6.1 La vita di Santa Teresa d’Avila

Dovendo sintetizzare al massimo il percorso esistenziale di questa grande donna castigliana darò di lei pochi cenni biografici, rimandando, per l’approfondimento, alla migliore biografia moderna, quella nata dal talento letterario di Marcelle Auclair intitolata “La vie de sainte Thérèse d’Avila“.
Sarà facile suddividere l’intero arco della vita di Teresa d’Avila (1515-1582) in tre periodi:

1° – Il primo periodo è quello che precede il suo ingresso in monastero. Dopo un’adolescenza ricca di promesse, ma spiritualmente mediocre, Teresa capì di aver trascorso un lungo lasso di tempo in frivolezze, dietro gli ideali cavallereschi di allora, che avevano entusiasmato, prima di lei, anche un altro spagnolo, Iñigo de Loyola. All’età di diciotto anni cominciò a riflettere sulla sua vocazione, comprendendo di essere ormai giunta a un bivio e di dover scegliere o la vita matrimoniale o la vita claustrale. Opta per la perfezione religiosa.
2° – Il secondo periodo ha inizio con il suo ingresso nel monastero Carmelitano dell’Incarnazione. Dopo la lettura delle “Lettere di S. Girolamo“, Teresa, nel 1536, all’età di ventuno anni, decide di farsi monaca. In convento comincia ad essere favorita di alcune elevate grazie d’orazione, ma la tiepidezza spirituale dell’ambiente religioso, la debilitazione fisica e alcune malattie le provocarono, per circa vent’anni, una assoluta aridità, distrazioni, pene e combattimenti spirituali. Solo nel 1554 sperimenta la cosiddetta sua “seconda conversione” e riprende a sentire la “presencia de Dios”. Aveva quarant’anni. Il Signore comincia ad accordarle numerosissime grazie d’orazione, che la accompagneranno per tutta la vita: grazie d’unione, epifenomeni mistici, fenomeni corporei miracolosi, rapimenti, fino al “matrimonio spirituale”.
3° – Nel terzo ed ultimo periodo della vita la Santa attua la riforma carmelitana femminile, costituendo, nel 1562, la prima comunità di Carmelitane “Scalze” e avviando nel 1568 quella maschile, insieme al più prezioso dei collaboratori: San Giovanni della Croce.

Dopo pochi anni dalla separazione dall’antico tronco delle “Calzate” la riforma di Teresa contava numerosi monasteri, centinaia di monache e altrettante fondazioni maschili con un numero addirittura superiore di frati. Teresa percorre le regioni e le strade della Spagna in lungo e in largo; richiesta in ogni sorta di situazioni: matrimoni, vendite, acquisti, litigi,… In mezzo a calunnie, derisioni, equivoci, amarezze, dà compimento a quella riforma che sarà definita “teresiana”.

Il suo cammino spirituale è ormai una corsa vittoriosa, che termina nel 1582, il 4 ottobre, giorno della sua nascita al cielo (il giorno successivo, per la riforma del calendario operata da Gregorio XIII divienta il 15 ottobre, giorno in cui si celebra, liturgicamente, la memoria della Santa). Teresa muore nel convento di Alba de Tormes, all’età di 67 anni, dopo una attività irresistibile seguita all’”unione trasformante”, al “matrimonio spirituale”, grado supremo della contemplazione, che unisce e assimila talmente la sposa allo Sposo, a Cristo, da farne una “corredentrice”, una creatura capace di operare con il Creatore per la trasfigurazione del mondo, distribuendo, come precisa opportunamente Ruusbroec, i tesori e la gloria di Dio.

STRUTTURA DEL LIBRO

I primi 5 capitoli esprimono l’intento fondamentale della Santa e narrano alcuni fatti salienti della sua vita.
Il cap.6 può considerarsi dedicato a San Giuseppe e alla devozione a lui rivolta. Su 18 case che Teresa fonderà ben 12 le intitolerà a San Giuseppe.
Nei capitoli 7,8,9 e 10 Teresa dà consigli preziosi a coloro che, progressivamente si danno all’orazione. Ella dà ampia licenza a coloro che riceveranno lo scritto redatto fino al punto 10,7 di divulgarlo come crederanno opportuno, ma intende impedire la divulgazione di quanto seguirà. Non vuole che i confessori mostrino lo scritto successivo al paragrafo 8 dello stesso capitolo. Perciò ella afferma che non metterà il suo nome né quello di alcun altro e nello scrivere farà del tutto per non essere riconosciuta. Al medesimo paragrafo 8 si rivolge al destinatario con l’appellativo vuestra merced (vostra grazia) e lo prega di tenere per sé le grandi grazie che Dio le ha fatto nell’orazione.
Dal cap.11 accenna a dei metodi d’orazione. Per spiegarli usa delle similitudini e li fa corrispondere a quattro diversi modi di irrigare il giardino dell’anima. A questo punto il testo assume l’aspetto di un trattato sull’orazione, fondato principalmente sulla sua personale esperienza.
Al cap.23 darà inizio alle famose descrizioni delle grandi grazie mistiche accordatele dal Signore, interrotte qua e là dalle sue consuete digressioni attinenti a fatti ed esperienze di vita, a sguardi retrospettivi. Proprio al cap. 23 Teresa dirà che questa ultima parte dell’opera è “un libro nuovo” (Es otro libro nuevo de aquì adelante). A questo punto infatti la sua vita è divenuta una “vita nuova”, la vita di Dio in lei.

 

GENERI LETTERARI

Il genere letterario dei capitoli 1-10. 23-24 può definirsi “Memorie”; quello dei capitoli 11-22. 25-26 è invece “Didattico”. Dal capitolo 27 al capitolo 40 diventa più difficile separare le narrazioni, che spesso Teresa interseca con grande maestria, facendole procedere di pari passo in un’unica composizione letteraria.

LE VICENDE DEL LIBRO DELLA “VITA”

(Dalla registrazione di alcune lezioni tenute all’Istituto di Teologia)

Il “Libro della vita“, secondo il parere di alcuni critici, tra cui il più lontano editore spagnolo (P. Silverio), è da considerarsi il capolavoro di Santa Teresa; un punto di vista che, insieme ad altri studiosi, non mi sento di condividere. Questo scritto infatti non raggiunge il livello letterario e dottrinale del “Castello interiore“; l’altra opera che, anche solo per la sua semplice bellezza, è da ritenersi più elevata e più completa.

Comunque l’autobiografia della Santa è un testo di primaria importanza nella storia della Spiritualità e contiene le grandi grazie che Dio le ha fatto, è un libro che possiamo sentire molto vicino, perché è carico di umanità e parla di esperienze, anzi di ricordi di esperienze. Teresa scrive dopo aver sperimentato la sua seconda conversione, cioè dopo i quarant’anni, sollecitata a mettere per iscritto il resoconto di quanto di bello il Signore le ha comunicato. Solo allora comincia a cercare le parole adatte, vuole descrivere i passaggi rilevanti della sua vita e mostrare questi appunti dapprima al Padre Ibañez, suo confessore, e anche a qualche laico, di quelli con i quali è in rapporto. Questo primo documento, di cui sappiamo molto poco, doveva essere una breve relazione sul suo primo cammino spirituale ed un incitamento alla pratica dell’orazione. Purtroppo questo primo scritto autobiografico è andato perduto; c’è chi ritiene che sia stato inglobato nella seconda stesura della “Vita“. Comunque si sa con certezza che intorno al 1557, su comando del confessore o dei confessori (Teresa si consigliava sempre con più persone. Aveva il terrore dell’inganno, specie diabolico), lei si dedica ad una nuova redazione della sua “Vita“. Il Padre Bañez, grande teologo del periodo tridentino, uno dei personaggi ecclesiali più in vista di allora, più tardi deporrà quanto segue: “Lei scrisse questo libro quando io per la prima volta entrai in contatto con lei ad Avila, e su previa richiesta dei suoi confessori”.

Nel capitolo 16 inoltre si potrebbe scorgere il riferimento di Teresa, oltre che al confessore, a un piccolo gruppo di amici spirituali. Non dobbiamo dimenticare che in Europa, con l’avvento della borghesia, nuova classe sociale affermatasi nel XIII secolo, e grazie soprattutto alle donne, si erano cominciati a formare piccoli gruppi di preghiera, costituiti soprattutto da laici. Essi si riunivano per affinità spirituali, nelle case o nei beghinaggi o nei parlatori dei monasteri.

(Domanda di uno studente:)
Non sembra strano che proprio lei, Santa Teresa, si rivolga, per consigli, a dei laici?
(Risposta:)
Dovete sapere che in quel tempo il Monastero dell’Incarnazione di Avila era davvero “il Gazzettino” della città. Il parlatorio era aperto al pubblico, era un punto di ritrovo, un luogo d’incontro. E a Teresa piaceva tanto chiacchierare, intrattenersi in lunghe conversazioni. Lo facevano anche le sue consorelle!

… Ma, riprendendo il filo del discorso, precisiamo che forse nel 1562 la seconda redazione del “Libro della vita” era completata, seppure non comprendesse tutti i capitoli dell’opera definitiva, così come noi la possediamo. Di questo libro la seconda parte doveva essere la più consistente, e fu conclusa a Toledo nel 1565. L’apprezzamento per lo scritto fu unanime. Piacque ai confessori e agli amici che lo lessero e fu apprezzato anche dall’Inquisitore Don Francisco de Soto Salazar, che Teresa aveva incontrato ad Avila. Sappiamo anche che lei, dopo la fondazione del primo Carmelo della riforma, ebbe modo di rivedere parte dell’opera; infatti, quando finalmente poté godere, a riforma avviata, di un po’ di tranquillità, nel primo monastero, quello di San José, migliorò i capitoli iniziali e i capitoli finali della “Vita“.

Teresa era sempre preoccupata dei timori che le incutevano. Tutti le dicevano che quanto le accadeva era frutto di un’azione diabolica. Non c’è da meravigliarsi; lo stesso genere di false accuse furono indirizzate a tutti i grandi mistici, senza esclusione di colpi. E sono soprattutto i direttori spirituali ad insinuare turbamenti nei cuori dei contemplativi. Basti pensare che San Giovanni della Croce, nella “Notte oscura“, dedica solo poche pagine di rimproveri al demonio e molte ai padri spirituali. Il demonio non si sarà mai sentito tanto scornato!

