mescola amore materiale e amore spirituale, umano e divino in modo inestricabile. L’autorevole medievalista Jean Leclercq afferma che nell’Età di mezzo, in particolare nel dodicesimo secolo, tutto tende alla formazione spirituale dell’individuo, tutto è interpretato in chiave simbolica, anche l’amore umano e l’unione fisica; anche il godimento esprime un valore simbolico. I medievali insomma ragionavano in maniera spirituale, in termini spirituali, cosa che noi, oggi, non siamo più capaci di fare.

Negli innumerevoli commenti al Cantico, Dio dà inizio a una storia d’amore con noi nella fedeltà, intesa come patto cavalleresco, in una cultura dell’amore alto e sublime, il “fin’amor” o “amour soufisante”, che è ricerca dell’amore per l’amore. Caratteristiche che troviamo espresse magnificamente in San Bernardo, nel De diligendo Deo e in Sermones super Cantica Canticorum dove tutto l’apparato dottrinale è infarcito di citazioni bibliche, abbellito di paragoni, che evocano e descrivono situazioni umane, interpretate però spiritualmente per poterne assaporare e comprendere il valore mistico. Anche le allusioni più erotiche diventano immagini innocenti che rimandano a realtà spirituali, a esperienze contemplative. Guglielmo di St. Thierry commenterà prima di Bernardo il Cantico dei Cantici e lo presenterà in maniera addirittura superiore, sempre rispettando i canoni esegetico-spirituali del suo tempo e trasformando il desiderio di un amore umano in desiderio di unione con Dio.

La dottrina dell’amor illuminatus tuttavia viene da più lontano: sarà Gertrude di Nivelles, prima Badessa di quel monastero benedettino (della regione della Wallonia, Belgio), nel VII secolo, a menzionare per la prima volta il matrimonio mistico così come sarà poi concepito ordinariamente in Occidente, cioè intendendolo come punto culminante della vita d’orazione. Tale pensiero, di solito, suole attribuirsi a Bernardo di Chiaravalle, ma erratamente. Con Bernardo invece si comincia a distinguere nel lessico spirituale i termini “dilectio” e “diligere”, che denotano l’amore inteso come elezione, come scelta, dal vocabolo “amor” che significa perfezione nell’amore di Dio; questo amore divino diviene “charitas”, amore effusivo, amore che sovrabbonda di sé e, là dove sgorga, cattura tutte le altre passioni e le assorbe. Per una maggiore comprensione del lessico spirituale della Tradizione antica basterebbe consultare il De Theologia Mystica clavis di Maximilianus Sandaeus (1578 – 1656), primo erudito del tardo Rinascimento ad aver fornito delucidazioni particolareggiate sul linguaggio della Mistica, offrendo circa 862 concetti di termini tecnici usati dagli autori contemplativi del cristianesimo.

Per il periodo medievale sarebbe opportuno approfondire la mentalità feudale e le conseguenze della riforma gregoriana che apporta un equilibrio economico, sociale e familiare volto alla ricerca dell’amore perfetto applicando tale realtà al concetto di vassallaggio, tipico dell’anno mille, dove lo status nobiliare delle famiglie di cavalieri tendeva ad acquisire sempre maggior lustro e le donne, chiamate Dame o Damigelle, condividevano l’accresciuto prestigio di questi milites, nei feudi della Champagne. Dall’XI secolo, inoltre, acquisteranno sempre più valore le relazioni padre-figlio e uomo-donna, mentalità che dominerà fino a tutto il ‘300, secolo di Giovanni Ruusbroec. Tra l’anima e Dio, come tra padre e figlio, come tra moglie e marito, si vive un amor singularis, tutto particolare, di reciprocità, che porta con sé qualcosa di “segreto” (il bacio, l’abbraccio, l’amplesso), atti sempre finalizzati a “bien amer” e alla salvaguardia della reputazione. In questi autori medievali la dottrina sacra si nutre della preghiera, non dello sforzo mentale finalizzato al concepimento di belle idee. La vera Teologia è un entrare nel mistero di Dio mediante lo Spirito Santo; cosa inammissibile nella Teologia razionale, moderna.

Il cammino di perfezione diventa gradualmente una corsa, l’anima moltiplica le sue forze al fine di conoscere sempre meglio lo Sposo divino per arrivare a vederlo “faccia a faccia”. Il matrimonio spirituale infatti è qualcosa di molto simile alla visione di Dio che avremo in paradiso, è un pregustare già la beatitudine eterna non ancora raggiunta. San Giovanni della Croce dirà così.

