7.1 Illuminazione e fuoco interiore

Iniziamo, considerando il PRIMO ELEMENTO. Per esso mi rifarò subito all’autorità di San Giovanni della Croce che, da vero maestro, asserisce: l’esperienza mistica è una “conoscenza amorosa” (“la contemplacion es ciencia de amor” “es notizia infusa de Dios amorosa”), infusa da Dio, che nello stesso tempo illumina l’anima e l’infiamma d’amore. (Cfr. Notte oscura, Libro II, cap. XVIII,5).
Dunque “luce” e “fuoco”; ecco i due simboli usati da tutti i mistici per richiamare alla mente la realtà prodotta subitaneamente dallo Spirito Santo.
Gli antichi inni latini della tradizione cristiana sono un’eco melodiosa di questa verità:

Veni, creator Spiritus…
Accende lumen sensibus,
infunde amorem cordibus…
ignis, caritas et spiritalis unctio.
Veni, sancte Spiritus…
Veni, lumen cordium…
Consolator optime,
Dulcis hospes animae,
Dulce refrigerium…
O lux beatissima,
reple cordis intima
tuorum fidelium.
Veni, sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium,
et tui amoris in eis ignem accende.
(Vieni, Santo Spirito, riempi il cuore dei tuoi fedeli
e accendi in essi il fuoco del tuo amore)

Le testimonianze più eloquenti dei primi secoli della storia della Chiesa parlano della vita cristiana come di una “vita nello Spirito di Dio”. Già San Paolo e, dopo di lui, San Luca negli Atti degli Apostoli e San Giovanni, si fanno paladini di una teologia fondata sul dono della grazia, della luce. L’ “uomo nuovo” è rigenerato e vivificato dallo Spirito in una illuminazione spesso ricevuta nell’immersione battesimale, al punto che questo Sacramento, come attesta San Giustino († 165 d.C.), anticamente si chiamava proprio “illuminazione”. Già la Lettera agli Ebrei testimonia questa connessione mistico-sacramentale: “Richiamate alla memoria i primi giorni, nei quali, dopo essere stati illuminati, avete sostenuto una lotta grande e penosa” (Eb. 10,32).
Nella sua prima “difesa” del cristianesimo l’antico Padre apologista afferma:

“Tale lavacro è denominato illuminazione, perché chi accoglie queste dottrine è illuminato nello spirito. Nel nome inoltre di Gesù Cristo… e dello Spirito Santo… riceve l’abluzione l’Illuminato” (GIUSTINO, I Apologia, cap.LVIII)

Anche Clemente Alessandrino (n. 150 – m. 214 ca.), parlando dei Sacramenti dell’iniziazione, connetteva il Battesimo all’ “illuminazione”.
“Quando siamo rigenerati dal Battesimo, riceviamo subito il dono perfetto, al quale aspiriamo, poiché siamo stati illuminati, abbiamo cioè ricevuto la conoscenza di Dio; non può essere imperfetto colui che ha conosciuto la perfezione. Battezzati, noi siamo illuminati; illuminati, noi siamo figli di Dio; come figli di Dio, noi riceviamo il dono perfetto, e ricevendo un dono perfetto noi possediamo l’immortalità.” (Pedagogo I, 6, 25-31)

All’udir queste parole è facile rammentare quelle di Gesù riportate dall’evangelista Giovanni, il quale afferma più volte che, conoscere, credere, aderire a Cristo significa ricevere già la “vita eterna”, termine tecnico del quarto Evangelo e del Corpus giovanneo, il cui significato non indica la morte del discepolo o la vita ultraterrena, ma l’esperienza, quaggiù, della “vita di Dio”. Prova ne è soprattutto il cap. 6 di S. Giovanni, là dove Gesù afferma: “Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in Lui abbia la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv. 6,40). Perché la teologia giovannea considera il Logos come la vita stessa, la luce di Dio, che si rivela, che si dona, grazie all’incarnazione del Figlio (cfr. il Prologo). La resurrezione finale invece è connessa all’escaton.

Cipriano di Cartagine († 258) rivolgeva a Donato le seguenti espressioni:
“Quando poi furono estinte, con l’acqua della rigenerazione, le macchie della vita passata, divenni trasformato e purificato… all’istante mi si diradarono i dubbi; in un modo meraviglioso mi si aprì quello che era nascosto, si dissiparono le tenebre…” (CIPRIANO, A Donato, 4). Aveva fatto irruzione la Luce.