Comunque il libro della “Vita” di Teresa cominciò a circolare troppo. Anche Doña Luisa de la Cerda, facoltosissima vedova (maritatasi con Don Arias Pardo de Saavedra, Maresciallo di castiglia, uno degli uomini più ricchi di Spagna) prese a esibirlo nei salotti, facendolo vedere alle nobildonne sue amiche, sottoforma di scritto devozionale. Le varie parti dell’opera cominciarono ad essere trascritte e, in un periodo come quello, in cui la Chiesa temeva e combatteva in ogni modo l’eresia, venne denunciato all’Inquisizione. Si salvò grazie all’intercessione di P. Bañez, valido difensore e protettore di Teresa, il quale analizzò, revisionò ed emendò il testo là dove alcune affermazioni potevano sembrare troppo ardite e lo consegnò personalmente agli inquisitori, che non vi trovarono alcun errore. Teresa, dopo aver passato grossi guai, lo riebbe e lo inviò al Padre Juan de Avila, uomo dotato di grande discernimento (che sarà riconosciuto “santo” e canonizzato) ed il testo completo, in segreto, cominciò ad essere copiato.

Le opere di questa Santa, prima donna “Dottore della Chiesa”, dovrebbero segnare l’inizio dello studio della mistica cristiana, perché Teresa rappresenta per la storia della Spiritualità quello che Aristotele è per la Filosofia e Linneo per la Botanica. Distinguendo e descrivendo accuratamente tutte le grazie, tutti i gradi della perfezione, offre un indispensabile chiarimento delle dottrine precedenti e una chiave di lettura eccellente per quelle successive, donando alla cultura religiosa di tutti i tempi una comprensione piena dell’esperienza mistica, con i molti suoi risvolti.

Uno dei più validi trattati di Mistica, ripubblicato decine di volte agli inizi del ‘900 e ancora insuperato, quello del gesuita Padre Augustin Poulain, poggia tutto sul magistero di Teresa.

Noi, per la lettura in aula, ci rifaremo all’ ottima Edizione delle opere pubblicata dalla casa editrice spagnola B.A.C. (BIBLIOTECA DE AUTORES CRISTIANOS) e curata da EFREN DE LA MADRE DE DIOS, O.C.D. e OTGER STEGINK, O.CARM. Le versioni italiane sono tante, ma nessuna pienamente aderente al testo originale. Molto buona è solo la versione italiana del 1636 “Opere spirituali di Santa Teresa“, ma, chiaramente, introvabile. Io userò l’edizione delle “Opere complete” tradotte da Letizia Falzone e curate da Luigi Borriello e Giovanna della Croce, Ed. Paoline, apportando qua e là delle correzioni e fornendo una mia traduzione, più letterale.

Tutti dobbiamo avere il testo sotto gli occhi, perché da esso saremo ammaestrati.
Non dimentichiamo che il nostro intento è quello di “imparare a leggere”.
Ora diamo l’avvio alla lettura di interi brani e paragrafi, e lasciamo che sia Teresa a parlarci di mistica.

 

Capitolo 10

Il capitolo 10 ricorda i primi doni celesti, ricevuti agli inizi della sua vita religiosa. Ella esordisce così:

“Come ho detto prima, c’era già stato un inizio per me, alcune volte, di quello che sto per dire, anche se per brevissimo tempo. Mi accadeva, in questa rappresentazione che facevo, di stare al cospetto di Cristo, nella maniera che ho detto, e talvolta anche durante la lettura, mi accadeva d’improvviso d’essere presa da un sentimento della presenza di Dio, da non poter dubitare in alcun modo ch’egli fosse in me ed io tutta immersa in lui. Questo, non in maniera di visione, credo la chiamino “mistica teologia”. E sospende l’anima in modo tale che le sembra di star tutta fuori di sé: la volontà ama, la memoria mi pare quasi smarrita, l’intelletto non discorre, a mio giudizio, ma non si perde; però, ripeto, non opera, standosene come attonito per le molte cose che intende, perché Dio vuole che capisca come da solo non intende nulla di ciò che Sua Maestà gli mostra”.

Le considerazioni che suscita il primo paragrafo del cap. 10 sono già illuminanti:

  1. La persona che sperimenta il dono mistico della “presenza di Dio”, dice Teresa, “è presa”, senza preavviso, mentre agisce come di consueto, pregando o leggendo, o semplicemente operando. Quando Teresa usa l’espressione “mi sembra” è assolutamente certa di quel che dice.
  2. Dio le fa sentire la Sua presenza non attraverso una visione, ma “direttamente”, senza la formazione di immagini.
  3. I confessori chiedono a Teresa di far riferimento alle tre facoltà dell’anima distinte secondo l’esemplarismo agostiniano: memoria, intelletto, volontà. Solo così lei poteva descrivere la sua unione con Dio. L’unificazione più profonda ed “essenziale” di cui parlano i mistici del Nord (Ekhart, Tauler, Ruusbroec…) non era ammessa dall’Inquisizione. Non dimentichiamo che Teresa aveva letto con grande trasporto lo “Speculum perfectionis” di Hendrik Herp, libro che le era stato sottratto, e aveva assimilato qualcosa della dottrina dei grandi Maestri renano-fiamminghi. In seguito la nostra Santa sarà sempre spinta a chiarire l’attività delle tre potenze dell’anima e obbedirà, nonostante le difficoltà che già in questo primo brano si intravedono.
    Lei dice: “Dio sospende l’anima al punto che essa non può operare come crede, attraverso l’uso delle sue facoltà superiori. La memoria è smarrita, cioè non può attingere a ricordi o a prese di coscienza. La volontà,” aggiunge Teresa ribadendo una cosa ovvia, “ama, perché è presa dall’Amore. L’intelletto non opera, cioè non è in grado di formulare concetti, pensieri suoi, ma non si perde, cioè non cessa di intendere. Esso intende, dice Teresa, ciò che Dio gli rivela e vuole che intenda, perché capisca che da solo non intende nulla”.

Dopo questo ricordo delle prime esperienze mistiche la Santa torna a discorrere di coloro che si mantengono fedeli all’orazione e sono tenaci, costanti:

Capitolo 11

“1. Venendo, dunque, ora a parlare di quelli che cominciano ad essere servi dell’amore (giacché altro non mi sembra il determinarci a seguire per la via dell’orazione colui che tanto ci amò) questa è una dignità così grande che provo una gioia straordinaria nel ripensarvi. Infatti, ogni timore servile scompare immediatamente, se in questo primo stato procediamo come si deve”.

A questo punto Teresa, con slancio affettivo nei confronti di quanti cominciano ad amare l’orazione, sembra azzardare una richiesta davvero eccessiva: Perché Dio non dà a tutti la grazia dell’unione mistica?
Leggiamo:

“Oh, Signore dell’anima mia e mio bene! Perché non volete che nel determinarsi un’anima ad amarvi procurando, per quanto può, di lasciar tutto per dedicarsi meglio all’amore di Dio, non abbia subito il godimento di riuscire a possedere questo amore perfetto?”

Ma subito si schermisce e aggiunge:

“Ho detto male; avrei dovuto dire, deplorandolo: perché non lo vogliamo noi? Infatti la colpa è nostra se non godiamo subito di sì eccelsa dignità, in quanto giungendo a possedere in modo perfetto il vero amore di Dio, esso con sé porterebbe tutti i beni. Ma noi siamo così avari e così lenti nel darci totalmente a Dio che, non volendo Sua Maestà che godiamo di un bene tanto prezioso senza caro prezzo, non arriviamo mai a ben disporci”.

Mi pare chiaro che qui si parli di un “amore perfetto”, donato da Dio a coloro che si donano totalmente a Llui. Ma Teresa, procedendo nel discorso dirà che noi non siamo capaci di donarci totalmente a Dio; possiamo solo far del tutto per disporci a ricevere questo dono, portatore di ogni bene.

All’inizio del quarto paragrafo infatti si legge:

“Pertanto, poiché non si arriva a dar tutto completamente, non ci viene dato questo tesoro tutto, completamente. Permetta il Signore che Sua Maestà ce lo dia goccia a goccia, anche se questo dovesse costarci tutti i sacrifici del mondo”.

Ma questa disposizione dell’animo non è ancora esperienza passiva, mistica. Andiamo all’inizio del paragrafo cinque:

“Parlando ora degli inizi di coloro che vanno determinandosi a seguir questo bene e ad intraprendere questa impresa (delle altre cose di cui avevo cominciato a parlare circa la mistica teologia parlerò più avanti), in questi inizi sta la maggior fatica…”

E la santa ricorre a delle immagini molto opportune e alla similitudine del giardino, simbolo dell’anima; esso può essere irrigato in quattro modi, corrispondenti ad altrettante immissioni di acqua (prefigurazione della grazia divina). Non dimentichiamo che, dalla fanciullezza fino alla senillità, Teresa ha sempre subito l’intenso fascino dell’acqua come dell’elemento più vivo e seducente della natura.
Paragrafo 7:

“A me sembra che il giardino si possa innaffiare in quattro modi:
– o con l’attingere acqua da un pozzo, il che comporta per noi una gran fatica;
– o con una noria e tubi, tirandola fuori mediante una ruota (io l’ho girata alcune volte), il che è di minor fatica del primo e fa estrarre più acqua;
– oppure derivandola da un fiume o da un ruscello: con questo sistema si irriga molto meglio, perché la terra resta molto più impregnata d’acqua, non occorre innaffiarla tanto spesso, e il giardiniere ha molto meno da faticare;
– oppure a causa di un’abbondante pioggia, in cui è il Signore ad innaffiarla senza alcuna nostra fatica, sistema incomparabilmente migliore di tutti quelli di cui ho parlato”.

Della prima acqua, tra molte divagazioni, Teresa parla a lungo, dal paragrafo 9 fino alla fine dell’undicesimo capitolo, paragrafo 18.

Capitolo 12

“1. Ciò che nel capitolo precedente ho cercato di far capire, sebbene abbia molto divagato in altre cose che mi sembravano particolarmente necessarie, è fino a che punto possiamo arrivare da noi, e come in questo primo grado d’orazione possiamo aiutarci un po’…”

Dunque, la nostra Maestra spirituale parla di un primo grado di preghiera, corrispondente a un primo modo di attingere l’acqua. Una volta superata la prima acqua, che si deve attingere cavandola a fatica del pozzo (cioè applicandosi con costanza nell’orazione che possiamo chiamare “ordinaria”, vale a dire frutto del nostro impegno) ci verrà spiegato (dal cap. 14) il secondo modo di irrigazione del giardino, quello prodotto dalla “noria”, cioè da una ruota con dei recipienti ad essa applicati che veniva messa in funzione senza sforzo e procurava acqua fresca e abbondante. Questo secondo tipo di orazione corrisponde per Teresa alla prima “orazione di quiete”, all’inizio della contemplazione mistica.

