8.6.1 San Francesco di Sales

FRANCESCO DI SALES (1567-1622)

La personalità del Vescovo di Ginevra domina le prime due decadi del XVII secolo. Antonio Sicari scrive: “Parigi era divenuta la città laboratorio di un nuovo umanesimo cristiano. Personalità eccezionali, di alta levatura intellettuale e spirituale, si davano convegno nel salotto di una brillante dama di mondo, la bella Madame Acarie, che aveva una vita mistica intensa come quella di “una nuova Teresa d’Avila”. In quell’ambìto salotto si organizzava la rinascita religiosa della Francia e vi confluivano i movimenti religiosi più nuovi, provenienti dalla Spagna, dall’Italia e dalla Renania. Francesco lo frequentava quotidianamente. La questione più dibattuta era se bisognasse privilegiare la mistica nordica che insegnava l’unione con Dio al di là di ogni mediazione umana (anche al di là della stessa umanità di Cristo), oppure la nuova mistica spagnola testimoniata e vissuta dal Carmelo di Teresa d’Avila.

Dicono che, nelle accese discussioni fu Francesco di Sales col peso della sua dottrina e della sua personale esperienza, a far pendere la bilancia dalla parte carmelitana. Fu proprio in seno al ‘Circolo Acarie’ che si fece strada la decisione di introdurre in Francia il Carmelo riformato da Santa Teresa d’Avila (morta vent’anni prima)”; faticosa trattativa portata a termine nel 1604 insieme a Pierre de Berulle, per l’introduzione delle Carmelitane spagnole in Francia.

Padre Max Huot de Longchamp, grande conoscitore di San Francesco di Sales, ci dà delle indicazioni preziose e ci mette in guardia: la bibliografia su di lui è immensa, la sua vita difficile da sintetizzare. A noi basterà dire che fu il maggiore di dieci figli. Nacque nel 1567 a Thorens da una nobile famiglia savoiarda. La sua educazione di futuro gentiluomo la ricevette dapprima a La Roche e ad Annecy, quindi dai Gesuiti del Collegio di Clermont, a Parigi, che frequentò dal 1582 al 1588. Rimarrà sempre vicino alla Compagnia di Gesù, fino alla fine della sua vita. Dal 1588 al 1592 studiò Diritto a Padova, come è noto, con Guido Panciroli (1523-1599); aprì la sua anima al Gesuita Possevinus (1534-1611). Sicuramente a Padova incontrò il Teatino Lorenzo Scupoli (1530-1610) e scoprì il suo Combattimento spirituale, una sorta di Introduzione alla vita devota antelitteram, che diventerà immediatamente il suo libro di riferimento. Al suo ritorno in patria, malgrado le reticenze paterne, s’orienta verso il sacerdozio, che riceve nel 1593. Dopo aver portato avanti con successo la riconquista cattolica del Chablais, è nominato coadiutore del Vescovo di Ginevra nel 1599. Dopo la sua consacrazione, un soggiorno diplomatico a Parigi nel 1602 lo mette in contatto con la Corte di Francia e col Circolo di Madame Acarie. Consacrato Vescovo al suo ritorno, egli opera la restaurazione della sua Diocesi, dilaniata dalla penetrazione calvinista e ripiegata intorno ad Annecy, e spera inutilmente di riconquistare Ginevra alla Savoia e al cattolicesimo, prima che essa sia abbandonata nei primi giorni del suo episcopato.

Nel 1604, l’incontro con Jeanne de Chantal (1572-1641), colei che fonderà la Visitazione nel 1610. Di nuovo a Parigi nel 1618, incontra Vincenzo de Paoli, Richelieu e Angelique Arnaud che si affiderà alla sua direzione spirituale. Il santo Vescovo morirà a Lione il 28 dicembre 1622.

Chiunque voglia approfondire la testimonianza di vita cristiana di Francesco di Sales si trova di fronte alla massa considerevolissima delle sue opere, che equivalgono a tre volte il numero di pagine della Bibbia, senza considerare che si sono perduti i nove decimi della sua corrispondenza e la maggior parte dei suoi sermoni. Egli è davvero uno dei “giganti” della Spiritualità, che fa passare la devozione “dai chiostri” “nel mondo”. E’ vero che tanti altri avevano prima di lui tentato di farlo, ma solo lui ci è riuscito; di fatto, dopo di lui, il modo di vivere il cristianesimo cambia. Perciò è corretto affermare che egli sia da considerare il padre della Spiritualità moderna, perché coglie i particolari bisogni di un’epoca e indica una nuova strada maestra: la via del “santo abbandono”. Per lui la mistica coincide, s’identifica, con la perfezione evangelica, anche se si situa nel suo stato più passivo, nel “lasciarsi condurre dolcemente da Dio” e dal suo Spirito. L’ “amore puro” (cioè Dio) è il fine della vita. A Lui, all’ “unione con Lui”, ogni buon pastore deve saper condurre il proprio gregge.

Seguendo sempre la competenza di Padre Max de Longchamp cercheremo di entrare nel vivo di questa argomentazione e della pedagogia del Santo Dottore. Egli stesso dice: “Un vescovo deve occuparsi delle anime”, e occuparsi delle anime significa “insegnare loro l’orazione”; “questa è la priorità delle priorità nel ministero apostolico!”.

Un altro piccolo testo lo prendiamo dalla Prefazione alla “seconda edizione” della sua Introduzione alla vita devota. Francesco di Sales, in essa, spiega che questa sua opera è destinata all’educazione spirituale di Filotea (= dal greco – Amica di Dio), o, se preferite alla sua formazione alla devozione; il termine “devozione” all’epoca era sinonimo di “vita cristiana adulta”, e mancava della connotazione pietistica che ha rovinato la parola nell’ ‘800. In questa seconda edizione (pensate che se ne contano più di mille; questo libro resta un best-seller mondiale, e ciò è significativo, perché son questi i capolavori che il pubblico ancora attende) egli risponde a qualche critica mossa alla prima edizione; e la principale di queste critiche era che un vescovo non si doveva occupare della vita spirituale della gente.