Dice Sant’Ireneo (n. 150 ca. – m. tra il II e il III secolo) che il battezzato riceveva la luce perché aveva deciso di seguire la Luce:
“Seguire il Salvatore è partecipare alla salvezza e seguire la luce è ottenere la luce. Ora quelli che sono nella luce, non sono loro ad illuminare la luce, ma da essa sono illuminati; essi nulla danno a quella, ma ne ricevono il beneficio di essere illuminati.” (IRENEO DI LIONE, Adversus haereses)

E Origene (sec.III): “Se uno progredisce al punto di diventare figlio di Dio, così da camminare nel giorno in santità, da figlio del giorno e della luce, questi è illuminato da Cristo stesso, come il giorno dal sole.” (ORIGENE, Omelie sulla Genesi, I, 5)
“Quelli che sono ciechi seguano Cristo, dicendo ed esclamando: “Figlio di David, abbi pietà di noi”, affinché ricevendo da lui anche la vista, possano in seguito essere irraggiati dallo splendore della sua luce.” (ORIGENE, Omelie sulla Genesi, I, 7)

Lo stesso tema della luce infusa dall’alto trova riscontro nel platonismo e nel neoplatonismo, assumendo particolari sfumature nei vari filosofi.

Il medesimo registro sarà espresso diffusamente anche da Filone d’Alessandria (che influenzò i Padri della Chiesa molto più di quanto non si creda). In Ammonio Sacca, Plotino e Proclo, si riflette la concezione platonica dell’unione con la Bellezza, con il Bene, nella illuminazione dello spirito. Forse l’origine della mistica greca sta nel presocratico Parmenide, ma l’apice è raggiunto da Plotino (sec. III d.C.).
“Noi non sappiamo donde è nata la grande luce, se dall’esterno o dall’interno, e quando essa è sparita diciamo: essa era interiore, eppure non era interiore.
Non bisogna chiedere donde sia apparsa, perché qui non c’è nessun punto d’origine; essa non parte da un luogo per andare ad un altro, ma appare e non appare. Perciò non bisogna inseguirla, ma attendere tranquillamente finché non si riveli, come l’occhio attende lo spuntare del sole, il quale s’eleva all’orizzonte – dall’Oceano, sostengono i poeti – e si offre ai nostri sguardi per esser contemplato.”
(PLOTINO, Enneade V, 5,8)

E nella sesta enneade: “Qui l’uomo può vedere e Lui (l’Uno) e se stesso, finché è concesso vedere: vedere se stesso splendente, ripieno di luce intelligibile, o meglio, diventato luce pura, lieve, senza peso…” (PLOTINO, Enneade VI, 9,9).

Per San Giustino, che richiama certe immagini di chiara matrice platonica, Dio è l’unico bene.

Leggiamo nel cap. IV del Dialogo con Trifone:
“(Dio)…unico bene, si produce subitaneamente nelle anime ben disposte, in forza della loro affinità con esso e del desiderio di contemplarlo”.
“(I fedeli di Cristo) …illuminati… otterranno doni, ciascuno nella misura in cui è degno…”.
E quando si parla di luce è sottintesa l’esperienza del fuoco interiore.
Dirà Celso che il Primo Bene “nasce… come fiamma che balsa, come lume acceso nell’anima”; Plotino afferma che il nous deve soltanto attendere che avvenga quello che anche il filosofo greco chiama “miracolo della contemplazione”.

E l’illuminazione rende “sapienti”.

Sempre Giustino, nella sua opera, Dialogo con Trifone, si intrattiene in una discussione con un giudeo di Efeso. Non è certo che Trifone sia il celebre rabbino Tarfone (uno dei luminari del Giudaismo) nominato sovente nella Mishnà; comunque, nel capitolo VIII, il nostro autore, dopo aver ascoltato le esortazioni del vecchio, descrivendo la scena come fatto storico, scrive:
“Quanto a me, un fuoco divampò all’istante nel mio animo…
Ponderando tra me e me le sue parole trovai che questa era l’unica filosofia certa e proficua.”

Il Padre apologista tiene molto al titolo di “filosofo”, ma sappiamo, da lui stesso, che senso egli dia a tal titolo. Egli era “filosofo” dopo l’illuminazione e grazie ad essa; e, rivolgendosi ai giudei, rivolge loro la seguente esortazione:
“Affinché cessiate di ingannare voi stessi e coloro che vi ascoltano e vi lasciate istruire da noi, che la grazia di Dio ha reso sapienti”. (GIUSTINO, Dialogo con Trifone, cap. 32).

Concetto ribadito più e più volte dai Padri Alessandrini Clemente e Origene, creatori della spiritualità dotta del III secolo.

Anche il principe Siddhartha (sec. V a.C), dopo aver abbracciato la più aspra vita ascetica ed aver costruito un insieme di rinunce e di mute sofferenze che dovevano purificarlo e renderlo migliore, si convinse che la perfezione non era acquisibile. I digiuni e le dure penitenze gli si dimostrarono vane. Allora riprese a nutrirsi e a frequentare compagnie femminili, fino a scandalizzare i suoi cinque amici; finché un giorno, sedutosi ai piedi di un albero, nel giardino conosciuto come “Bodh Gaya”, ricevette, improvvisamente, l’illuminazione (yathabhuta), il risveglio (abhisammbodhi), e divenne il Buddha. Quella esperienza è riferita più volte nel Canone Pali (buddista) anche col nome di samadhi, che significa “estasi”, condizione di “profonda quiete interiore”.