Ma torniamo al capitolo 12; in esso ella non farà altro che ripetere l’impossibilità per l’anima di giungere alla contemplazione, all’orazione di quiete, da sola. Come noteremo lo ribadisce a più riprese, in ogni paragrafo:

“1. …Così sono tutte le cose che causano devozione e che sono, in parte, acquisite intellettualmente, seppure questa capacità non possa essere meritata né guadagnata se non viene da Dio”.

E siccome non è possibile produrre da soli la quiete, la contemplazione, non possiamo che soffermarci a considerare l’umanità di Cristo, al fine di poterlo amare e servire in maniera sempre più adeguata.

 

“2. (Un’ anima)…può rappresentarsi il Cristo innanzi a sé e imparare ad innamorarsi della sua sacra umanità, tenendola sempre presente, parlando con Lui, implorandolo nelle necessità, affliggendosi nelle sofferenze e rallegrandosi con Lui per le gioie, senza dimenticarlo mai a causa di esse e senza andare in cerca di orazioni studiate, ma servendosi di parole che rispondano ai suoi desideri e alle sue necessità. E’ un metodo eccellente di far profitto in brevissimo tempo. Chi si adopera a vivere in così preziosa compagnia e ad avvantaggiarsene il più possibile, amando veramente questo nostro Signore, a cui tanto dobbiamo, costui, a mio parere, è già molto progredito”.

La connotazione specifica del cristianesimo dunque non è tanto l’unione mistica, l’illuminazione, la pace interiore, o il distacco dai beni terreni, ma la “sequela di Cristo”, l’ “imitazione di Lui”.

La contemplazione è un dono immeritato, che neanche dobbiamo richiedere, perché non costituisce il fine della nostra vita. Il Signore dà le grazie mistiche a chi vuole, come vuole e quando vuole. Meditare invece, e uniformarci all’umanità di Cristo, è in nostro potere, è il nostro scopo perché, per noi, Gesù Cristo è Via, Verità e Vita.

Torniamo a considerare come in ogni paragrafo di questo dodicesimo capitolo Teresa ribadisca l’impossibilità da parte nostra di acquisire la contemplazione, di infondere dentro di noi la quiete. Una vera doccia fredda per tutti coloro che dedicano tempo ed energie alla concentrazione, alla meditazione trascendentale e allo Yoga moderno, con l’intento di raggiungere chissà quale illuminazione!

Leggiamo:

“4. Ebbene, ciò è quanto possiamo fare da noi. Se qualcuno volesse procedere oltre ed elevare lo spirito ad assaporare dolcezze che ivi non gli si offrono, ciò equivale, a mio parere, a perdere l’uno e l’altro, volendo spingersi al soprannaturale…”

“5. Ora, quand’io dico: “non ci si eleva finchè Dio non ci eleva”, uso un linguaggio spirituale; chi ne abbia qualche esperienza mi capirà, poiché non so dirlo altrimenti se non si riesce a capirlo così: nella mistica teologia di cui comincio a dire, l’intelletto cessa di operare, perché Dio ne sospende l’esercizio, come spiegherò meglio in seguito, se lo saprò fare e se Egli mi darà il suo aiuto a tal fine.
Presumere o pensare di sospenderlo noi, non si deve fare; ciò di cui io parlo non si acquista, e non si cessa di operare con l’intelletto, altrimenti resteremo inebetiti e freddi (bovos y frios) e non faremo né una cosa né l’altra, mentre quando è il Signore a sospenderlo e a fermarlo, gli dà Lui stesso di che occuparsi e contemplare, e fa sì che, senza discorrere, intenda, nello spazio di un Credo, più di quel che noi possiamo intendere con tutte le nostre umane diligenze nel corso di molti anni. Ma pretendere di occupare da noi stessi le potenze dell’anima e produrre in esse la quiete è una pazzia”.

Riprodurre in noi stessi quel che solo Dio è in grado di operare, significa smerciare una banconota falsa e così non ottieniamo alcuna sapienza. Ogni volta che ci si sostituisce a Dio si diventa più inebetiti e più freddi. Cosa insegnano i guru orientali? L’esperienza autentica del Buddha è tutt’altra e la sua vita conferma l’insegnamento di Santa Teresa e di tutti i veri mistici.

“6. Ho trascorso vari anni leggendo molte cose senza intendere nulla di esse e per gran tempo; seppure Dio mi concedeva di capire, non sapevo proferir parole atte a far comprendere il mio stato. Questo mi è costato non poco tormento. Ma, quando Sua Maestà lo vuole, in un attimo insegna tutto, in modo che si rimane sbigottiti.
Una cosa posso dire in tutta verità: che, pur parlando con molte persone spirituali, che desideravano farmi capire quel che il Signore mi concedeva, affinché lo sapessi dire, certamente per mia incapacità non me ne giovavo né molto né poco (o così voleva il Signore, perché nessuno se non Sua Maestà fosse sempre il mio maestro – sia Egli benedetto per tutto! In verità mi è causa di grande confusione dire questo e non posso far altro che essere grata). E senza desiderarlo né chiederlo… in un attimo Dio mi faceva capire ogni suo favore con assoluta chiarezza, dandomi anche la capacità di saperlo dire in modo tale che i miei confessori ne rimanevano stupiti ed io più di loro, perché meglio di loro conoscevo la mia limitatezza”.

Ecco un ritornello costante nelle difficoltose descrizioni dell’unione con Dio, che i mistici sempre rimarcano: l’incomunicabilità dell’esperienza, l’impossibilità di tradurre ciò che è spirituale in linguaggio.

Altro elemento che è facile riscontrare nella vita di molti santi contemplativi è l’ammaestramento interiore del Signore, unico e vero loro Padre spirituale.

Terza considerazione da fare: le grazie mistiche producono, sempre, una conoscenza maggiore, una conoscenza infusa. Sono false le affermazioni di tutti coloro che collocano la mistica nella sfera dell’irrazionalità. Dio non mortifica, ma esalta la nostra umanità e la divinizza.

In proposito, voglio riportare la testimonianza riguardante Sant’Ignazio di Loyola:

“una volta si recò, per sua devozione, a una chiesa distante da Manresa poco più di un miglio: credo che si chiamasse San Paolo. La strada correva lungo il fiume. Tutto assorbito nelle sue devozioni, si sedette un poco con la faccia rivolta al torrente che scorreva in basso. E mentre stava lì seduto, li si aprirono gli occhi dell’intelletto: non ebbe una visione, ma conobbe e capì molti principi della vita interiore, e molte cose divine e umane; con tanta luce che tutto gli appariva come nuovo. Non è possibile riferire con chiarezza le pur numerose verità particolari che egli allora comprese; solo si può dire che ricevette una grande luce nell’intelletto.
Il rimanere con l’intelletto illuminato in tal modo fu così intenso che gli pareva di essere un altro uomo, o che il suo intelletto fosse diverso da quello di prima.
Tanto che se fa il conto di tutte le cose apprese e di tutte le grazie ricevute da Dio e le mette insieme, non gli sembra di aver imparato tanto, lungo tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue anni compiuti, come in quella sola volta”.
(Da Ignazio di Loyola, “Gli scritti“, Ed. UTET, Torino 1977, p.674)

 

E, come se Teresa volesse scolpire il concetto della passività mistica nella mente dei suoi lettori, torna a dire:

“7. Ritorno ancora una volta ad avvertire quanto importi non elevare lo spirito, se il Signore non lo eleva, cosa che, quando avviene, s’intende subito”.

Eppure, nonostante tutte le sue precisazioni, un nugolo di carmelitani continua ad indicare l’acquisibilità della contemplazione!

Capitolo 13

Qui Teresa esorta i suoi lettori ad avere grandi desideri, a sognare, a volare con la fantasia, ad aspirare ai carismi più alti, secondo l’insegnamento di San Paolo, e si dilunga a dare consigli. Leggeremo i vari paragrafi, soffermandoci in particolare sui paragrafi 12, 18 e 19, là dove si parla dell’importanza di avere un direttore spirituale dotto. Leggiamo:

“12. Voglio spiegarmi meglio, perché queste cose d’orazione sono tutte difficoltose e, se non si trova un maestro, si danno male ad intendere…”

I maestri servono ai mistici per capire meglio ciò che è loro accaduto e se è veramente Dio l’autore di quella quiete soprannaturale, di quella sublime unione spirituale.

“18. …E non ci si inganni dicendo che gli studiosi senza orazione non son fatti per coloro che si danno ad essa (io ho trattato con molti di questi dotti, in quanto da alcuni anni mi sono adoperata a cercarli, stretta da maggiore necessità, e sono sempre stata loro amica) perché, anche se alcuni non hanno certe esperienze, tuttavia non rifuggono la spiritualità né la ignorano. Infatti, nella Sacra Scrittura, che hanno continuamente tra mano, trovano sempre le verità attinenti allo spirito buono. Sono convinta che una persona di orazione che tratti con uomini dotti, se non desidera ingannarsi, il demonio non la ingannerà con illusioni, perché credo che il demonio tema grandemente la scienza umile e virtuosa, sapendo che a causa di essa verrà scoperto e ne avrà la peggio.”

“19. Ho detto questo perché, secondo una opinione diffusa, i dotti, se non sono spirituali, non son fatti per gente di orazione (ripeto che è necessario un maestro spirituale, ma se questi non è un dotto, ciò costituisce un grave inconveniente) e sarà sempre molto utile trattare con essi, purché siano virtuosi, seppure non abbiano spirito, e ci gioveranno molto. Dio darà loro a conoscere ciò che devono insegnare e di più li farà diventare spirituali, perché ci siano di gran vantaggio…”

I capitoli che seguiranno, a cominciare dal 14,
sono importantissimi e utilissimi alla comprensione dell’esperienza mistica:

Capitolo 14

“1. Poiché si è ormai detto con quanta fatica venga innaffiato questo giardino, quando a forza di braccia occorre cavar acqua dal pozzo, parliamo ora del secondo modo di tirar fuori l’acqua dal pozzo, ordinato dal padrone (=Señor) dell’orto perché, mediante il meccanismo di una ruota e di tubature, l’ortolano possa trarre più acqua con minor fatica, e possa riposarsi, senza bisogno di lavorare continuamente.

Ebbene, questo modo, applicato all’orazione detta di quiete, è quello che ora vado a trattare”.