Sant’Agostino si rammarica di aver cercato Dio fuori di sé mentre l’Assoluto è “dentro di noi” e non “fuori”: Regnum Dei intra vos est (Lc. 17, 21). Santa Chiara d’Assisi indirizza ad Agnese di Boemia, con la sua terza lettera, le seguenti parole “La più degna fra le creature, l’anima dell’uomo fedele, è maggiore del cielo, poiché i cieli con il resto del creato non possono contenere il creatore, mentre solo l’anima fedele è sua dimora e sede, e ciò unicamente in ragione della carità di cui gli empi sono privi, come afferma la Verità stessa: Chi ama me sarà amato da mio Padre, e io lo amerò, e verremo da lui e in lui fisseremo la nostra dimora”.

Dio è più intimo a noi di noi stessi e noi, in quanto “creati a Sua immagine e somiglianza”, per questa eccelsa dignità naturale siamo a Lui “corrispondenti”; nell’opera inglese La nube della non conoscenza (The cloud of unknowing) l’anonimo autore ci dichiara addirittura “uguali”; ciò genera una perfetta reciprocità tra Dio e l’anima, tra lo Sposo e la sposa; Egli, donandoci se stesso, ci dona una gioia piena, perfetta, ci divinizza, comunicandoci la Sua gloria, vale a dire la Sua vita divina. Le metafore nuziali si moltiplicano nelle opere dei grandi mistici medievali, arrivando da un “amor de longh”, un amore lontano, un amore distante, di separazione, che simbolizza la dialettica presenza-assenza, a un amore realistico che si traduce nel possesso dell’Amato, nella consumazione dell’unione con l’amata, nell’appartenenza vicendevole dei due sposi.

Santa Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce tuttavia saranno più moderni e molto più precisi. Nel suo Castello interiore, Teresa descriverà, punto per punto, nella settima morada (mansione, dimora) le caratteristiche del fidanzamento e del matrimonio spirituale (era in uso nella Spagna del XVI secolo far precedere le nozze con un fidanzamento ufficiale). Ella sembra prevenire S. Francesco di Sales nel dire che è più facile sperimentare questa grazia piuttosto che descriverla… perché in questa ultima stanza, la più interna del Castello, Dio si unisce all’anima in maniera del tutto speciale e opera in maniera differente dal consueto.

L’ingresso nel Matrimonio spirituale è caratterizzato da dei tocchi delicatissimi con i quali Dio desta l’anima; ad essi, in genere, si aggiunge una “visione intellettuale” della Santissima Trinità con una certezza e una convinzione assolute. La visione intellettuale è una evidenza della verità del tutto spirituale da parte dell’anima la quale, come dirà Teresa, ormai è libera da ogni genere di paura e procede verso una piena e quieta esperienza di Dio, al di là di tutte le forme eccezionali, esteriori e sensibili delle estasi; cessano i fenomeni psicosomatici, tutte le agitazioni corporee, le grida e i sospiri delle mistiche estatiche (come Santa Maria Maddalena de’ Pazzi). Ciò non vuol dire che queste anime diventino impassibili, tutt’altro. Cresce il loro desiderio di patire, si vantano della croce di Cristo, e al tempo stesso gioiscono di tutto, cantano la creazione… come San Francesco e, in ogni circostanza della vita, lieta o triste, non perdono mai la pace ma si rimettono completamente alla volontà del Padre, nella nudità dell’amore puro che si comunica loro senza modo. Questo termine ultimo della perfezione spirituale è propriamente detto “stato mistico”, tutti i precedenti livelli infatti non sono degli stati ma dei passaggi, delle fasi transitorie finalizzate a questa unione definitiva e perfetta dove tuttavia non è mai possibile fissare un capolinea, come sembra spiegare San Giovanni della Croce nel Prologo alla Fiamma d’amor viva.

Prima di Teresa l’orazione era un esercizio di pietà (vedi S. Ignazio di Loyola), per Santa Teresa essa è relazione d’amore ininterrotta (su questa diversa interpretazione la mistica castigliana si basa per la sua riforma del Carmelo). La Mistica cristiana, risalente a San Paolo, è compresa pienamente solo grazie a Teresa d’Avila; in questo lei è davvero paragonabile all’Apostolo, nella storia del cristianesimo. La missione, di conseguenza, non nasce che dalla contemplazione; il Regno di Dio infatti s’instaura quando si vive la contemplazione, perché solo la contemplazione produce un’azione efficace e incontenibile.