Nella Vita del Buddha, Ananda K. Coomaraswami, con poche espressioni delinea l’evento: “…una grande pace scese su di lui. Così trascorsero il giorno e la notte, finché all’alba venne la conoscenza perfetta: Gautama divenne Buddha, l’illuminato”. (ANANDA K. COOMARASWAMI, Vita di Buddha, p. 15)

In lui si attuò quello che i Vedanta indicano come l’indicibile unificazione dello spirito dell’uomo (atman) con lo Spirito universale (brahman). E Siddhartha Gautama divenne uno dei migliori predicatori e maestri del suo tempo, ed ebbe subito un largo seguito di discepoli.

Esperienza condivisa da Lao-Tze (sec. VI/V a.C), Padre del Taoismo, mistico ispiratore del Tao Te Ching, uno dei testi classici della letteratura mondiale antica, purtroppo difficile da rendere comprensibile agli uomini del nostro tempo. Sembra proprio ineseguibile una traduzione letterale del messaggio originario. Il cinese antico si presenta come un idioma talmente lontano dal nostro pensiero capace di astrazioni da esigere una forma mentis particolare, legata ad una cultura e ad una grafia a noi estranee.

In un’ altra antica opera cinese, il Went-Tzu, ci sono stati trasmessi gli insegnamenti e gli ultimi detti di Lao-Tze. Il Maestro annuncia così la sua dottrina contemplativa (adotto l’unica traduzione italiana in commercio, curata da Claudio Lamparelli):
“La luce spirituale nasce dall’interiorità, e quando gli uomini sono interiori e raccolti, le loro facoltà interne si acquietano, i loro pensieri sono tranquilli, i loro occhi e le loro orecchie sono chiari, ed ossa e tendini sono forti. Diventano autorevoli, mai polemici, sono fermi e forti, mai stanchi; giusti in ogni cosa, mai inadeguati.” E ancora: “Come il sole risplende e riscalda, così il Tao produce vitalità nell’intimo, dove alloggia lo spirito, nella mente….”
“I veri uomini fondano la loro speranza sulla consapevolezza e fissano la loro dimora in ciò da cui hanno origine tutte le cose. Essi guardano nella tenebra profonda e ascoltano il silenzio, e nella tenebra trovano la luce. Nel silenzio più completo ricevono l’illuminazione.”

Nel VII/VI secolo, antecedente la nostra era, un altro grande personaggio, Zoroastro (o più esattamente Zarathustra), invitava gli uomini a diventare spiritualmente adulti, a disporsi a ricevere, con l’illuminazione, una vera e propria “resurrezione spirituale”. Il libro sacro del Mazdeismo zoroastriano è l’Avesta. Di esso possediamo solo una minima parte. Nella sua forma attuale il testo si compone di tre parti principali: lo Yasna (testo dottrinale e liturgico), lo Yasht (una raccolta di inni) e il Videvdat (con le indicazioni per la lotta contro i demoni).

La trasmissione orale e scritta dell’Avesta ha subito un forte deterioramento dopo la conquista araba e l’islamizzazione dell’Iran, fino al secolo scorso, quando si è avuto l’intervento dell’erudizione scientifica; essa ha cercato di sanare la corruzione dei testi attraverso un lento e difficile lavoro di recupero filologico.

Un gruppo di capitoli dello Yasna detti Gatha sono particolarmente importanti, non solo per la lingua, che è il dialetto iranico antico detto “gatico”, ma anche perché sembra che siano opera dello stesso Zarathustra. I Gatha presentano un monoteismo chiaro: Ahura Mazda è il solo e unico Dio, Creatore e Signore.

“Cerca di magnificarlo
con gli inni di devozione,
Lui che percepiamo nell’anima
come il Saggio Signore,
giacché Egli ha promesso,
con la Giustizia e il suo Buon Pensiero,
Integrità e Immortalità,
vigore e durata
nella sua casa!” (Yasna 45, 10)

“… in quanto Spirito Santo, Saggio Signore,
tu hai promesso al giusto il supremo bene” (Ys 47, 5)

“O Saggio Signore,
nelle vesti di questo Spirito Santo,
Tu compirai, con il fuoco,
con l’aiuto della devozione e della giustizia,
la ripartizione del bene…” (Ys 47, 6)

Ahura Mazda, Creatore e Signore di tutte le cose, e Rta, Principio organizzatore da lui generato (personificato, e identificato con la verità, nell’antico testo avestico), sono entrambi legati alla luce, alla bellezza, alla natura celeste diurna, che li rende oggetto della visione estatica, mistica.