Il P. Poulain, seguendo l’insegnamento di Teresa, distingue quattro gradi di “orazione ordinaria” e quattro gradi di “orazione straordinaria” o “mistica”. I primi non ci interessano. Dei secondi egli dice: si dicono mistici quegli atti o quegli stati soprannaturali, che i nostri sforzi e tutte le nostre industrie non possono riuscire a produrre, neppure in grado debole, neppure per un istante. Poi passa a descrivere sinteticamente i quattro gradi che ci interessano, quelli cioè straordinari o mistici. Il gesuita, nel capitolo tre della sua opera da noi già citata, fa allusione alle quattro soste o gradi dell’unione mistica, descritti con somma precisione da Teresa nell’ultimo suo capolavoro, Il Castello interiore.

1° – Vi è una unione mistica “incompleta”, che Teresa chiama “orazione di quiete” o semplicemente “quiete”. In essa l’azione divina è ancora troppo debole ad impedire le distrazioni.

2° – Vi è l’ “unione piena”, detta da S. Teresa semplicemente “orazione d’unione” o “unione”, essa ha le due qualità seguenti: a) la sua forza è talmente grande, che l’anima è pienamente occupata in Dio, cioè non è disturbata da alcun altro pensiero o distrazione; b) d’altra parte, i sensi continuano più o meno ad operare, così che si può ancora essere messi in comunicazione con il mondo esterno e mettere fine all’orazione.

3° – L’estasi (o unione estatica) si ha quando l’azione di Dio ha una energia tale che tutte le comunicazioni con l’esterno sono interrotte, o quasi.. Non si possono più fare movimenti, almeno volontari, né si può metter fine all’orazione.

4° – Quanto poi al “matrimonio spirituale” (o unione trasformante), vedremo che esso non perfeziona gli stati precedenti tanto col rafforzarli quanto col “modificarli”, e vedremo come.

Teresa, quando scrive il libro della sua vita non ha ancora sperimentato quest’ultimo stato mistico e quindi non ne troveremo alcuna descrizione nel testo che stiamo leggendo.

Ma, torniamo alla prima “quiete” di cui tratta il capitolo 14:

“2. A questo punto l’anima comincia a raccogliersi, e tocca già il soprannaturale, stato a cui in nessun modo potrebbe arrivare, nonostante ogni sua diligenza…
…Qui l’anima comincia a raccogliersi e raggiunge ormai uno stato soprannaturale a cui in nessun modo potrebbe arrivare con le sue forze, per quanta diligenza vi metta…
…Ciò determina un raccogliersi delle potenze dentro di sé per godere di quel contento con maggior gusto; esse pero non si perdono né si addormentano; solo la volontà è occupata, in maniera tale che, senza sapere come, diviene prigioniera di colui che ama, acconsentendo a che Dio la imprigioni. Oh, Gesù e Signor mio, quanto conta qui il vostro amore! Perché esso a questo punto tiene il nostro così avvinto a sé che pare non possa amar liberamente altro che voi.”

“3. Le altre due potenze aiutano la volontà a diventare capace di godere di tanto bene, sebbene alcune volte, stando ancora unita la volontà, la ostacolano molto. Ma allora la volontà non badi ad esse, ma rimanga nel suo godimento e nella quiete, perché, se cercasse di raccoglierle da sola, ella ed esse perderebbero tutto, come una colomba che non si accontenta del cibo che le dà il padrone della colombaia senza fatica e vada a cercarselo altrove…”

“4. Ora, tutto quello che qui avviene produce grandissima consolazione e con sì poca fatica che l’orazione non stanca, anche se dura a lungo, perché qui l’intelletto opera molto e, passo passo, estrae assai più acqua di quella che cavava dal pozzo. Le lacrime che Dio qui dà apportano godimento e, seppure si sentano scendere, non si procurano.
Quest’acqua ricca di beni e di grazie che qui il Signore ci dona fa crescere le virtù in modo incomparabilmente maggiore che nella precedente orazione, perché l’anima va ormai elevandosi dalla sua miseria e riceve già un po’ di notizia delle delizie della gloria. Credo che questo la faccia crescere ulteriormente e giungere più vicino alla vera virtù, che è Dio. Infatti Sua Maestà comincia a comunicarsi a quest’anima e vuole che ella senta in che modo le si comunica.”

Dalla lettura di questi paragrafi nascono spontanee alcune importanti considerazioni:

  1. L’esperienza mistica produce come una chiamata interiore a rientrare in noi stessi. Non possiamo non rammentare le parole di Sant’Agostino, che nelle “Confessioni” fa riferimento al balenare improvviso di Dio nell’intimo; “dentro di sé” dice Teresa, là dove si incontra, nella quiete, Colui che ci ha afferrato, che ci ha toccato nel fondo dell’anima, e che ci unisce a sé.
  2. Altra ininterrotta attestazione è il continuo ribadire che “nessuno” può e deve produrre, procurarsi, la contemplazione mistica, neanche nel suo grado più basso: la quiete.
  3. Il lessico della nostra Maestra spirituale è infarcito di termini relativi alla felicità, al più alto godimento, al piacere, alle delizie, alla consolazione, al gusto, al senso, se non proprio alla sensualità. Teresa connette al godimento di questa divina unione persino le lacrime.
  4. Tutte le grazie mistiche, conferma la Santa di Avila seguita da S. Giovanni della Croce, sono “notizie”, “conoscenze” poste in stretta connessione con l’amore, anzi, esse appartengono all’amore. Riportiamo le parole di San Gregorio Magno: “Amor ipse notitia est” alle quali fanno eco quelle dei Maestri medievali: “Amor ipse intellectus est”.

Ultima precisazione: Teresa, nei suoi scritti, utilizza spesso due termini, “sentir” e “entender” e li usa secondo una precisa accezione, che va compresa e sempre considerata durante la lettura. Quando inserisce, nel discorso che sta facendo, “entender”, vuol dire che ciò di cui predica è frutto del nostro impegno e desiderio conoscitivo. Quando invece sceglie il vocabolo “sentir”, significa che l’atto in questione o l’esperienza di cui tratta è prodotta da Dio e non da lei. Lo abbiamo appena letto: “Infatti Sua Maestà comincia a comunicarsi a quest’anima e vuole che ella senta in che modo le si comunica”.

“5. Arrivati a questo punto si comincia subito a perdere la bramosia delle cose terrene, e poche grazie! (L’espressione “e poche grazie!” indica un modo di dire riscontrabile in autori castigliani del ‘500. Nel presente contesto vuol significare che l’anima in questo stato diventa desiderosa delle grazie di Dio e, proprio perché non anela più alle cose del mondo, ne perde poche) Perché è chiaro che anche un solo momento di quel gusto (soprannaturale) quaggiù non si può avere, né vi è ricchezza, potenza, onori o piaceri che bastino a darci un solo istante di questo contento, essendo un godimento vero, che ci soddisfa pienamente. Nelle cose terrene mi pare che, meravigliosamente, intendiamo dove si trova questo vero contento, non mancandovi mai in esse “il si e il no”, mentre qui, in quel momento, tutto è “si”. Il “no” verrà dopo, vedendo che tutto è finito e che non si può arrivare a recuperarlo, né si sa come fare; perché, seppure ci si affatichi con penitenze e orazioni e ogni genere di buone azioni, se il Signore non lo vuole dare, non c’è nulla che possa giovare. Dio, nella sua grandezza, vuole che quest’anima intenda che Sua Maestà le è così vicino da non esservi più bisogno dell’invio di messaggeri. Lei stessa deve parlare con Lui, e senza il bisogno di emettere la voce. Egli le sta così vicino che la intende dal semplice movimento delle labbra.”

“6.Sembra importuno dir questo, perché sappiamo che sempre il Signore ci comprende e sta con noi. Non c’è dubbio che sia così, ma questo nostro Imperatore e Signore vuole che qui noi capiamo che Egli ci capisce, e quel che fa la Sua presenza (= mas quiere este Emperador y Señor nuestro que entendemos aqui que nos entiende y lo que hace su presencia) e il suo particolare desiderio di cominciare a operare nell’anima, dandole grande soddisfazione interiore ed esteriore e facendole intendere la differenza che, come ho detto, passa tra questo diletto e contento e quelli del mondo. E così sembra riempire il vuoto che a causa dei nostri peccati, avevamo fatto nella nostra anima. Questa soddisfazione alberga nella parte più intima (= es en lo muy intimo) dell’anima, che non sa da dove e come le venga, né sa, spesso, cosa fare, né cosa volere, né cosa chiedere.
Pare che abbia ricevuto tutto e non sa cosa abbia trovato, e nemmeno io so come farlo capire, perché per certe cose sarebbe necessario aver studiato.”

Consideriamo il contenuto degli ultimi due paragrafi. Teresa dà subito una preziosa regola di discernimento vocazionale: coloro che sono “chiamati” sentono che dentro di loro si sta spegnendo il gusto per tutto ciò che è effimero, transeunte. Si accorgono del progressivo eclissarsi della realtà esteriore a vantaggio di un panorama interiore inimmaginabile. Non vi sono infatti gioie terrene paragonabili alla contemplazione di Dio. E la contemplazione è, per sua natura, “sine medio”, senza intermediari: “Dio, nella sua grandezza, vuole che quest’anima intenda che Sua Maestà le è così vicino da non esservi più bisogno dell’invio di messaggeri”. Questa è la dottrina condivisa, preconizzata e ben definita da tutti i mistici.

Nel 6° paragrafo abbiamo letto come Teresa continui a far ricorso al gergo cavalleresco, all’amor cortese, e si rivolga a Dio come ad un Imperatore, e lo chiama sempre “Sua Maestà”. Termina poi con una rilevante osservazione, più volte riaffermata: l’importanza dello studio nell’ambito della Spiritualità. Da sempre e in ogni epoca storica il rinnovamento spirituale ha richiesto uno sforzo di concentrazione mentale, un atto di coraggio del cervello.

Il grande Basilio di Cesarea, nel IV secolo, aveva già constatato che “i monaci incolti sono propriamente ingovernabili” e l’antica leggenda del martirio di Saint Denys, patrono di Parigi, narra che egli, dopo essere stato decapitato, andò a raccattare la sua testa, la mise sotto il braccio e (solo allora) salì al cielo. Senza la testa non si va in paradiso! Ricordiamolo sempre!

Ora saltiamo al capitolo 15, che leggeremo per intero,
perchè è un capitolo essenziale nello studio di tutta la Mistica.

Capitolo 15

“1. Adesso torniamo al nostro argomento. Questa quiete e raccoglimento dell’anima è cosa che si sente molto nella soddisfazione e nella pace che in essa si produce, con grandissimo contento e riposo delle potenze (spirituali) e con soavissimo godimento.”