Ecco la risposta di S. Francesco di Sales:

Quest’epoca è proprio bizzarra, e prevedo che molti diranno che spetta ai religiosi e alle persone molto devote fare da direttori d’anime nella via della pietà; diranno che esse richiedono maggiore disponibilità di tempo di quanta non ne possa avere un vescovo impegnato in una Diocesi difficile com’è la mia; aggiungeranno che questo mi distrarrebbe troppo dall’applicazione dell’intelletto, che va rivolto a cose importanti… Ma io, mio caro lettore, ti dico, col grande San Dionigi, che appartiene principalmente ai vescovi di perfezionare le anime… e il loro tempo non potrà essere speso meglio.

Gli antichi vescovi, i Padri della Chiesa, non erano attaccati a questo compito meno di noi, e non mancavano d’aver cura della condotta particolare delle numerose anime che ricorrevano alla loro assistenza…

E S. Francesco di Sales, prima di concludere, offre numerosi esempi tratti dalla storia antica, poi aggiunge“… a mio giudizio, mio caro lettore, mio caro amico, Dio vuole che io, essendo vescovo, semini nel cuore delle persone non soltanto le virtù comuni, ma anche la sua carissima e benamata devozione, o, se preferite, la perfetta unione con Dio come pienezza di vita cristiana”.

Ecco dunque lo scopo primario: indicare a tutti la via dell’unione con Dio.

Aggiungiamo un’antologia di testi che possono indicare il cammino verso la comprensione della mistica salesiana, in lingua originale.

1ere partie : Saint François de Sales et le salésianisme

1) portrait spirituel de saint François de Sales

Je ne voudrais ni faire le fol, ni faire le sage. Car si l’humilité m’empêche de faire le sage, la simplicité et rondeur m’empêcheront de faire le fol, et si la vanité est contraire à l’humilité, l’artifice, l’affèterie et feintise est contraire à la rondeur et simplicité. Que si quelques grands serviteurs de Dieu ont fait semblant d’être fols pour se rendre plus abjects devant le monde, il les faut admirer et non pas imiter ; car ils ont eu des motifs pour passer à cet excès qui leur ont été si particuliers et extraordinaires, que personne n’en doit tirer conséquence pour soi.

Introduction à la Vie dévote, III, 5 (III, p. 150)

Il n’y a point d’âme au monde, comme je pense, qui chérisse plus cordialement, tendrement et, pour le dire tout à la bonne foi, plus amoureusement que moi ; car il a plu à Dieu de faire mon cœur ainsi. Mais néanmoins, j’aime les âmes indépendantes, vigoureuses et qui ne sont pas femelles ; car cette si grande tendreté brouille le cœur, l’inquiète et le distrait de l’oraison amoureuse envers Dieu, empêche l’entière résignation et la parfaite mort de l’amour propre. Ce qui n’est point Dieu, n’est rien pour nous. Comment se peut-il faire que je sente ces choses, moi qui suis le plus affectif du monde, comme vous savez, ma très chère Mère ? En vérité, je les sens pourtant ; mais c’est merveille comme j’accommode tout cela ensemble, car il m’est avis que je n’aime rien du tout que Dieu et toutes les âmes pour Dieu. Hé, Dieu ! Seigneur, faites encore cette grâce à toute mon âme, que ce soit en vous seulement.

Ma très chère Mère, ce discours est infini. Vivez joyeuse, toute pleine de Dieu et de son saint amour.

Bonsoir, ma très chère Mère. Je sens cette unité que Dieu a faite, d’un extraordinaire sentiment.

François, Évêque de Genève.

À sainte Jeanne de Chantal, 1620 ou 1621 (XX, p. 216)

Plus je vais avant, plus je trouve le monde haïssable et les prétentions mondaines vaines, et ce qui est encore pis, plus injustes.

Je ne puis rien dire de mon âme, sinon qu’elle sent de plus en plus le désir très ardent de n’estimer rien que la dilection de Notre Seigneur crucifié, et que je me sens tellement invincible aux événements de ce monde, que rien ne me touche presque.

Ô ma Mère, Dieu comble de bénédictions votre cœur, que je chéris comme mon cœur propre. Je suis sans fin vôtre, en Celui qui sera par sa miséricorde, s’il lui plaît, sans fin tout nôtre.

À sainte Jeanne de Chantal, peu avant sa mort ( XX, p. 226)

J’ai reconnu clairement, par les paroles et actions de ce bienheureux, que son amour envers Dieu tenait une souveraine autorité et régence sur toutes ses passions et affections.… Parlant une fois à une personne qu’il aimait comme lui-même, de ce souverain amour qu’il portait à Dieu, il lui dit : “Si Dieu me commandait de vous sacrifier, comme il fit à Abraham son fils Isaac, je le ferais.” Et par son action il témoignait qu’il eût fait ce sacrifice avec un courage et un amour non pareils à la divine volonté.

… Une autre fois : “Quels sentiments, dit ce bienheureux, relevés, ardents et pressants, je ressens, toujours confirmé par ce divin amour ; et c’est la vérité que cet amour céleste et divin prédomine tellement sur ce cœur, que, nonobstant ses misères, il est tout dédié à sa divine majesté et ne regarde que sa gloire. … Si j’avais un seul filet d’affection qui ne fût pas à lui et de lui, ô Dieu ! je l’arracherais tout soudain.”