IL CRISTIANESIMO

La Bibbia, i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, abbondano di testimonianze mistiche riguardanti l’illuminazione e l’esperienza del fuoco interiore.
Io da principio mi rivolgerò alla tradizione cristiana post-biblica, operando una dolorosa selezione in mezzo alla gigantesca mole di documenti che il passato ci ha generosamente concesso. Le “raccolte” di testi da cui attingerò saranno quelle di alcuni Padri della Chiesa, da Antonio Abate a Gregorio Magno. Nel sito “mistica.it” non mancheranno le trattazioni di esperienze d’altri testimoni e di altre epoche. Forse, al fondo delle questioni non arriverò, ma indicherò, attraverso semplici citazioni, il magistero concorde dei Maestri spirituali, facilitandone la comparazione e la giusta comprensione.
In questa carrellata di “pezzi classici” cercherò di rispettare la cronologia o almeno la provenienza storico-geografica di questi “amici di Dio”, ai quali tributo con infinita gratitudine il mio omaggio.

Nell’esposizione che seguirà vi prego di non dimenticare che i vocaboli “mistica” “mistico” così come noi comunemente li intendiamo, con tutto il corredo terminologico e le implicanze semantiche attinenti all’alta unione con Dio, cominciano ad essere utilizzati secondo questa moderna accezione solo dopo il XV secolo, dopo Gerson. Nei secoli precedenti l’esperienza mistica era detta “vita Dei contemplativa” o semplicemente “contemplatio”.

Il termine “mistico”, fino a tutto il ‘300, era sempre riferito ai cosiddetti “misteri della Chiesa”, ai Sacramenti.

ANTONIO ABATE (ca. 250- 356) fu il grande iniziatore e diffusore dell’eremitismo cristiano. La sua vita, scritta da Atanasio (suo devoto ammiratore) poco dopo la sua morte, è una vera e propria apologia del monachesimo, un invito all’esercitazione (aschesis), alla lotta contro i demoni, un’accusa delle antiche eresie, in particolare dell’Arianesimo. La ricostruzione dell’originale è ardua. La versione latina, fatta da Evagrio di Antiochia verso il 370, è molto libera. Tutte le copie greche e latine che possediamo sono contenute in manoscritti tardivi, addirittura posteriori al sec.X. Nella loro ricognizione si scopre che Atanasio non visse mai in intimità con Antonio. La sua testimonianza è quindi indiretta, ricevuta da un anacoreta amico di Antonio, come afferma autorevolmente J. Gribomont. Un lettore attento potrà facilmente scorgere tra le righe il chiaro riferimento ad una esperienza contemplativa elevatissima, mal resa purtroppo nella traduzione latina. La tradizione araba ci ha trasmesso anche venti lettere di Antonio Abate, dalle quali emerge, prorompente, un grande afflato mistico; la loro considerazione costituisce la confutazione più palese di quanto impropriamente afferma l’Altaner nelle poche righe dedicate al grande monaco egiziano nel suo testo di Patrologia. Il docente di Breslavia scrive infatti una scempiaggine: “Esse (le lettere di Antonio) ci attestano… un’ascetica solida e sana, esente da atteggiamenti mistici”. Come se la mistica fosse il frutto di un comportamento deviato, inconsistente e patologico! A noi basterà scorrere l’epistolario, sottolineando le caratteristiche che ci interessano, per provare, senza difficoltà, esattamente il contrario:

“Sappiate in cuor vostro che quanti per voi chiedono a Dio il fuoco che il Signore gettò sulla terra, lo getteranno nei vostri cuori…” (Lettera 3,4)

“Voi avete ottenuto la felice beatitudine in virtù della grazia che vi è toccata, ma è bene che non rinunciate a combattere per il Signore, che vi ha visitato dall’alto come sole che sorge…” (Lettera 6,1)

“Pregatelo con tutta la forza dell’intelletto che vi conceda la discesa dal cielo su di voi del fuoco immateriale… Se otterrete, figli miei, questi doni eccellenti, non crediate che provengano dalle vostre opere…” (Lettera 6,8)

“In verità, miei figli amati nel Signore, io prego notte e giorno il mio Creatore, nelle cui mani è il mio spirito, di illuminare gli occhi del vostro cuore…” (Lettera 6,12)

“Vostra madre Sara, che è lo Spirito, gioirà in voi…Poiché l’ho pregata per voi, ella desidera rendervi perfetti con quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto.” (Lettera 8,1)

“Dopo che vi ho scritto questa lettera, miei figli amati, lo Spirito di Dio si è mosso in me affinché vi scrivessi ancora fino a completare il discorso su questo Spirito di fuoco e sull’amore divino…” (Lettera 8,3)

“Sappiate, miei figli amati, che finché la luce e la forza di Dio permangono insieme all’uomo…” (Lettera 9,2)

“Molti della vostra condizione sono così perché non hanno ricevuto questa forza che reca soavità all’anima, riempiendola giorno dopo giorno di gioia e di letizia, e accendendovi l’ardore divino.” (Lettera 10,2)