La soddisfazione, frutto della quiete, è una delle prove che la grazia viene da Dio. L’insoddisfazione e lo scontento sono invece figlie dell’illusione. Qui di seguito, nello stesso primo paragrafo, Teresa spiega che in tale stato sembra di essere già arrivati al capolinea. L’anima non comprende; pensa che tutto dipenda da lei e non osa nemmeno respirare, nel timore che la cosa finisca. Non ha ancora compreso che solo Dio può dare la quiete o toglierla.

“Sembra all’anima, non essendo mai giunta più in alto, che non le resti altro da desiderare, e molto volentieri direbbe con San Pietro che lì è la sua dimora (= su morada). Non osa muoversi né agitarsi, perché le sembra che quel bene le debba sfuggire; a volte non vorrebbe nemmeno respirare. Non nintende la poveretta che, come da sé non poté far nulla per attirarsi quel bene, meno ancora potrà fare per conservarlo più di quanto il Signore vorrà.”

“2. Ho già detto che, in questo primo raccoglimento e quiete, non mancano di agire le potenze dell’anima, ma l’anima è così appagata di Dio che, mentre dura tale stato, seppure la memoria e l’intelletto si scombussolano, la volontà è unita a Dio, e non perde la quiete e il riposo, anzi essa, a poco a poco, torna a raccogliere l’intelletto e la memoria. Infatti, seppure non sia del tutto immersa in Dio, è così ben occupata (a contemplarlo) che, senza saper come, nonostante il molto impegno che vi mette, nulla può attenuare il suo contento e godimento; tanto più che, senza fatica, essa si va adoperando perché questa scintilla (= centellica) di amore di Dio non si spenga.”

Passiamo quindi al paragrafo 4, dove Teresa dà delucidazioni su quella “piccola scintilla” già menzionata al paragrafo 2. Essa è estremamente rilevante nell’esperienza mistica; ad essa fanno riferimento tutti i mistici, perché è il fondamento, il presupposto, di ogni santificazione. E’ la scintillina (= Vünkelin) di cui tanto parla Eckhart.

Leggiamo!

“4. E’, dunque, questa orazione una piccola scintilla di vero amore suo che il Signore comincia ad accendere nell’anima, volendo che essa intenda gradatamente (= vada entendiendo) in che cosa consiste questo amore con regalo.”

Il termine “regalo” è attinto dalla letteratura cavalleresca medievale ed indica il “pegno d’amore” che si usava dare, nell’amor cortese, in segno di elezione.

Qui sembra quasi impossibile evitare le interruzioni e procedere nella lettura a spron battuto, perché ogni riga offre spunti di riflessione e molteplici connessioni a testimonianze parallele. Dunque, procediamo lentamente:

“Questa quiete e raccoglimento e piccola scintilla è Spirito di Dio.”

Altro asserto di importanza basilare. La distinzione tra “grazia creata” e “grazia increata” tanto cara ai teologi sembra proprio saltare. La mistica è quel “grande mistero” nascosto da secoli ed ora a noi rivelato, come dice San Paolo nella Lettera agli Efesini: Dio in noi. Egli “che è sopra tutti, agisce per mezzo di tutti ed è in tutti” “ci ha segnato con lo Spirito Santo promesso”. Di ciò i mistici hanno una esperienza vivissima, sconvolgente. Noi, che non godiamo come loro di questa grazia, portiamo dentro di noi questo mistero e vi aderiamo nella fede. Un giorno tutti sapremo perfettamente di essere stati divinizzati in Cristo, per il mistero dell’Incarnazione! In quel giorno senza fine sarà definitivamente strappato il velo che avvolge la realtà di questo mondo, e conosceremo tutta la verità. Ma…non divaghiamo, continuiamo a leggere per intero la frase ed il resto del paragrafo 4:

“4. Questa quiete e raccoglimento e piccola scintilla è Spirito di Dio e non è un piacere suscitato dal demonio o prodotto dai nostri sforzi (per quanto riesca impossibile a chi ha esperienza non capire subito che non è cosa da potersi acquistare da noi stessi, ma la nostra natura è così avida di piaceri che fa ogni tentativo per alimentarla, pur restando assai presto senza alcun calore, perché per quanto voglia attivare il fuoco così da ottenere questo piacere, sembra non faccia altro che gettarci acqua per smorzarlo) dunque, questa piccola scintilla accesa da Dio, per piccola che sia, splende nell’anima, e se non la soffoca per sua colpa, è lei a dar l’avvio al grande fuoco che getta fiamme di sé in questo incendio di grandissimo amor di Dio, che Sua Maestà vuole abbiano le anime perfette.”

Dunque l’orazione di quiete è questa “piccola scintilla” proveniente dal fuoco di Dio, posta da Lui nell’anima come un “segno”, come un “pegno”. Questa scintilla accenderà un più grande fuoco, che manderà fiamme egli stesso.

E’ facile scorgere in questa composizione letteraria due direzioni ben delineate da Teresa:
a) una antecedente, che procede da Dio e discende verso il fondo dell’anima
e
b) subito un movimento susseguente che, dal basso, dalla scintilla posta in noi, sale fiammeggiando verso Dio. E Dio, nelle relazioni trinitarie, si ama attraverso di noi, nello Spirito Santo, in questo amore perfetto infuso nelle anime contemplative.

Ricordiamoci sempre che il cristiano può amare Dio in tre modi, che costituiscono altrettanti gradi e intensità d’amore:
1) Dio può essere amato al di sopra di tutto;
2) può essere amato con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze;
3) e può essere amato nello Spirito Santo, cioè col suo stesso Amore, in maniera veramente perfetta.

“5. E’, questa scintilla, un segno e un pegno che Dio dà all’anima in quanto l’ha scelta ormai per grandi cose, perché si prepari a riceverle; è un grande dono, molto più grande di quanto io possa dire.”

Dio ormai si è impegnato, ha eletto l’anima a grandi cose. Leggete il piccolo capolavoro spirituale di Ugo di San Vittore “De arrha animae”, esprime questo concetto.

“Ripeto, conosco molte anime che giungono fin qui, ma quelle che passano oltre, come dovrebbero, sono così poche che ho vergogna a dirlo; non già che siano poche in senso assoluto, anzi, devono essercene molte, perché se Dio ci sopporta, è per qualche cosa; dico solo quello che ho visto. Desidererei vivamente avvertirle di badare a non nascondere il loro talento, perché sembra che Dio le abbia scelte per profitto di molte altre, specialmente in questi tempi in cui sono necessari forti amici di Dio a sostegno dei deboli; pertanto, quelli che riconoscono in sé questa grazia, si reputino davvero tali, se sanno conformarsi alle leggi che richiede una buona amicizia anche nel mondo; altrimenti, come ho già detto, temano ed abbiano paura di far male a se stessi, e Dio voglia che sia soltanto a se stessi!”

Altra opinione condivisa da tutti i Maestri della Spiritualità: ci sono molte anime che arrivano a sperimentare lo stato di “quiete”, ma poche, pochissime, che lo oltrepassano, e questo, il più delle volte, per mancanza di direttori capaci di istruirle. Ciò non dipende da Dio, dice Teresa; la cosa importante è che quanti giungono quassù non facciano nulla per accrescere l’ardore acceso da quella scintilla. Se noi cercassimo di riprodurre o incrementare quella contemplazione non faremmo altro che gettare acqua sul fuoco, fino a spegnerlo. La quiete, primo stato mistico, è opera di Dio e solo da Lui può essere ricevuto. La nostra Santa non cessa di mettere in guardia su questo punto: “come ho già detto, temano ed abbiano paura di far male a se stessi, e Dio voglia che sia soltanto a se stessi!”. E’ chiaro che la perdita di un’anima contemplativa è dannosissima per tutta la Chiesa; non solo un discapito personale.

“6. Ciò che deve fare l’anima durante questa quiete non è altro che attendervi con dolcezza e senza strepito. Chiamo “strepito” l’andar cercando con l’intelletto molte parole e considerazioni per rendere grazie di questo beneficio… Tutto questo movimento è prodotto dall’intelletto, e anche la memoria si agita… La volontà operi con calma e prudenza, e intenda che con Dio non si negozia bene a forza di braccia, e che questi (sforzi) non son altro che grossi pezzi di legna messi senza discernimento sulla scintilla per soffocarla…”

Si sta parlando del secondo modo di attingere acqua usando un argano, una noria. Non bisogna più darsi tanto da fare; è opportuno invece, in questa orazione di quiete, dice Teresa: “attendervi con dolcezza, senza strepito”, senza applicarsi troppo, perché “non si negozia con Dio a forza di braccia”.

Nel terzo modo tutto sarà ancor più facile, perché vi sarà una fonte, un fiotto d’acqua, che scorre. Noi dovremo solo dirigerla.

La quarta acqua non avrà bisogno di essere diretta. Il Signore stesso la darà copiosamente dall’alto, come pioggia scrosciante.

“7. …E’ un’orazione che comprende molto e mediante la quale si ottiene di più che con molti ragionamenti dell’intelletto…”

Perciò è assolutamente falso affermare che i mistici non conoscono; essi, piuttosto, ricevono una conoscenza; una conoscenza maggiore.

“Giovano di più, a questo proposito, alcune pagliuzze poste qui con umiltà (e saranno meno che paglie se le poniamo noi), che meglio attizzano il fuoco, anziché molta legna ammonticchiata con argomentazioni dottissime che – a nostro avviso – in un Credo soffocherebbero la fiamma…”

“8. Questo avviso è utile per i dotti, che mi hanno comandato di scrivere perché, essendo tutti, per la bontà di Dio, arrivati qui, può darsi che perdano il tempo nell’applicarsi alla Sacra Scrittura e, sebbene la dottrina sia loro di gran vantaggio, prima e dopo, in questi momenti d’orazione, c’è ben poca necessità di essa, a mio parere, e serve ad indebolire la volontà; perché l’intelletto allora ha la percezione di essere vicino alla luce, con così assoluta chiarezza che anch’io, pur essendo quella che sono, sembro un’altra.”

In questi ultimi paragrafi sembra esplicita la contrapposizione del “movimento” alla “quiete”, dei molti ragionamenti alle brevi espressioni di abbandono fiducioso. Nel frattempo è Dio che illumina e trasforma la persona.

“E così, stando in questa quiete, benché io non capisca quasi nulla di ciò che recito in latino, specialmente del Salterio, mi è accaduto non solo di intendere il versetto come suona in lingua volgare, ma anche di andare oltre e di ricevere la comprensione di quanto esso voleva dire.