Déposition de sainte Jeanne de Chantal pour la canonisation de saint François de Sales

…Je sais bien que vous me direz volontiers : Et vous, comme vous êtes-vous comporté ? Oui, car vous désirez de savoir ce que je fais. Hélas, ma Fille, je suis tant homme que rien plus ! Mon cœur s’est attendri plus que je n’eusse jamais pensé ; mais la vérité est que le déplaisir de ma mère et le vôtre y ont beaucoup contribué, car j’ai eu peur de votre cœur et de celui de ma mère. Mais quant au reste, oh vive Jésus ! je tiendrai toujours le parti de la Providence divine : elle fait tout bien et dispose de toutes choses au mieux. Quel bonheur a cette fille d’avoir été ravie du monde, afin que la malice ne pervertît son esprit [cf. Sg 4, 11], et d’être sortie de ce lieu fangeux avant qu’elle s’y fût souillée ! On cueille les fraises et les cerises avant les poires bergamotes et les capendus ; mais c’est parce que leur saison le requiert. Laissons que Dieu recueille ce qu’il a planté en son verger ; il prend tout à saison.

Vous pouvez penser, ma chère Fille, combien j’aimais cordialement cette petite fille. Je l’avais engendrée à son Sauveur, car je l’avais baptisée de ma propre main, il y a environ quatorze ans ; ce fut la première créature sur laquelle j’exerçai mon ordre de sacerdoce. J’étais son père spirituel et me promettais bien d’en faire un jour quelque chose de bon ; et ce qui me la rendait fort chère (mais je dis la vérité), c’est qu’elle était vôtre. mais néanmoins, ma chère Fille, au milieu de mon cœur de chair, qui a eu tant de ressentiments de cette mort, j’aperçois fort sensiblement une certaine suavité, tranquillité et certain doux repos de mon esprit en la Providence divine, qui répand en mon âme un grand contentement en ses déplaisirs. Or bien, voilà mes mouvements représentés comme je puis…

Il ne faut pas seulement agréer que Dieu nous frappe, mais il faut acquiescer que ce soit sur l’endroit qu’il lui plaira ; il faut laisser le choix à Dieu, car il lui appartient… De dire à Dieu : Laissez ceci et prenez cela, ma chère Fille, il ne le faut pas dire…

Je vous vois, ce me semble, ma chère Fille, avec votre cœur vigoureux, qui aime et qui veut puissamment. Je lui en sais bon gré, car ces cœurs à demi morts, à quoi sont-ils bons ? Mais il faut que nous fassions un exercice particulier, toutes les semaines une fois, de vouloir et d’aimer la volonté de Dieu plus vigoureusement, je passe plus avant : plus tendrement, plus amoureusement que nulle chose du monde ; et cela, non seulement dans les occurrences supportables, mais dans les plus insupportables… Vous avez, ma Fille, quatre enfants ; vous avez un père, un beau-père, un si cher frère, et puis encore un père spirituel : tout cela vous est fort cher et avec mérite, car Dieu le veut. Et bien, si Dieu vous ravissait tout cela, n’aurez-vous pas encore assez d’avoir Dieu ? N’est-ce pas tout, à votre avis ? Quand nous n’aurions que Dieu, ne serait-ce pas beaucoup ? Hélas, le Fils de Dieu, mon cher Jésus, n’en eut presque pas tant sur la croix, lors qu’ayant tout quitté et laissé pour l’amour et obéissance de son Père, il fut comme quitté et laissé de lui ; et le torrent des passions emportant sa barque à la désolation, à peine sentait-il l’aiguille, qui non seulement regardait, mais était inséparablement unie à son Père. Oui, il était un avec son Père, mais la partie inférieure n’en savait ni apercevait rien du tout, ce que jamais la divine Bonté ne fit ni fera en aucune autre âme, car elle ne le pourrait supporter. Et bien, donc, ma Fille, si Dieu nous ôtait tout, il ne s’ôtera jamais à nous pendant que nous ne le voudrons pas. Mais il y a plus : c’est que toutes nos pertes et nos séparations ne sont que pour ce petit moment [cf. II Co 4, 17]. Oh ! vraiment, pour si peu que cela, il faut avoir patience. Je m’épanche, ce me semble, un peu trop ; mais quoi ? Je suis mon cœur, qui ne pense jamais trop dire avec cette si chère Fille…

À sainte Jeanne de Chantal, 2 novembre 1607 ( XIII, pp. 328ss)

2) La clef de la spiritualité de saint François de Sales: la crise de 1586

En voici un précieux témoignage que j’ai appris de la bouche même de ce Bienheureux, qui me le découvrit une fois, par rencontre, pour le soulagement de mon âme. Pendant qu’il faisait ses études en cette ville de Paris, il fut saisi d’une furieuse tentation contre I’espérance de son salut, qui le poussait à croire qu’il était du nombre des réprouvés et de ceux qui n’auraient point de part à la gloire éternelle. Cette violente imagination, qui ne lui donnait aucune relâche, et l’horreur qu’il avait, plus de devoir être éternellement ennemi de Dieu que des tourments de l’enfer, altérèrent tellement son intérieur, qu’il en pensa tomber malade, car plus il se raidissait contre cette tentation et tâchait de s’attacher à la miséricorde divine, plus cette imagination entrait avant dedans son âme. Enfin, ayant été quelque temps dans ce furieux combat, un jour que cette importune pensée le pressait plus que de coutume, comme il était fort dévot à la sainte Vierge à laquelle il avait une particulière confiance, il s’en alla à l’église des Pères de saint Dominique, en la chapelle de la Vierge, et là, humblement prosterné devant son image, il ouvrit son cœur en la présence de Dieu, et, renonçant à tout ce qui concernait son intérêt particulier, il résigna, purement et simplement, entièrement son âme et ses intentions entre les mains de la divine Providence, sans se plus vouloir mettre en peine de son propre salut, se résolvant et protestant de vouloir désormais se comporter au service de Dieu et à la vertu avec autant d’affection, comme s’il eût eu des assurances infaillibles de devoir être sauvé, et que si Dieu devait être plus honoré en sa condamnation qu’en son salut, il aimait mieux être dans l’enfer pour l’accomplissement de la volonté divine que parmi les élus à l’encontre de l’accomplissement de ses décrets éternels. Et sur cette pensée, il prit une tablette, qui était près des balustres de la chapelle, sur laquelle il y avait une petite oraison à la sainte Vierge qu’il lut dévotement, et il se sentit, tout en un moment, apaisé en son cœur et affranchi d’une si cruelle et fâcheuse tentation qu’il ne ressentit jamais plus.