“… Allora la potenza di Dio verrà a sostenervi e resterà in voi, infondendovi in ogni momento energia e ardore. Io prego che questo ardore rimanga sempre in voi, perché esso è autentico e non esiste cosa migliore.” (Lettera 10,4)

“… Agite anche voi in questa maniera, affinché siate uniti nella solerzia del cuore, nella luce e nell’ardore divini; e Dio vi riveli i suoi grandi e ineffabili misteri.” (Lettera 10,4)

“Amati nel Signore, ora che siete diventati per me come dei figli, ricercate notte e giorno, con lacrime abbondanti questa chiaroveggenza e questo discernimento, per ricevere il bene eterno del nostro Dio e affinché cresca il vostro splendore in ogni circostanza, e Dio vi conceda molte altre cose che non avete mai conosciuto.” (lettera 11, 2)

“Io prego notte e giorno che faccia scendere su di voi le benedizioni dei nostri padri insieme alla mia, misero come sono. Così, le forze spirituali dimoreranno in voi e potrete trascorrere il resto dei vostri giorni in piena letizia. Infatti, chiunque non perviene a questo livello non troverà la gioia dei cieli. Sappiate, miei figli amati, che i comandamenti non sono né un peso né una pena, ma luce autentica e letizia eterna…Tale è la preghiera a Dio per voi; che egli vi protegga dal male fino a quando abbiate raggiunto i luoghi della quiete e vi abbia donato la benedizione dei nostri padri. Infatti, quando saranno scese su di voi, queste benedizioni vi conferiranno una grazia ancor più grande.” (Lettera 14, 2)

“Quanto è accaduto ai santi di tali cose e di altre simili è stato scritto per la nostra istruzione, affinché rivaleggiassimo con quanti hanno amato quella solitudine, che ha la capacità di condurre al Signore. Essa infatti è una grande consolazione e rende l’uomo perfetto. A quanti l’hanno amata con tutto il cuore e con tutto il loro essere sono toccate in sorte gloria e luce più che a coloro che abitano le città e i villaggi. Sforzatevi dunque, miei figli amati nel Signore, di essere saldi nella solitudine, come conviene, affinché essa vi possa condurre alla visione di Dio, che è la contemplazione spirituale, per la grazia di nostro Signore, nostro Dio e nostro Salvatore Gesù Cristo.” ( Lettera 17, 11)

Di grande interesse, per la comprensione del valore della vita solitaria, è il saggio di P. I. Hausherr, Solitudine e vita contemplativa secondo l’Esicasmo.

“… Io non vi insegno questa cosa soltanto, ma anche ciò a cui somiglia l’anima abitata dal fuoco di Dio: essa è simile a un uccello con due ali che gli permettono di volare ed elevarsi nell’aria del cielo, poiché gli uccelli sono le sole tra tutte le creature a essere provviste di ali. Ora, le ali dell’anima che serve il Signore sono la potenza del fuoco di Dio grazie alla quale può volare fino nell’alto del cielo.” (Lettera 18,2)

Tre Padri della Chiesa sono detti “Cappadoci”: Basilio il Grande (329 ca. – 379), Gregorio di Nazianzo (330 ca. – ultimi decenni del sec.IV) e Gregorio di Nissa; io sono costretto ad eleggere il terzo a “modello”, sacrificando necessariamente i primi e le loro eccellenti testimonianze. Basilio è forse la personalità più interessante del mondo greco cristiano del IV secolo; un uomo di nobilissima umanità e di radicale evangelicità, Pastore di sconfinata carità e sommo contemplativo, tanto quanto l’amico Gregorio, Vescovo di Nazianzo. Non dimentichiamo che la Chiesa d’Oriente riserva il titolo di “Teologo” solo a quelli che essa ritiene essere eminenti contemplativi: Giovanni, il più mistico degli Evangelisti, Gregorio Nazianzeno, autore dei poemi contemplativi, e Simeone, detto “il Nuovo Teologo”.

Un buon numero di opere Basiliane, sono state tradotte magistralmente in italiano da Umberto Neri. Lo stesso grande autore, purtroppo recentemente scomparso, ha curato anche la traduzione nella nostra lingua delle Catechesi degli Inni e delle Preghiere di Simeone il Nuovo Teologo.

GREGORIO DI NISSA (335-394) è definito da Marcel Viller e Karl Rahner (con impeto eccessivo) “padre della mistica”. Verso il 387, pochi anni prima di morire, inizia a scrivere le sue due grandi opere spirituali: La vita di Mosè e, successivamente, Le omelie sul Cantico dei Cantici. Nella prima egli interpreta allegoricamente gli avvenimenti della vita di Mosè e sviluppa una profondissima trattazione dell’ascesa mistica dell’anima fino all’apice della contemplazione (theorìa = conoscenza, visione) di Dio. Nella stessa opera, al paragrafo 19 del secondo libro, alludendo al futuro Liberatore d’Israele, fa questa considerazione:

“E mentre attenderemo alle nostre faccende nella pace e nel riposo, la verità ci abbaglierà e illuminerà gli occhi della nostra anima coi suoi splendori. E questa verità, che allora si manifestò a Mosè in quella indicibile misteriosa illuminazione, è Dio.”