Lasciamo stare il caso in cui dovessero predicare e insegnare, perché allora conviene servirsi della dottrina per aiutare quei poveretti di scarsa istruzione come me, essendo gran cosa la carità e giovare alle anime, sempre puramente per amor di Dio. Ma, in questi momenti di quiete, lascino riposare l’anima nel suo riposo, mettendo da parte l’istruzione (= las letras); verrà il tempo di giovarsene al servizio del Signore, e di apprezzarla tanto che per nessun tesoro vorrebbero aver tralasciato di apprendere, unicamente per servire Sua Maestà, essendo in ciò di molto aiuto; ma davanti alla Sapienza infinita, mi credano, vale più un poco di studio d’umiltà e un atto di essa che tutta la scienza del mondo. Qui non c’è da argomentare, ma da riconoscere sinceramente che cosa siamo, con pura semplicità, presentandoci davanti a Dio, il quale desidera che l’anima diventi stolta, come in vero è, innanzi alla sua presenza. Sua Maestà infatti si umilia tanto da sopportarla vicina a sé, essendo noi quel che siamo.”

Teresa si sforza di spiegare l’unificazione delle potenze superiori dell’anima secondo lo schema psicologico dei teologi (par. 6), ma con grande difficoltà. Se per costruire mentalmente un concetto o per meditare si sente tanta pena, bisogna lasciare che l’anima sia libera persino di abbandonare l’orazione mentale. L’applicazione intellettuale non giova alle anime favorite di tali grazie. Perciò, dice la Santa, non bisogna scoraggiarle se non riescono a meditare, o semplicemente a leggere. Bisogna lasciar riposare l’anima. I direttori spirituali devono avere pazienza e non imporre ai mistici l’applicazione intellettuale nell’orazione. Non ne caverebbero che disgusto e danno.

Suggerisce giustamente S. Alfonso Maria de’ Liguori ai confessori: “Quando viene qualche anima favorita col dono della contemplazione, bisogna che il confessore stia ben inteso del come dee guidarsi e liberarla dagli inganni; altrimenti le farà gran danno, e come dice San Giovanni della Croce, ne dovrà egli rendere gran conto a Dio. Molto differisce la contemplazione dalla meditazione; nella meditazione si va cercando Dio con la fatica del discorso; nella contemplazione, senza fatica, si contempla Dio già trovato. In oltre nella meditazione opera l’anima cogli atti delle proprie potenze: nella contemplazione opera Dio; e l’anima solamente “patitur”, e riceve i doni che le vengono infusi dalla grazia, senza ch’ella operi cosa alcuna, allorché la stessa luce ed amor divino, di cui allora viene ripiena, la rendono amorosamente attenta a contemplare la bontà del suo Dio, che in tal modo allora la favorisce”.

Torniamo alla lettura del “libro della vita“, capitolo 15 paragrafo 9.

“9. L’intelletto si muove anch’esso per ringraziare Dio in parole ornate, ma la volontà, non osando nemmeno alzare gli occhi, come il pubblicano, farà più buon ringraziamento di quel che l’intelletto, mettendo a soqquadro la retorica, può forse fare. Infine, in questo stato non si deve lasciar del tutto l’orazione mentale, neppure certe preghiere orali, che alcune volte, volendolo e potendolo, si possono fare. Dico così perché, quando la quiete è grande, difficilmente si può parlare, e lo si fa solo con grande pena”.

Teresa chiama “retorica” il dialogare con Dio attraverso ragionamenti.

“10. Si sente, a mio parere, quando è lo Spirito di Dio o qualcosa procurato da noi stessi con un inizio di devozione dataci da Dio, e quando vogliamo, noi, come ho detto, passare a questa quiete della volontà; in tal caso non si produce alcun effetto. Tutto finisce presto e si resta nell’aridità.

Se proviene dal demonio, l’anima esperta se ne accorgerà, perché lascia inquietudine, poca umiltà e poca accoglienza agli effetti prodotti dallo Spirito di Dio; non produce luce all’intelletto, né fermezza nella verità. Ma può fare poco o nessun danno, se l’anima indirizza a Dio il diletto e la soavità che sente e pone in Lui ogni suo pensiero e desiderio, come si è già dato avviso.

Il demonio non può guadagnar nulla, anzi Dio permetterà che, a causa dello stesso diletto che produce nell’anima, perda molto, perché questa, pensando che viene da Dio, si darà spesso all’orazione, con vivo desiderio di Lui; un’anima umile e non curiosa, né interessata ai diletti ancorché spirituali ma amica della croce, farà poco conto del piacere procurato dal demonio, mentre non potrà fare altrettanto se è Spirito di Dio, che terrà, invece, in grandissima stima.

Tutto ciò che presenta il demonio è una menzogna come lui, e se vede che l’anima, nonostante quel piacere e quel diletto si umilia (perché di questo deve molto preoccuparsi: procurare in tutte le cose di alta orazione di uscirne con grande umiltà), non tornerà spesso all’assalto, vedendo che ne esce sconfitto.”

La capacità dell’anima di discernere la verità e l’illusione, in questa contemplazione, è grande. Il demonio non riesce a danneggiare certe persone anzi, intromettendosi, non farebbe che portarle a Dio, punendo se stesso.

“11. Per questo e per molte altre ragioni, ho consigliato, nel primo grado di orazione, cioè nel primo modo di avere acqua (=en la primera agua), che è importantissimo che le anime, entrando in orazione, comincino a distaccarsi da ogni genere di diletti, e vi entrino risolute ad aiutare Cristo a portar la croce, come buoni cavalieri che, senza soldo, vogliono servire il loro Re, sicuri di non mancare di nulla. Teniamo gli occhi costantemente fissi su quel vero ed eterno regno che aspiriamo a conquistare; è cosa molto importante, specialmente in principio, averlo presente nella mente, che dopo si vedrà chiaramente la caducità di tutte le cose, che sono nulla, e sarà anche necessario, per vivere, dimenticare il riposo terreno.

Pare che queste considerazioni siano cosa molto bassa, e lo sono, in verità, tanto che chi è già progredito nella perfezione terrebbe a disonore e si vergognerebbe se dovesse pensare di abbandonare i beni del mondo per il fatto che hanno fine, perché, se anche durassero sempre, sarebbe felice di lasciarli per Dio, tanto più perfetti essi fossero e più duraturi”.

Teresa vuole insegnarci, in questo undicesimo paragrafo, una grande verità: Dio non si serve perché è eterno, né perché è l’unica cosa stabile e sicura su cui poggiare la nostra esistenza, ma solo e unicamente perché è Lui. Nelle parole di Teresa non c’é disprezzo del mondo in quanto cosa vile e insignificante, ma solo perché esso non è ciò che i mistici cercano.

“12. Qui, in queste anime, è già cresciuto l’amore, ed è lui che opera. Per i principianti tale considerazione è di grande importanza, e non la reputino cosa di poco conto, perché da essa se ne trae un grandissimo bene; per questo insisto tanto. Ne avranno utilità anche quelli che sono molto avanti nell’orazione, volendoli il Signore provare e sembrando talvolta che Sua Maestà li lasci, li abbandoni. Perché, come ho già detto, e non vorrei che lo si dimenticasse, in questa vita l’anima non cresce come il corpo, anche se diciamo che cresce, e in verità cresce. Ma il bambino,, dopo esser cresciuto e aver acquistato una corporatura da uomo, non torna a calare e a ridursi a un corpicino; ma qua credo di si, il Signore fa che ciò avvenga (a quanto ho visto per me, non so se per altri); ciò dev’essere per umiliarci e per il nostro maggior bene e perché non ci accada di trascurarci mentre stiamo in questo esilio; pertanto, chi si trova più in alto, ha da temere di più e da fidarsi di meno di sé“.

La Santa sembra prendere posizione contro i manuali d’orazione. In essi, ordinariamente, si presume una crescita graduale nella vita spirituale, secondo i dettami dell’evoluzione biologica, invece, dice Teresa, con Dio non è così; qui è Lui che, indiscutibilmente, opera, e se ne ride degli schemi che pretendono di imbrigliare la sua azione o di limitarla. La vita spirituale non è una ascensione costante a tappe fisse, non è un esoterismo morale, ma una vocazione religiosa assolutamente libera. Il Signore propone una storia d’amore e attende il nostro assenso, come un fidanzato langue e brama di essere corrisposto dall’amata. I contemplativi sono “presi” da Qualcuno, ed essi arrivano a capire che Dio, inspiegabilmente, è preso da loro.

L’essere umano rimane sempre libero di rifiutare l’amore più alto, anche quello che si manifesta nell’unione mistica; e “recedere” non comporterà per lui neanche un “peccato lieve”. Ma rifiutare l’amore di Dio significa sprecare l’occasione della vita, la quale, dopo un simile “no” si tingerà di grigio, potete esserne certi!

Dio, dal canto suo, può agire in qualunque modo e può produrre qualunque cosa. I Suoi pensieri non sono i nostri pensieri, né le sue vie corrispondono alle nostre. A Santa Caterina da Genova, ad esempio, dette subito la più alta perfezione, concesse l’ultimo grado dell’unione mistica, per poi farle sperimentare il “purgatorio” dell’anima. I teologi continueranno a distinguere e a porre in ordine consequenziale prima la “purificazione”, poi l’ “illuminazione e infine l’ “unione”. Dio non rispetta pedissequamente questa giustapposizione teologica. La grazia mistica produce sempre i tre effetti, simultaneamente, e Dio opera a suo piacimento.

“A volte costoro hanno tanta cura di liberarsi dall’offendere Dio che pongono tutta la loro volontà nella Sua e, per non fare un’imperfezione, si lascerebbero tormentare e soffrirebbero mille morti; e pur di non commettere peccati – vedendosi combattuti da tentazioni e persecuzioni – hanno bisogno di valersi delle prime armi dell’orazione, e tornano a pensare che tutto finisce e che c’è il cielo e l’inferno, e altre cose di tal genere”.

Dalla lettura di queste ultime righe non possiamo dedurre che i Santi sono dei rigoristi, dei moralisti, autori di un volontarismo disumano attento alle minime imperfezioni. No! I loro scritti hanno il carattere di una teologia contemplativa. Le negligenze dell’uomo di cui essi parlano sono spesso lette sotto le categorie del “peccato mortale” o “veniale”, ma a torto, perché – torno a dirlo – non vanno giudicate come regole di un sistema di perfezione morale, ma come regole di perfezione spirituale, inserite cioè in un rapporto di grande amore per Iddio. Il loro apparente rigorismo non è altro che culto “passionale”, pieno di entusiasmo e di spontaneità che sgorga dal cuore, dall’anima amante.

“13. Ritornando, dunque, a quello che dicevo, è veramente fondamentale, per liberarsi dagli inganni e dai piaceri prodotti dal demonio, avviarsi con determinazione, fin dal principio, a seguire la via della croce, senza desiderar piaceri; giacché il Signore stesso mostrò questo cammino di perfezione, dicendo: “Prendi la tua croce e seguimi”. Egli è il nostro modello e non ha da temere colui che per contentarlo segue i suoi consigli.