Nel Matrimonio spirituale inoltre si diventa “impeccabili” poiché questo stato d’amore sommo è incompatibile col peccato. Qui l’attaccamento al peccato è impossibile… e non solo il peccato ma anche l’imperfezione è impossibile, in quanto il peccato mortale, il peccato veniale e l’imperfezione sono sempre frutto della nostra volontà personale; pertanto all’apice della vita mistica, essendo noi “uno” con Dio, facciamo sempre la Sua volontà, è Lui ormai a dirigere le nostre azioni, a tenere in mano il timone della nostra barca. La fragilità della natura umana, la nostra debolezza, sono di fatto la conseguenza del peccato, quindi frutto della nostra lontananza da Dio, ma l’unione con il tre volte Santo impedisce la caduta: Si Deus pro nobis, quis contra nos? (Rm. 8,31). Egli ci attrae a sé come una calamita impedendo di volgere lo sguardo ad altro da Lui e a noi stessi. Per questo San Giovanni della Croce suggerisce continuamente di “guardare Gesù”, di fissare Lui. E’ questa l’essenza, il fondo, il segreto della vita nuova vissuta “in Cristo”; è nell’innamoramento che si cede a questa dolce catena che ci fa schiavi dell’Amore, in un vincolo indissolubile, in una profondità abissale.

Il matrimonio spirituale insomma, oltre ad essere coscienza viva di essere uniti all’Amato, è perfetta identificazione con Lui. E’… “unione senza differenze” afferma Ruusbroec.

In proposito, Paolo Giustiniani aggiunge:

“Considerate – dico – come Dio sia vita per essenza e fonte di vita, e come Dio Vita comunichi vita all’anima: e come l’anima umana, ricevendo da Dio questa comunione di vita, viva – se vogliamo grossolanamente dire – di questa vita essenziale, però non in sé ma in Dio. Perché, se da Dio non ricevesse la vita, in se stessa lei non sarebbe. […] Infine, volendo giungere a più eminente sublimità, sollevandosi con le ali dell’amore, con quello stesso amore a lei da Dio comunicato, (l’anima) è compressa, liquefatta e consumata e non vive più, né in sé né in Dio, perché ormai né in se stessa né in Dio ama; né ancora vive “Dio in lei”, in quanto lei, in Dio per amore trasformata e consumata, non è cosa diversa da Dio, bensì ormai è uno spirito con Dio. Pertanto non si può dire che viva in sé, né in Dio, né Dio in lei; in quanto essa non ama più se stessa, né in sé né in Dio, né ama Dio in se stessa, ma solo ama Dio in Dio. E per veemenza d’amore non è più né in sé né in Dio, né ama Dio in lei. Ormai l’anima non è altro che Dio.
[…] E chi già non mi intende non mi legga, che io a me stesso scrivo e, per grazia di Dio, ora me stesso intendo.”
(Dal Secretum meum mihi, del Beato Paolo Giustiniani)

Ecco perché il matrimonio spirituale è detto anche unione trasformante, perché ci trasforma, ci divinizza e ci inserisce nelle relazioni trinitarie. D’altronde la seconda Persona della SS. Trinità, la Persona del Verbo, o Figlio Unigenito, ha assunto la nostra natura umana, si è fatto uomo perché l’essere umano diventasse Dio. Direbbe Eckhart: noi siamo figli nel Figlio, e siamo lo stesso Figlio; perciò è in noi che il Padre genera il Figlio e da noi – aggiunge Ruusbroec – in relazione al Padre, spira lo Spirito Santo.

Così, in questa “propensione verso Dio” (Gregorio di Nazianzo, Discorso 38, 11) siamo deificati e amiamo Dio dello stesso Amore con cui Dio si ama, vale a dire attraverso lo Spirito Santo che produce in noi la comunione con tutti, tanto da far asserire a Basilio che le anime, le quali portano lo Spirito, illuminate dallo Spirito, diventano spirituali e diffondono a loro volta la grazia divina su altri (S. Basilio, Sullo Spirito Santo, 9) e, nello Spirito Santo ci si trova assimilati, uniti, al Padre e al Figlio nella Deità, o Unità indivisibile delle Tre persone. In questa iniziazione segreta alla contemplazione eterna, l’uomo, pur rimanendo uomo, diviene – come dice San Giovanni della Croce – el Dios de Dios.