Il roveto ardente era divenuto per Mosé ciò che l’albero del bodhi fu per Gautama. I due “prescelti” avevano cercato, lontano dal tumulto della società chiassosa di allora, confusa e disorientata come quella di oggi, il silenzio, la solitudine, l’esychìa, nella quale fermarsi e ricevere il dono della contemplazione, istantaneamente, inaspettatamente.

Più avanti, al paragrafo 43, richiamando l’esperienza del Sinai, preciserà:

“Per colui che è stato sospeso al più alto grado della perfezione dell’anima, grazie alla lunga applicazione e all’illuminazione avuta sulla vetta, si verifica un incontro amicale e pacifico, perché il fratello è stato spinto da Dio ad andargli incontro”.

“Essere sospesi”, “innalzati” da Dio alla theorìa (tutti i verbi greci sono al participio passivo in questo brano) è l’insegnamento concorde dei mistici (ricordiamo il “non ci si eleva se Dio non ci eleva” di Santa Teresa d’Avila), ed ogni “venuta” del Signore è un “incontro”, “amicale e pacifico”, ribadisce Gregorio; ad esso non possiamo sottrarci.

Anche al paragrafo 89 si ritorna sull’illuminazione:

“Ma procediamo nel seguito del discorso, avendo ben compreso da quanto abbiamo già esaminato che sia Mosè sia chi sul suo modello è innalzato nella virtù dopo aver rafforzato l’anima con la prolungata applicazione a una vita celeste sulla montagna e per l’illuminazione sopraggiunta dall’alto, considerano loro danno non guidare i connazionali ad una vita libera.”

E’ precisamente questa infusione di grazia che rende i mistici di tutti i tempi “profeti”, “liberatori”, in qualche modo “salvatori” dell’umanità, perché investiti di una autorità e di una missione universale e impareggiabile.

AURELIO AGOSTINO (354-430) – L’esperienza mistica di Agostino è stata tratteggiata da Dom Cuthbert Butler nel suo Western Mysticism. The Teaching of Augustine, Gregory and Bernard on Contemplation and the Contemplative Life (la traduzione italiana purtroppo è assolutamente insoddisfacente). Essendo il corpus agostiniano tanto vasto da scoraggiare un’analisi particolareggiata e completa, sarò costretto a prendere in considerazione un piccolo numero di testimonianze, tratte da alcuni scritti.

Il grande Padre latino nel Contra Academicos, in riferimento alla lettura dei Neoplatonici, passa a ricordare la sua conversione al cristianesimo con la lettura di San Paolo, e scrive: “E poiché ancora non si era accesa la fiamma che mi avrebbe invaso col suo più vivo ardore, pensavo perfino che fosse la più viva quella che appena mi riscaldava. Ed eccoti che alcuni libri,… fecero cadere su quella fiamma pochissime gocce d’unguento prezioso. Ma accesero in me un incendio incredibile, incredibile più di quanto tu stesso possa di me supporre… Volsi gli occhi … di passaggio, lo confesso, a quella religione che ci fu inculcata fin dalla fanciullezza e quasi impressa nell’intimo. Essa mi attraeva senza che me ne avvedessi. Così fra perplessità, entusiasmi ed incertezze cominciavo a leggere l’apostolo Paolo… Me lo lessi tutto con grande attenzione e interesse. Al diffondersi di quella luce, per quanto fioca, mi si mostrò il volto del filosofare…” (II,2,5-6)

Al medesimo evento accenna narrando la sua rinascita spirituale nelle Confessioni: “Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nel mio intimo, e sotto la tua guida lo potei, perché divenisti mio soccorritore. Entrai e vidi con l’occhio della mia anima… sopra la mia intelligenza, una luce immutabile…” (VII, 10, 16)

Nel De beata vita Agostino sostiene che la beatitudine equivale al possesso di Dio; Egli si rivela come luce all’anima: “Questo sole nascosto infonde quella luce ai nostri occhi interiori (Hoc interioribus luminibus nostris iubar sol ille secretus infundit).” (4,35)

“Dio, padre della verità, padre della sapienza, padre della vera e somma vita, padre della beatitudine, padre del bene e del bello, padre della luce intelligibile, padre del nostro risveglio e della nostra illuminazione…” (Soliloquia I, 1,2).