Nel profitto che costateranno in sé capiranno che non è il demonio e, quantunque tornino a cadere, rimane il segno che è stato lì il Signore, e si rialzeranno subito, con altri segni che ora dirò.”

Sembra proprio calzante l’insegnamento paolino: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”.

“14. Quando è lo spirito di Dio, non è necessario andar cercando cose capaci di darci umiltà e confusione, perché il Signore stesso la dà, in maniera assai differente da quella che noi possiamo acquistare con le nostre considerazioncelle, che non son nulla in confronto della vera umiltà con luce che insegna qui il Signore, tale da generare una confusione che fa struggere (l’anima). Questa cosa è evidentissima: Dio ci dà conoscimento affinché comprendiamo che nessun bene abbiamo da noi, e tanto più chiaramente quanto maggiori saranno le grazie. Pone inoltre un ardente desiderio di andare avanti nell’orazione e di non tralasciarla, per quante difficoltà possano sopravvenire, e (l’anima) tutta si offre. Ha inoltre una tale sicurezza con umiltà e timore di salvarsi che caccia subito il timor servile, ricevendo al suo posto un timore filiale molto più accresciuto. Vede anche che comincia un amore con Dio non più interessato a sé e desidera momenti di solitudine, per godere maggiormente di quel bene. Infine, per non stancarmi, (dico che) esso è il principio di tutti i beni, essendo i fiori, in tal stato, ormai pronti a sbocciare. L’anima lo vedrà molto chiaramente e in nessuna maniera allora potrà essere indotta a credere che Dio non sia stato con lei, almeno fino a che non torni a costatare le proprie colpe e imperfezioni; e allora teme tutto, ed è bene che tema, seppure vi siano alcune anime alle quali giova di credere con certezza che sia Dio l’autore di tutto, e non i timori che possono incutere loro. E se tal anima sarà amante e grata, più la farà tornare a Dio il ricordo della grazia che Egli le fece che tutti i castighi dell’inferno che si rappresentavano, almeno alla mia (anima), tanto scellerata”.

“15. I segni dello spirito buono saranno descritti in seguito, tanto più che mi costa molta fatica esporli con chiarezza. Eppure credo che col favore di Dio ci riuscirò, perché, oltre all’esperienza, con la quale ho molto imparato, dirò cose sentite da persone dotte, molto letterate e molto sante, alle quali è doveroso prestar fede. E le anime che per la bontà del Signore giungeranno qui non rimangano tanto affaticate come è accaduto a me”.

La capacità di discernere e mettere per iscritto certe esperienze è difficile, ma dice che ne parlerà ugualmente. Il Signore la renderà capace di scrivere.

Nel capitolo 16, che ora andremo a leggere, Teresa fa continuamente uso di “paradossi”,
ma, attenzione, lo scritto non è paradossale!

Capitolo 16

“1. Cominciamo ora a parlare della terza acqua con la quale si irriga questo giardino, cioè l’acqua corrente di fiume o di fonte, che irriga con molto minor fatica, benché dia un po’ da fare incanalarla. Qui il Signore vuole aiutare il giardiniere in modo da essere proprio Lui il giardiniere e colui che fa tutto. E’ un sonno delle potenze dell’anima, che non si perdono del tutto, né intendono il loro modo di operare. Il piacere, la soavità e il diletto sono incomparabilmente maggiori che in passato, perché l’acqua della grazia a questa anima viene alla gola, tanto che non è in grado di andare avanti, e non sa come tornare ad altro; vorrebbe godere di grandissima gloria. E’ come uno con la candela in mano, che gli manca poco per morire, di morte molto desiderata; gode in quell’agonia di gioia indicibile; ciò mi sembra che non sia altro se non un morire quasi del tutto a tutte le cose del mondo e stare già godendo di Dio. Io non so quali altri termini usare per dire e spiegare questo; l’anima in tale stato non sa cosa fare, se parlare o tacere, se ridere o piangere; è un glorioso delirio, una celestiale follia, da cui si apprende la vera sapienza, ed è dilettosissimo il modo di godere dell’anima”.

La terza acqua, quella che scorre attraverso i canali d’irrigazione, corrisponde ad una fase più profonda dello stato di quiete, in cui si sperimenta una maggiore unione. Le facoltà dell’anima sembrano assopite e interamente occupate in Dio, in una fruizione di Lui che dà grande diletto.

Qui, nell’orazione di quiete, a volte si colloca, afferma Teresa, il vero “sonno delle potenze”, che non dobbiamo confondere, per carità, con il “sonno dello spirito” di cui tanto s’ode parlare nei gruppi carismatici quando qualche persona, durante i loro raduni, cade in terra improvvisamente. Noi parliamo del primo grado dell’unione mistica, la quiete; questo stato produce riposo, grande pace e appagamento interiore e tutto è operato da Dio in maniera profondissima; Egli “occupa le potenze”, le fissa stabilmente in Sé, rendendole inoperose. Potremmo dire che le nostre facoltà sono ben deste nel rapporto con Dio, ma dormono in rapporto a tutti gli oggetti estranei. In questo stato non si è in grado di formulare pensieri nostri né di produrre immagini. Tutto è dato da Dio in maniera sovraeminente; niente viene da noi. Ciò non ha nulla a che vedere con lo stato ipnotico o col letargo o con altri fenomeni esteriori o psichici.

“2. Questa orazione il Signore me l’ha data in abbondanza, credo cinque o sei anni fa, molte volte, e siccome non la comprendevo né la sapevo descrivere, avevo deciso di tenerla per me, per saperne dire assai poco o nulla. Capivo bene che non era unione piena di tutte le potenze e vedevo anche molto chiaramente che era (qualcosa di) più della precedente, ma confesso che non sapevo precisare né intendere in cosa consistesse questa differenza.

Credo sia per l’umiltà che vostra grazia ha avuto nel farsi aiutare dalla mia grande semplicità, che il Signore oggi mi ha concesso questa orazione, subito dopo la Comunione, senza che io potessi passare più avanti, e mi ha ispirato questi paragoni, insegnandomi il modo di esprimerli e ciò che in questo stato deve fare l’anima, al punto che rimasi stupefatta e compresi tutto in un attimo.

Molte volte mi trovavo come tratta fuori di me ed inebriata di questo amore e non avevo mai potuto intendere come ciò avvenisse. Capivo bene che era Dio, ma non riuscivo a intendere come Egli operasse perché, a dire il vero, le potenze sono quasi del tutto unificate, ma non assorbite al punto di non operare. Ho gioito moltissimo per averlo ora capito. Sia benedetto il Signore per il dono che mi ha fatto (=Bendito sea el Señor, que ansì me ha regalado!).

Le potenze hanno solo la capacità di occuparsi completamente in Dio. Sembra che nessuna di esse osi muoversi, né la potremmo far muovere noi, se con molto impegno volessimo distrarci, e credo che neanche in tal caso potremmo riuscirci del tutto. Si pronunciano qui molte parole a lode e onore di Dio, ma senza ordine (se il Signore stesso non vi pone ordine; comunque l’intelletto qui non conta nulla); l’anima vorrebbe dar voce alle lodi di Dio con incontenibile gioia; è in un’inquietudine saporosa”.

Teresa prova disagio a collocare le sue esperienze all’interno di sistemi e distinzioni preconfezionati. Molto spesso gli uomini dotti con cui tratta la obbligano a fissare con meticolosa precisione i contorni ai gradi dell’unione mistica e la nostra Maestra spirituale si trova a lottare con loro, che esigono il rispetto dello schema psico-logico: intelletto, volontà…

In verità, quando si ha l’esperienza della presenza di Dio, le facoltà dell’anima, progressivamente e irresistibilmente, vengono attirate nel profondo, subiscono un “inabissamento” (Teresa usa il termine “engolfar”), e ricevono una “semplificazione” o “unificazione” passiva; esse, direbbe Jan van Ruusbroec coniando in medionerlandese un neologismo, sono “introtratte” (= inghetroken); rifluiscono cioè verso il centro più intimo, cessando di operare distintamente, nella molteplicità (secondo l’uso delle proprie specifiche possibilità) e divenendo un unico dinamismo, mosso da Dio. Sotto tale azione divina l’anima diventa “uno” ed è detta “spirito”.

Devo aggiungere un’altra importante precisazione, qui il termine “semplice” non va inteso in senso morale, ma in senso spirituale. Non si diventa “sempliciotti”, ma semplificati, cioè “unificati”.

“3. Già si aprono i fiori, già cominciano a dar profumo. Qui l’anima vorrebbe che tutti la vedessero e comprendessero la sua gloria per lodare Dio, e la aiutassero a condividere parte del suo godimento a quanti non possono godere tanto. Mi sembra che sia come la donna di cui parla il vangelo che voleva chiamare o chiamava le vicine. Credo che tale sentimento doveva provare il Re profeta David quando suonava e cantava sull’arpa le lodi di Dio. Di questo glorioso re io sono molto devota, e vorrei che lo fossero tutti, specialmente i peccatori come me”.

Dunque quest’acqua soprannaturale fa sbocciare i primi fiori profumati, che nel linguaggio di Teresa sono le virtù.

“4. Oh, mio Dio, come si sente mai un’anima quando sta così! Vorrebbe essere tutta lingua per lodare il Signore; dice mille santi spropositi, riuscendo sempre a contentare chi la tiene così. Io so di una persona alla quale, pur non essendo poetessa, accadeva di comporre in breve tempo strofe molto sentite nelle quali manifestava bene la sua pena; non erano versi fatti col suo intelletto, ma solo per godere di più di quella gloria che le dava saporosissima pena, e di cui ella si lamentava col suo Dio.Vorrebbe che tutto il suo corpo e la sua anima si spezzassero per manifestare il godimento che con questa pena sente. Quali tormenti, allora, le si potranno presentare che non siano piacevoli da affrontare per il suo Signore? Vede ora chiaramente che i martiri non ci mettevano niente del loro nel sopportare i tormenti, perché sa bene, l’anima, che la forza viene da un’altra parte. Ma che sentirà nel dover ricondurre vita nel mondo e di dover tornare alle attenzioni e ai complimenti di esso? Mi sembra, pertanto, di non aver esagerato nel descrivere questa cosa, che non rimane bassa, in questo sublime modo di godere che il Signore vuole per noi, affinché in questo esilio l’anima ne goda. Siate per sempre benedetto, Signore, e tutte le creature Vi lodino in eterno! Vogliate ora, mio Re, ve ne supplico, poiché quando scrivo queste cose non son fuori di questa santa celestiale follia, per vostra bontà e misericordia, avendomi voi fatto questa grazia senza alcun merito mio, vogliate, dunque, che tutti coloro con cui dovrò trattare siano pazzi del vostro amore, o concedetemi di non trattare più con nessuno, o ordinate che io non tenga più in alcuna considerazione il mondo o tiratemi fuori da esso. Non può più, mio Dio, questa vostra serva soffrire tanti tormenti come di vedersi senza di Voi. Pertanto, se deve ancora vivere, non vuole riposo in questa vita, neppure se foste Voi a darglielo”.