Jeanne de Creil, veuve Amelot, Ier Procès, art. 39

Moi, misérable, hélas ! Serai-je donc privé de la grâce de Celui qui m’a fait goûter si suavement ses douceurs, et qui s’est montré à moi si aimable ? Ô Amour ! Ô Charité ! Ô Beauté à laquelle j’ai voué toutes mes affections, hé, je ne jouirai donc plus de vos délices et je ne serai plus enivré de l’abondance de votre maison, et vous ne m’abreuverai plus du torrent de votre volupté ? Ô les bien-aimés tabernacles du Dieu des vertus, hé donc, je ne passerai jamais au lieu de ce tabernacle admirable, jusques en la maison de Dieu ?

Ô Vierge, agréable entre les filles de Jérusalem, des délices de laquelle l’enfer ne peut être réjoui, hé, je ne vous verrai donc jamais au royaume de votre Fils, belle comme la lune et élue comme le soleil ?

Et jamais donc je ne serai fait participant de cet immense bénéfice de la Rédemption ? Et mon doux Jésus n’est-il pas mort aussi bien pour moi que pour les autres ? Ah! Quoi qu’il en soit, Seigneur, pour le moins que je vous aime en cette vie, si je ne puis vous aimer en l’éternelle, puisque personne ne vous loue en enfer.

Recueilli par Charles-Auguste de Sales (XXII, pp. 18-19)

Quoi qu’il arrive, Seigneur, vous qui tenez tout dans votre main, et dont toutes les voies sont justice et vérité ; quoi que vous ayez arrêté à mon égard au sujet de cet éternel secret de prédestination et de réprobation ; vous dont les jugements sont un profond abîme, vous qui êtes toujours juste Juge et Père miséricordieux, je vous aimerai, Seigneur, au moins en cette vie, s’il ne m’est pas donné de vous aimer dans la vie éternelle ; au moins je vous aimerai ici, ô mon Dieu, et j’espérerai en votre miséricorde, et toujours je répéterai toute votre louange, malgré tout ce que l’ange de Satan ne cesse de m’inspirer là-contre. Ô Seigneur Jésus, vous serez toujours mon espérance et mon salut dans la terre des vivants. Si, parce que je le mérite nécessairement, je dois être maudit parmi les maudits qui ne verront pas votre très doux visage, accordez-moi au moins de n’être pas de ceux qui maudiront votre saint nom.

Recueilli par le P. de Quoex (XXII, pp. 19-20)

3) La question insoluble du salésianisme: peut-on se sauver hors du cloitre?

La vraie et vivante dévotion, ô Philothée, présuppose l’amour de Dieu, mais elle n’est autre chose qu’un vrai amour de Dieu ; mais non pas toutefois un amour tel quel : car, en tant que l’amour divin embellit notre âme, il s’appelle grâce, nous rendant agréables à sa divine Majesté ; en tant qu’il nous donne la force de bien faire, il s’appelle charité ; mais quand il est parvenu jusques au degré de perfection auquel il ne nous fait pas seulement bien faire, mais nous fait opérer soigneusement, fréquemment et promptement, alors il s’appelle dévotion. Les autruches ne volent jamais ; les poules volent, pesamment toutefois, bassement et rarement ; mais les aigles, les colombes et les hirondelles volent souvent, vitement et hautement. Ainsi les pécheurs ne volent point en Dieu, mais font toutes leurs courses en la terre et pour la terre ; les gens de bien qui n’ont pas encore atteint la dévotion volent en Dieu par leurs bonnes actions, mais rarement, lentement et pesamment ; les personnes dévotes volent en Dieu fréquemment, promptement et hautement. Bref, la dévotion n’est autre chose qu’une agilité et vivacité spirituelle par le moyen de laquelle la charité fait ses actions en nous, ou nous par elle, promptement et affectionnément ; et comme il appartient à la charité de nous faire généralement et universellement pratiquer tous les commandements de Dieu, il appartient aussi à la dévotion de les nous faire faire promptement et diligemment. C’est pourquoi celui qui n’observe tous les commandements de Dieu ne peut être estimé ni bon ni dévot, puisque pour être bon il faut avoir la charité, et pour être dévot, il faut avoir, outre la charité, une grande vivacité et promptitude aux actions charitables.

Et d’autant que la dévotion gît en certain degré d’excellente charité, non seulement elle nous rend prompts et actifs et diligents à l’observation de tous les commandements de Dieu ; mais outre cela, elle nous provoque à faire promptement et affectionnément le plus de bonnes œuvres que nous pouvons, encore qu’elles ne soient aucunement commandées, mais seulement conseillées ou inspirées. Car tout ainsi qu’un homme qui est nouvellement guéri de quelque maladie chemine autant qu’il lui est nécessaire, mais lentement et pesamment, de même le pécheur étant guéri de son iniquité, il chemine autant que Dieu lui commande, pesamment néanmoins et lentement jusques à tant qu’il ait atteint à la dévotion ; car alors, comme un homme bien sain, non seulement il chemine, mais il court et saute en la voie des commandements de Dieu, et, de plus, il passe et court dans les sentiers des conseils et inspirations célestes. Enfin, la charité et la dévotion ne sont non plus différentes l’une de l’autre que la flamme l’est du feu, d’autant que la charité étant un feu spirituel, quand elle est fort enflammée, elle s’appelle dévotion : si que la dévotion n’ajoute rien au feu de la charité, sinon la flamme qui rend la charité prompte, active et diligente, non seulement à l’observation des commandements de Dieu, mais à l’exercice des conseils et inspirations célestes.