Da qui è facile volare col pensiero al brano più conosciuto e citato del celebre Padre latino:

“Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti amai!
Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo.
Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature.
Eri con me, e io non ero con te.
Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te.
Mi chiamasti, e il tuo grido vinse la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità (splenduisti et fugasti caecitatem meam); diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo a te, gustai e ora ho fame e sete (di te); mi toccasti, e arsi del desiderio della tua pace”. (Confessioni, X, 27.38)

Dio è “Colui che illumina il cuore e squarcia le tenebre” (Cfr. Confessioni II, 8,16) è “luce che illumina l’anima” (Cfr. Confessioni, IV, 15,25) “nel suo intimo” (Crf. Confessioni VII, 10, 16. 17, 23; XIII, 8, 9) e senza il dono dell’illuminazione l’anima non può godere della verità:

“…ignoravo che un’altra luce doveva illuminarla, se voleva godere della verità…” (Confessioni IV, 15, 25)

Nel De quantitate animae Agostino afferma che risulta più facile apprendere qualcosa riguardo allo “spirito” “a coloro che con una buona cultura iniziano ad applicarsi a questi problemi, non per amore di vana gloria, ma infiammati di amore divino per la verità…” Così nel Libro VIII delle Confessioni, al cap 4 sembra quasi che invochi Dio sollecitandolo, quasi istigandolo ad operare questo miracolo: “Agisci, Signore, svegliaci e richiamaci, accendi e rapisci, ardi, sii dolce… Si avvicinano e sono illuminati da quella tua luce…” Dirà infatti nel De Magistro: “Dalla luce interiore della verità viene illuminato con godimento l’uomo che è considerato interiore” (12, 40)

Ma l’affermazione più volte ribadita è che Dio, e soltanto Lui, può “illuminare le anime e renderle sapienti e felici, donando loro se stesso in godimento” (De diversis quaestionibus 53, 2) (Cfr. Enchiridion 27, 103) (Cfr. De vera Religione 3, 3; 28, 51). L’illuminazione è sempre opera divina (Cfr De Consensu Evangelistarum III, 25, 86).

E, al momento dell’illuminazione, tra Dio e il nostro spirito, “non vi è interposta nessuna creatura” (De vera Religione 55,13); l’unione mistica è “sine medio” senza alcun intermediario, perché non viene da noi. Agostino lo spiega anche nel De gratia et libero arbitrio (19,40), contrapponendosi alla teoria dei Pelagiani, secondo i quali la carità viene invece da noi stessi. Molti insegnamenti su tale argomento possono attingersi nelle Enarrationes in Psalmos e nel De Civitate Dei, soprattutto andando al Libro XI di quest’ultima opera.

Per concludere la doverosa considerazione del “Doctor gratiae” latino, terminerò con una citazione tratta dal De Trinitate:

“La nostra illuminazione è una partecipazione del Verbo, cioè di quella vita che è la luce degli uomini (Gv.1,4). Ma noi eravamo veramente inadatti e ben poco idonei a tale partecipazione per la immondizia dei peccati. Dovevamo dunque essere purificati. Ora la sola purificazione dei peccatori e dei superbi è il sangue del Giusto, e l’umiltà di Dio; affinché, per poter contemplare Dio, che per natura noi non siamo, venissimo purificati da Dio stesso fattosi quello che per natura siamo e quello che per peccato non siamo. Infatti non siamo Dio per natura, siamo per natura uomini, non siamo giusti per il peccato. Dunque Dio, fattosi uomo giusto, ha propiziato Dio per l’uomo peccatore. Non c’è infatti rapporto tra peccatore e giusto, ma tra uomo e uomo. Dunque aggiungendo a noi la sua umanità, uguale alla nostra, ha sottratto a noi la dissomiglianza della nostra peccaminosità e, fattosi partecipe della nostra mortalità, ci ha fatto partecipi della sua divinità”. (IV, 2, 4).

CASSIANO (360/5-435), originario della Scizia (odierna Ucraina) appartenne ad una famiglia cristiana molto agiata. Ricevette una buona educazione e ben presto, con l’inseparabile amico Germano, andò a Betlemme, dove viveva San Girolamo, e abbracciò la vita religiosa; lui e Germano vagarono per l’Oriente, in varie località, dalla Siria all’Egitto (come già avevano fatto Basilio e Girolamo), in cerca di veri testimoni di Cristo da emulare.

Cassiano trovò e conobbe molti santi Padri, ed Evagrio (la cui influenza su di lui è assodata), da tali asceti apprese le norme della vita monastica e l’arte della preghiera.

Dopo aver trascorso un lungo periodo nel deserto egiziano si spostò a Costantinopoli, dove fu ordinato Diacono da San Giovanni Crisostomo; al tempo stesso Germano fu consacrato Presbitero. Dopo aver attinto per alcuni anni (si dice cinque) alla sapienza e all’eloquenza ispirata di Giovanni Crisostomo i due compagni furono costretti a lasciare l’Oriente e a dirigersi verso Roma.

Passati definitivamente in Occidente, durante il soggiorno nella città eterna, probabilmente Germano morì e l’amico, forse, fu ordinato sacerdote al suo posto; certamente, lì, Cassiano conobbe il futuro Papa Leone Magno, ancora molto giovane.