E’ assai difficile trovare spiegazioni naturali a questo mistico amore sponsale che brama di partecipare sempre più vivamente alla sorte terrena del Cristo Sposo, alle sue sofferenze. Qui la persona è in grado di sopportare qualsiasi tormento. I martiri, dice Teresa, se nell’affrontare tanti patimenti ricevevano questa esperienza, allora non ci mettevano niente del loro. Quando si ode parlare delle penitenze asprissime di un Enrico Suso o di una Veronica Giuliani, viene da rabbrividire ma, nel trasporto d’amore per Cristo, che l’anima sente in questo stato mistico, ogni mortificazione sembra insufficiente. Non c’è dolore che possa eguagliare l’impeto e il gaudio infinito della reciproca donazione d’amore tra Dio e l’uomo. Ma che giudizio psicologico si darà a questa esperienza? La Psicologia si è sviluppata innanzitutto per aiutare gli uomini a
ritrovare, per quanto è possibile, l’equilibrio e la salute psichica, e il suo vocabolario e le sue classificazioni saranno sempre improntati su “sintomi patologici”. La psicologia definisce spesso la sanità mentale in termini di malattia. Un grande psicologo contemporaneo definì l’amore come “una isteria riuscita”. Similmente potremmo descrivere la vita come “la sola malattia assolutamente mortale”. In realtà alcune esperienze religiose sfuggono ad ogni catalogazione sociologica e psicologica.

 

Dell’amore di cui parlano gli scritti mistici l’Imitazione di Cristo dice:

“Grande cosa è l’amore. Un bene grande, veramente. Un bene che, solo, rende leggera ogni cosa pesante e sopporta tranquillamente ogni cosa difficile; porta il peso senza fatica e rende dolce e gustosa ogni cosa amara… Niente è più dolce dell’amore; niente è più forte, più alto o più grande: niente, né in cielo né in terra è più colmo di gioia, più completo o più buono; perché l’amore nasce da Dio… Spesso l’amore non conosce misura, in un fervore che oltrepassa ogni confine. L’amore non sente gravezza, non tiene conto della fatica, anela a più di quanto non possa raggiungere, non adduce a scusa la sua insufficienza, perché ritiene che ogni cosa gli sia possibile e facile. Colui che ama può fare ogni cosa…”
(Libro III, cap.5. Versione di Ugo Nicolini)

“5. Quest’anima vorrebbe vedersi libera; il mangiare la uccide, il dormire l’affligge; vede che se passa il corso della vita in regalo (=en regalo) tuttavia sa che la vita nulla le potrebbe regalar fuori di Voi; le pare di vivere contro natura, perché ormai non vorrebbe più vivere in sé ma in Voi. Oh mio vero Signor e gloria mia, quale leggera e pesantissima croce avete preparato per coloro che giungono a questo stato! Leggera, perché è soave; pesante, perché vengono talvolta momenti in cui noi non abbiamo capacità di soffrirla, sebbene l’anima non vorrebbe mai e poi mai vedersi libera da essa, se non fosse per vedersi già con Voi. Se poi l’anima si ricorda che non vi ha servito in nulla e che vivendo vi può servire, vorrebbe caricarsi di una croce assai più pesante e non più morire fino alla fine del mondo. Non fa nessun conto del suo riposo, pur di rendervi un piccolo servizio; non sa che cosa desidera, ma ben intende che non desidera altra cosa che Voi”.

L’autrice in questo paragrafo usa delle antitesi, delle contrapposizioni. Mette in relazione dei contrari non soltanto per dare maggiore rilievo al discorso, ma perché queste antinomie esprimano lo sforzo di lei che è costretta a raggiungere fonicamente e concettualmente la soglia estrema della lingua, estinguendo man mano la capacità di esprimere ciò che è spirituale nella sua ricca complessità, fino ad evocare il concetto della coincidentia oppositorum. Queste forme retoriche caratterizzano il discorso di moltissimi mistici.

“6. Oh, figlio mio! (tanto è umile da voler essere chiamato così colui al quale è diretto questo scritto, da lui stesso ordinatomi), tenete solo per voi le cose in cui Vostra Grazia vede che esco dai termini, perché non c’è ragione che basti a non farmi perdere il senno quando il Signore mi trae fuori da me stessa, nè credo di essere io a parlare da quando questa mattina mi sono comunicata. Mi sembra un sogno quello che vedo, e non vorrei vedere altro che gente malata della malattia che ora io soffro. Supplico la Signoria vostra: diventiamo tutti pazzi per amore di colui che per amor nostro fu chiamato tale!…”

E’ usuale imbattersi in brani mistici che descrivono alte esperienze e sublimi rapimenti dopo la Comunione Eucaristica. Mi sembra opportuno citare almeno una tra le numerosissime testimonianze che descrivono il fiorire della vita mistica in seguito e in rapporto all’Eucarestia: la famosa Hadewijch di Anversa, indirizzando una lettera ad un’amica, scrive quanto segue:

“Quando il Figlio di Dio venne sull’altare (durante la consacrazione eucaristica), in quel momento io ricevetti un bacio da Lui e ne fui rapita; così mi fu rivelato quello che dirò. Essendo stata fatta una con Lui, giunsi con Lui presso il Padre. Là dove il Padre riceve in se stesso il Figlio ricevette anche me, in se stesso, con il Figlio. e in questa unità, in cui fui accolta e illuminata, compresi questa essenza in tutta chiarezza, come niente sulla terra si può conoscere né con la parola né con la ragione o con i sensi. Sembra un miracolo. Ma, anche se lo chiamo miracolo, so bene che non somiglia a un miracolo, perché la terra non può capire le cose del cielo. Perché per tutto quello che c’è sulla terra si possono trovare sufficienti espressioni linguistiche e parole olandesi, sebbene io capisca il senso nascosto del pensiero e possa esprimermi bene, come gli esseri umani sono in grado di fare. Tuttavia, quello che ti ho detto l’ho detto come se non esistesse la lingua olandese (per spiegarlo). Perché, per quel che io sappia, non c’è niente che gli corrisponda, né termini capaci di descrivere queste cose”.

Capitolo 17

“1. Ho parlato in termini ragionevoli di questo modo d’orazione e di ciò che deve fare l’anima o, per meglio dire, di ciò che Dio fa in lei quando si assume l’ufficio di giardiniere e vuole che ella si riposi. Solo la volontà consente in quelle grazie che gode, mettendosi a disposizione di ciò che in lei vuole operare la vera sapienza. Per questo bisogna avere animo forte, certo, perché tanto è il godimento che, sembra, alcune volte, non manchi molto all’anima per uscire da questo corpo. E che morte fortunata sarebbe!”

“2. Qui mi sembra che venga bene, come ho già detto alla Signoria vostra, abbandonarsi totalmente nelle braccia di Dio; se vuole portare (l’anima) in cielo, vada pure, se all’inferno, non se ne affligga, ma vada con il suo Bene; se vuol farla cessare di vivere, è proprio quello che desidera; se vuole che viva mille anni, va bene ugualmente; Sua Maestà ne disponga come di cosa propria, poiché l’anima non appartiene più a se stessa; è tutta data al Signore; non si preoccupi d’altro.

Dico dunque che, in così alta orazione come questa, quando Dio lo concede all’anima, questa può fare tutto ciò e anche più (essendo tali i suoi effetti e accorgendosi lei stessa che opera senza alcuna stanchezza dell’intelletto), solo mi sembra che rimanga come stupefatta di vedere il Signore fare così bene l’ortolano. Egli non vuole sottoporla ad alcuna fatica,, volendo unicamente che goda del profumo incipiente dei fiori. Con una sua visita, per poco che duri, essendo tale il giardiniere, cioè il Creatore dell’acqua, ne dà a dismisura; e quello che la povera anima non ha potuto fare, stancando in vent’anni l’intelletto, lo fa questo celeste giardiniere in un punto, facendo crescere i frutti e maturandoli, cosicché l’anima può sostentarsi con il ricavato del suo giardino, volendolo il Signore. Ma non le permette di ripartirne i frutti con altri fintanto che non si sia fortificata bene con ciò di cui si è nutrita, affinché non abbia a consumarsi tutto in assaggi senza che ella tragga alcun vantaggio né ricompensa da coloro che ne fa partecipi, con il pericolo, forse, di morire di fame per mantenere e far mangiare altri a sue spese”.

Qui trova conferma quanto leggevo recentemente in una rivista di Teologia circa “l’intelligenza spirituale”: per intelligenza, comunemente si intende la facoltà che, secondo una possibile etimologia fa “intus legere”, cioè leggere dentro le cose, i fatti, le persone. Altre volte per intelligenza intendiamo la “ratio”: l’intelligenza che ragiona, discute, si esercita, discorre, giunge a delle conclusioni. Si può dire che esista anche un’intelligenza artistica e così via. Si può aggiungere una ulteriore precisazione: la nostra intelligenza, comunque la si intenda, non può fare a meno di essere influenzata. La sfera affettiva influisce sull’intelligenza, ostacolandola o aiutandola (dice il proverbio: “passione acceca ragione”). Anche fattori fisici o fisiologici possono condizionare la nostra attività intellettiva: la febbre, i dolori, il freddo o il caldo eccessivo, ecc…

Ma qui noi vogliamo parlare soltanto dell’intelligenza “spirituale”,cioè di una intelligenza non applicata alle scienze o alle lettere o alla filosofia, e nemmeno alla teologia, ma di quella intelligenza che è coinvolta nell’esperienza spirituale; che non si muove solo in base al vigore naturale, ma che si affida alla luce e alla guida dello Spirito Santo, fino ad esserne sopraffatta. Questa precisazione non è nuova, anzi è molto antica, però oggi almeno, non è frequente. Questa intelligenza spirituale è messa in risalto da Santa Teresa in questo paragrafo quando dice: una sola visita del Signore produce una grande illuminazione… “e quello che la povera anima non ha potuto fare, stancando in vent’anni l’intelletto, lo fa questo celeste Giardiniere in un punto”.