………

Le monde diffame tant qu’il peut la sainte dévotion, dépeignant les personnes dévotes avec un visage fâcheux, triste et chagrin, et publiant que la dévotion donne des humeurs mélancoliques et insupportables.… Le Saint-Esprit, par la bouche de tous les saints, et Notre Seigneur par la sienne même nous assure que la vie dévote est une vie douce, heureuse et amiable.

Le monde voit que les dévots jeûnent, prient et souffrent les injures, servent les malades, donnent aux pauvres, veillent, contraignent leur colère, suffoquent et étouffent leurs passions, se privent des plaisirs sensuels et font telles et autres sortes d’actions, lesquelles en elles-mêmes et de leur propre substance et qualité sont âpres et rigoureuses ; mais le monde ne voit pas la dévotion intérieure et cordiale, laquelle rend toutes ces actons agréables, douces et faciles.

………

Dieu commanda en la création aux plantes de porter leurs fruits, chacune selon son genre : ainsi commande-t-il aux chrétiens, qui sont les plantes vivantes de son Église, qu’ils produisent des fruits de dévotion, un chacun selon sa qualité et vocation. La dévotion doit être différemment exercée par le gentilhomme, par l’artisan, par le valet, par le prince, par la veuve, par la fille, par la mariée ; et non seulement cela, mais il faut accommoder la pratique de la dévotion aux forces, aux affaires et aux devoirs de chaque particulier.

… La dévotion ne gâte rien quand elle est vraie, mais elle perfectionne tout, et lorsqu’elle se rend contraire à la légitime vocation de quelqu’un, elle est sans doute fausse.

… C’est une erreur, et même une hérésie, de vouloir bannir la vie dévote de la compagnie des soldats, de la boutique des artisans, de la cour des princes, du ménage des gens mariés. Il est vrai, Philothée, que la dévotion purement contemplative, monastique et religieuse ne peut être exercée en ces vocations-là ; mais aussi, outre ces trois sortes de dévotion, il y en a plusieurs autres, propres à perfectionner ceux qui vivent en états séculiers.… Où que nous soyons, nous pouvons et devons aspirer à la vie parfaite.

Introduction à la Vie dévote, I, 3 (III, pp. 14-21)

Les vocations sont multiples, et tous les états de vie sont compatibles avec la sainteté:

Dieu a été si bon en notre endroit, qu’il a institué des sacrements en son Église pour toutes sortes de vocations, et sa Providence a voulu qu’en toutes les conditions il y eut des saints : des rois, des empereurs, des princes, des prélats, des mariés, des veuves, des clercs, des religieux. Tous se peuvent sauver en observant les commandements ;

et pourtant, bien peu seront saints :

… et pourtant, il y en a si peu dans le christianisme qui s’adonnent à la véritable vertu ! Grâce à Dieu, il y a partout des chrétiens : en France, en Europe, en Asie, en Afrique, enfin dans tous les pays du monde ; mais le malheur est qu’il y en a si peu qui fassent profession de vrais chrétiens, que c’est grande pitié. Ils pensent faire beaucoup quand ils se gardent des gros péchés, comme de dérober, de tuer et choses semblables ; et on dit : c’est un homme de bien. Néanmoins, ils ne se soucient point des conseils que Notre-Seigneur donne, lesquels sont : Qui veut venir après moi, qu’il renonce à soi-même, prenne sa croix et me suive, et tant d’autres beaux enseignements qui nous peuvent faire arriver à la perfection.

Le salut est plus facile en religion que dans le monde :

Mes chères filles, vous avez mieux fait que tous ceux-là, car encore qu’ils se puissent sauver chacun selon sa vocation, bien qu’avec grande peine, ils sont si enfoncés dans la terre, dans les richesses, dans les vanités, que malaisément ils s’acquittent de leurs devoirs envers Dieu ; bienheureux néanmoins sont-ils si parmi tant d’empêchements, ils suivent Notre-Seigneur selon leur capacité!

Sermon du 21 mars 1621 (X, pp. 36-37)

car il y a une hiérarchie dans les vocations, même si toutes sont saintes :

… Il y a plusieurs sacrements en la sainte Église pour acheminer un chacun à la perfection : le sacrement du baptême pour nous laver et purger de tous nos péchés, celui de confirmation pour nous fortifier, et ainsi des autres ; celui de l’ordre pour nous enseigner et celui du mariage pour multiplier les fidèles. Mais il y a une autre sorte de vie plus parfaite que tout cela, laquelle est une école de la perfection, où l’on est plus totalement et plus facilement à Notre-Seigneur : c’est la vie monastique et religieuse que vous avez choisie afin de vous rendre plus agréables à sa divine Majesté, car il ne faut point avoir d’autre prétention. Vous serez bienheureuses si vous y persévérez et si vous tenez toutes choses pour un vrai néant ; et vous souvenez que ce que vous avez quitté n’est rien au prix de ce que vous possédez.

(Idem, p. 39)

4) L’attitude salésienne fondamentale: l’abandon

a) Qu’est-ce que l’abandon?