Dopo il 414 troviamo il nostro Maestro spirituale a Marsiglia. Nella Francia meridionale trascorse il resto della sua vita, tutto intento alla fondazione della celebre Abbazia di San Vittore. Come asserisce Umberto Neri nel suo studio intitolato Fondatori del Monachesimo, egli è uno dei promotori più geniali del monachesimo occidentale pur conservando le sue radici orientali.

A Marsiglia Cassiano si dedica alla redazione di due opere di grande valore storico-religioso: Le Institutiones cœnobitorum e le Collationes Patrum, quest’ultima può considerarsi senza dubbio il suo capolavoro, scritto tra il 420 e il 428; è una raccolta di “conferenze spirituali” volte all’edificazione di una nuova generazione di monaci. La grande diffusione dell’opera prova il notevole successo che essa ebbe nei secoli successivi, toccando l’apice della notorietà nel Medioevo; il testo esprime in modo affascinante il discorso sul monachesimo, particolarmente sulla vita ascetica (nelle Institutiones) e sulla vita contemplativa (nelle Collationes).

Già nel Prefazio lo stesso Cassiano invita il lettore alla comprensione della straordinarietà di vita dei grandi anacoreti e Padri del deserto: “Attorniati da una vastissima solitudine, separati dal consorzio umano, arricchiti per questo di illuminazioni soprannaturali, videro e dissero cose che potranno sembrare. impossibili a chi – per la sua vita mediocre – manca della loro scienza ed esperienza”.

Per lui la contemplazione corrisponde alla “carità perfetta”, alla “preghiera pura”, infusa dall’alto e da lui assimilata alla “purezza del cuore” (espressione ricorrente nelle Conferenze), realizzata dall’Amore puro, da Dio. Questo è il bene supremo della “theorìa” o “divina contemplazione”. L’autore lo spiega esaurientemente già nei primi capitoli dell’opera (cfr. Collationes VII, VIII, X, XIII, XV) e fa riferimenti espliciti alla illuminazione e al fuoco interiore:

“I nostri pensieri vengono da Dio quando Egli si degna visitarci con una illuminazione dello Spirito Santo e innalzarci a un più sublime modo di vita”. (Coll. XIX)

“Qualunque pensiero sia penetrato nel nostro cuore… dobbiamo domandarci se venga dal fuoco puro e purificante dello Spirito Santo…”. (Coll. XX)

“Il vecchio abate… riprese: la vostra attenzione, cari figlioli, mi ha spinto a parlarvi così a lungo; e sento che un fuoco misterioso dà alla mia conferenza un fervore insolito proprio a causa del vostro desiderio”. (Coll. I, 23)

“Le parole rivolte da Dio ad Abramo…:”Vieni nella terra che io ti mostrerò”. Si tratta di una terra – sembra dire il Signore – che tu, con tutti gli sforzi di cui sei capace, non potresti scoprire; sono io che te la mostro, anche quando tu non la cerchi, perché mi muovo a compassione della tua ignoranza. Questo dimostra che Dio, dopo averci chiamato con le sue ispirazioni ad intraprendere la via della salute, si fa nostra guida lungo il cammino e ci conduce, con la sua luce, fino al termine della suprema beatitudine”. (Coll. III, 10)

“Gli uomini spirituali, anche quando si tratta di apprendere la scienza della legge, non dicono di poterla acquistare con lo studio e la lettura, ma l’aspettano quotidianamente dal magistero e dall’illuminazione di Dio”. (Coll. III, 14)

“Quanto sia stolto e sacrilego attribuire a noi stessi, anziché all’aiuto della grazia, anche una parte minima dei nostri atti buoni, appare chiaro da una sentenza della divina Scrittura in cui è detto che senza l’ispirazione e la cooperazione della grazia nessuno può produrre frutti spirituali: <<Ogni dono ottimo, ogni grazia perfetta, viene dal cielo e scende dal Padre dei lumi>>” (Coll. III,17)

“Allora la grazia ci ispira, anche se siamo indegni, ci sveglia dal sonno, ci illumina nell’accecamento della nostra ignoranza, ci rimprovera e ci castiga con clemenza, si effonde nei nostri cuori, affinché, penetrati dalla compunzione, siamo sollecitati a svegliarci dal torpore della nostra inerzia. Spesso accade anche che in occasione di queste visite della grazia, ci sentiamo improvvisamente inondati da certi profumi che superano in soavità tutto ciò che l’arte umana può realizzare, cosicché l’anima nostra, sopraffatta da intenso piacere, è rapita e trasportata fuori di sé, dimenticando di dimorare nella carne”. (Coll. IV, 5)

Nella Conferenza IV Cassiano afferma di voler procedere nella trattazione dell’argomento, ma che il suo proposito concerne un discorso talmente elevato da esigere una ulteriore grazia: “Su questo punto, nonostante ciò che è stato detto…vorremmo essere illuminati maggiormente”. E pensare che proprio lui è stato da sempre tacciato di semipelagianesimo!