Abandonner notre âme et nous laisser nous-mêmes n’est autre chose que nous défaire de notre propre volonté pour la donner à Dieu, car il ne nous servirait de guère de nous renoncer et délaisser nous-mêmes, si ce n’était pour nous unir parfaitement à la divine Bonté. Ce n’est donc que pour cela qu’il faut faire cet abandonnement, lequel autrement serait inutile et ressemblerait à ceux des anciens philosophes. Nous autres, nous ne voulons pas nous abandonner sinon pour nous laisser à la merci de la volonté de Dieu…

Il y a beaucoup de gens qui disent à Notre Seigneur : « Je me donne tout à vous sans aucune réserve » ; mais il y en a fort peu qui embrassent la pratique de cet abandonnement, lequel n’est autre chose qu’une parfaite indifférence à recevoir toute sorte d’événements, selon qu’ils arrivent par l’ordre de la providence de Dieu, aussi bien l’affliction comme la consolation, la maladie comme la santé, la pauvreté comme les richesses, le mépris comme l’honneur, et l’opprobre comme la gloire. Ce que j’entends, selon la partie supérieure de notre âme, car il n’y a point de doute que l’inférieure et l’inclination naturelle tiendra plutôt du côté de l’honneur que du mépris, des richesses que de la pauvreté…

Je ne sais pas si l’année qui vient, tous les fruits de la terre seront tempêtés : s’il arrive qu’ils le soient, ou qu’il y ait de la peste, ou autres tels événements, il est tout évident que c’est le bon plaisir de Dieu, et partant je m’y conforme.

Il arrivera que vous n’aurez pas de la consolation en vos exercices : il est certain que c’est le bon plaisir de Dieu, c’est pourquoi il faut demeurer avec une extrême indifférence entre la désolation et la consolation ; de même en faut-il faire en toutes les choses qui nous arrivent, pour les habits qui nous sont données, les viandes qui nous sont présentées.

…Si je tombe malade d’une grosse fièvre, je vois en cet événement que le bon plaisir de Dieu est que je demeure en indifférence de la santé ou de la maladie ; mais la volonté de Dieu est [aussi] que j’appelle le médecin et que j’applique tous les remèdes que je puis (je ne dis pas les plus exquis, mais les communs et ordinaires)…Cela fait, que la maladie surmonte le remède, ou le remède surmonte le mal ; il en faut être en parfaite indifférence, en telle sorte que si la maladie et la santé étaient là devant nous et que Notre Seigneur nous dît : Si tu choisis la santé, je ne t’en ôterai pas un grain de ma grâce, si tu choisis la maladie, je ne te l’augmenterai pas aussi de rien, mais au choix de la maladie il y a un peu plus de mon bon plaisir ; alors l’âme qui s’est entièrement délaissée et abandonnée entre les mains de Notre Seigneur choisira sans doute la maladie, pour cela seulement qu’il y a un peu plus du bon plaisir de Dieu ; oui même quand ce serait pour demeurer toute sa vie dans un lit, sans faire autre chose que souffrir, elle ne voudrait pour rien du monde désirer un autre état que celui-là. Ainsi les saints qui sont au Ciel ont une telle union avec la volonté de Dieu, que s’il y avait un peu plus de son bon plaisir en enfer, ils quitteraient le Paradis pour y aller.

Cet état du délaissement de soi-même comprend aussi l’abandonnement au bon plaisir de Dieu en toutes tentations, aridités, sécheresses, aversions et répugnances qui arrivent en la vie spirituelle ; car en toutes ces choses l’on y voit le bon plaisir de Dieu, quant elles n’arrivent pas par notre défaut et qu’il n’y a pas du péché.

… Cette âme ne fait rien sinon demeurer auprès de Notre Seigneur, sans avoir souci d’aucune chose, non pas même de son corps ni de son âme ; car puisqu’elle s’est embarquée sous la providence de Dieu, qu’a-t-elle à faire de penser ce qu’elle deviendra ? Notre Seigneur, auquel elle est toute délaissée, y pensera assez pour elle.… Il est bien vrai qu’il faut avoir une grande confiance pour s’abandonner ainsi sans aucune réserve à la Providence divine ; mais aussi, quand nous abandonnons tout, Notre Seigneur prend soin de tout et conduit tout.

Vrais entretiens spirituels, De la Confiance (VI, pp. 22-28)

b) De la résignation à la sainte indifférence

La résignation préfère la volonté de Dieu à toutes choses, mais elle ne laisse pas d’aimer beaucoup d’autres choses outre la volonté de Dieu. Or l’indifférence est au-dessus de la résignation, car elle n’aime rien sinon pour l’amour de la volonté de Dieu ; si bien qu’aucune chose ne touche le cœur indifférent en la présence de la volonté de Dieu.

… Le cœur indifférent, sachant que la tribulation, quoi qu’elle soit laide, comme une autre Lia [allusion à la fille de Laban épousée par Jacob, à la place de la belle Rachel], ne laisse pas d’être fille, et fille bien-aimée du bon plaisir divin, il l’aime autant que la consolation, laquelle néanmoins en elle-même est plus agréable ; il aime même encore plus la tribulation, parce qu’il ne voit rien d’aimable en elle que la marque de la volonté de Dieu.

Traité de l’Amour de Dieu, IX, 4 (IV, pp. 119-120)

Ne prévenez point les accidents de cette vie par appréhension, mais prévenez les par une parfaite espérance qu’à mesure qu’ils arriveront, Dieu, à qui vous êtes, vous en délivrera. Il vous a gardée jusqu’à présent ; tenez-vous seulement bien à la main de sa Providence, et il vous assistera en toutes occasions, et où vous ne pourrez pas marcher, il vous portera. Que devez-vous craindre, ma très chère Fille, étant à Dieu qui nous a si fortement assurés qu’à ceux qui l’aiment tout revient à bonheur ? ( Ro 8, 28) Ne pensez point à ce qui arrivera demain, car le même Père éternel qui a soin aujourd’hui de vous, en aura soin et demain et toujours : ou il ne vous donnera point de mal, ou s’il vous en donne, il vous donnera un courage invincible pour le supporter.

À Madame de Veyssilieu, 16 janvier 1619 (XVIII, p. 344)

c) De la sainte indifférence à l’amour de la croix

La croix est de Dieu, mais elle est croix parce que nous ne nous joignons pas à elle ; car, quand on est fortement résolu de vouloir la croix que Dieu nous donne, ce n’est plus croix. Elle n’est croix que parce que nous ne la voulons pas ; et si elle est de Dieu, pourquoi donc ne la voulons-nous pas?

À sainte Jeanne de Chantal, vers 1613 ( XXI, p. 163)

d) Le chemin vers l’abandon: «tout faire par amour, et rien par force»

Voici la règle générale de notre obéissance écrite en grosses lettres : IL FAUT TOUT FAIRE PAR AMOUR ET RIEN PAR FORCE ; IL FAUT PLUS AIMER L’OBÉISSANCE QUE CRAINDRE LA DÉSOBÉISSANCE. Je vous laisse l’esprit de liberté, non pas celui qui exclut l’obéissance, car c’est la liberté de la chair ; mais celui qui exclut la contrainte et le scrupule ou empressement.

À sainte Jeanne de Chantal, 14 octobre 1604 (XII, 359)

e) La sainteté est de vouloir ce que Dieu veut:

Il ne faut pas juger des choses selon notre goût, mais selon celui de Dieu. C’est le grand mot : si nous sommes saints selon notre volonté, nous ne le serons jamais bien ; il faut que nous le soyons selon la volonté de Dieu. … Je vous dis encore une fois qu’il ne faut point regarder à la condition extérieure des actions, mais à l’intérieure, c’est-à-dire si Dieu le veut ou ne le veut point.

À la Présidente Brûlart, septembre 1606 (XIII, p. 214)

f) La vraie valeur de nos actions est dans l’amour de Dieu qu’elles expriment:

Vous demandez si on ne peut pas désirer des charges basses, parce qu’elles sont pénibles, et il semble qu’il y ait là plus à faire pour Dieu et plus de mérite que de demeurer en sa cellule.

Je n’aime point cela de vouloir toujours regarder au mérite, car les Filles de Sainte Marie ne doivent faire leurs actions que pour la plus grande gloire de Dieu. Si nous pouvions servir Dieu sans mériter, ce qui ne se peut, nous devrions désirer de le faire.

Ce n’est pas par la grandeur de nos actions que nous plaisons à Dieu, mais par l’amour avec lequel nous les faisons ; car une Sœur qui sera en sa cellule, ne faisant qu’un petit ouvrage, méritera plus qu’une autre qui aura bien de la peine, si elle le fait avec moins d’amour. C’est l’amour qui donne la perfection et le prix à nos œuvres.

Je vous dis bien plus : voilà une personne qui souffre le martyre pour Dieu avec une once d’amour, elle mérite beaucoup, car on ne saurait donner davantage que sa vie ; mais une autre personne qui ne souffrira qu’une chiquenaude avec deux onces d’amour aura beaucoup plus de mérite, parce que c’est la charité et l’amour qui donne le prix à tout.

Vous savez que la contemplation est meilleure que l’action et la vie active ; mais si en la vie active il s’y trouve plus d’union, elle est meilleure. Que si une Sœur étant en la cuisine, tenant la poêle sur le feu, a plus d’amour et de charité que l’autre, le feu matériel ne le lui ôtera point, au contraire, il lui aidera à être plus agréable à Dieu. Il arrive assez souvent qu’on est aussi uni à Dieu par l’action que dans la solitude ; mais enfin, je reviens toujours : où il y a plus d’amour, il y a plus de perfection.

Vrais entretiens spirituels, 26 décembre 1622 (VI, pp. 428-429)

5) La sainteté salésienne: “Ne rien demander, ne rien refuser!”

a) «L’obéissance vaut mieux que les sacrifices»:

Pour parvenir à la perfection, il faut vouloir peu et ne demander rien. Il est vrai que c’est être bien pauvre que d’observer ceci ! Mais je vous assure que c’est un grand secret pour acquérir la perfection, et si caché néanmoins qu’il y a peu de personnes qui le sachent, ou s’ils le savent, qui en fassent leur profit. … Il y en a qui demandent des croix, et ne leur semble jamais que Notre Seigneur leur en donnera assez pour satisfaire à leur ferveur ; moi, je n’en demande point, seulement je désire de me tenir prête pour porter celles qu’il plaira à sa Bonté de m’envoyer, le plus patiemment et humblement que je pourrai. J’en ferais de même si j’étais en religion : je ne demanderai du tout rien, sinon que je fusse malade, car il faut que les malades demandent confidemment leurs petites nécessités. Je ne demanderais pas même de communier, excepté en certains jours que la coutume semble nous obliger de le demander… Non certes, ma chère fille, je ne demanderais point des mortifications ; je me tiendrais prête pour bien recevoir celles que vous me feriez, mais je n’en demanderais point. Je m’amuserais à aller simplement toujours avant en mon chemin, sans m’amuser à désirer aucune chose.

… Enfin, j’aimerais mieux porter une petite croix de paille que l’on me mettrait sur les épaules sans mon choix, que non pas d’en aller couper une bien grande dans un bois avec beaucoup de travail, et la porter par après avec une grande peine ; et je croirais, comme il serait véritable, être plus agréable à Dieu avec la croix de paille que non pas avec celle que je me serais fabriquée avec plus de peine et de sueur, parce que je la porterais avec plus de satisfaction pour l’amour propre qui se plaît tant à ses inventions et si peu à se laisser conduire et gouverner en simplicité, qui est ce que je vous désire le plus. Faire tout simplement tout ce qui nous est commandé, ou par les règles, ou par les constitutions, ou bien par nos supérieurs, et puis nous tenir en repos pour tout le reste, tant près de Dieu que nous pourrons.

Vrais entretiens spirituels, Sur la Tendreté (VI, pp. 447-448)

b) Pas d’excès de zèle !

Je dis donc qu’il ne faut rien demander ni rien refuser, mais se laisser entre les bras de la Providence divine, sans s’amuser à aucun désir, sinon à vouloir ce que Dieu veut de nous…

Vous me dites : ne pourrait-on pas désirer les charges basses parce qu’elles sont plus pénibles et qu’il y a plus à faire et à s’humilier pour Dieu ? Ma fille, David disait qu’il aimait mieux être abject en la maison du Seigneur, que d’être grand parmi les pécheurs (Ps 83) ; et : « Il est bon, Seigneur, que vous m’ayez humilié, à fin d’apprendre vos justifications. » (Ps 118) Or, néanmoins, ce désir est fort suspect et peut être une cogitation humaine. Que savez-vous si, ayant désiré les charges basses, vous aurez la force d’agréer les abjections qui s’y rencontrent ? Il vous y pourra venir beaucoup de dégoûts et d’amertumes. Que si bien maintenant vous vous sentez la force de souffrir la mortification et l’humiliation, que savez-vous si vous l’aurez toujours ? Bref, il faut tenir le désir des charges, quelles qu’elles soient, basses ou honorables, pour tentation. Il est toujours meilleur de ne rien désirer, mais se tenir prête pour recevoir celles que l’obéissance nous imposera ; et fussent-elles honorables ou abjectes, je les prendrais et recevrais humblement sans en dire un seul mot, sinon que l’on m’interrogeât, et lors je répondrais simplement la vérité comme je la penserais.

Vrais entretiens spirituels, 26 décembre 1622 (VI, pp. 384-385)

c) Patience envers soi-même:

Ne nous troublons point de nos imperfections, car notre perfection consiste à les combattre, et nous ne saurions les combattre sans les voir, ni les vaincre sans les rencontrer. Notre victoire ne gît pas à ne les sentir point, mais à ne point leur consentir ; mais ce n’est pas leur consentir que d’en être incommodé. Il faut bien que pour l’exercice de notre humilité, nous soyons quelquefois blessés en cette bataille spirituelle ; néanmoins nous ne sommes jamais vaincus sinon lorsque nous avons perdu ou la vie, ou le courage. Or, les imperfections et péchés véniels ne nous sauraient ôter la vie spirituelle, car elle ne se perd que par le péché mortel ; il reste donc seulement qu’elles ne nous fassent point perdre le courage… C’est une heureuse condition pour nous en cette guerre, que nous soyons toujours vainqueurs, pourvu que nous voulions combattre.

Introduction à la Vie dévote, I, 5 (III, p. 27)

Il faut coudre notre perfection pièce à pièce, parce qu’il ne s’en trouve point de toute faite… Enfin, il ne se faut point étonner ni rendre lâche pour nos infirmités et instabilités ; mais en s’humiliant doucement et tranquillement, il faut remonter son cœur en Dieu et poursuivre sa sainte entreprise, se confiant et appuyant en Notre Seigneur, car il veut fournir tout ce qui est nécessaire pour l’exécution, ne nous demandant rien que notre consentement et fidélité.

À sainte Jeanne de Chantal, date indéterminée (XXI, p. 188)

Il faut sur toutes choses, ma chère Fille, procurer cette tranquillité, non point parce qu’elle est mère du contentement, mais parce qu’elle est fille de l’amour de Dieu et de la résignation de notre propre volonté.… je vous prie de vous mettre en la présence de Dieu et de souffrir vos douleurs devant lui. Ne vous retenez pas de [vous] plaindre, mais je voudrais que ce fût à lui, avec un esprit filial, comme ferait un tendre enfant à sa mère ; car, pourvu que ce soit amoureusement, il n’y a point de danger de se plaindre, ni de demander la guérison, ni de se faire soulager. Faites seulement cela, avec amour et résignation entre les bras de la bonne volonté de Dieu.

Ne vous mettez point en peine de ne faire pas bien les actes des vertus ; car ils ne laissent pas d’être très bons, encore qu’ils soient faits langoureusement, pesamment et quasi forcément. Vous ne sauriez donner à Dieu que ce que vous avez, et en cette saison d’affliction, vous n’avez pas d’autre action.

À Madame de la Fléchère, 16 juillet 1608 (XIV, pp. 53-54)

d) Bienveillance envers soi-même:

Comme les remontrances d’un père faites doucement et cordialement, ont bien plus de pouvoir sur un enfant pour le corriger que les colères et les courroux, ainsi, quand notre cœur aura fait quelque faute, si nous le reprenons avec des remontrances douces et tranquilles, ayant plus de compassion de lui que de passion contre lui, l’encourageant à l’amendement, la repentance qu’il en concevra entrera bien plus avant et le pénétrera mieux que ne ferait une repentance dépiteuse, ireuse et tempétueuse.

… Relevez donc votre cœur quand il tombera, tout doucement, vous humiliant beaucoup devant Dieu par la reconnaissance de votre misère, sans nullement vous étonner de votre chute, puisque ce n’est pas chose admirable que l’infirmité soit infirme, et la faiblesse faible, et la misère chétive. Détestez néanmoins de toutes vos forces l’offense que Dieu a reçue de vous, et avec un grand courage et confiance en la miséricorde d’icelui, remettez-vous au train de la vertu que vous aviez abandonnée.

Introduction à la Vie dévote, III, 9 (III, pp. 167-168)

6) La contemplation salésienne

a) Trois modes d’oraison : manger, boire et s’enivrer

En tous ces divins mystères [du Christ], il y a de quoi bien manger et bien boire pour tous les chers amis, et de quoi s’enivrer pour les très chers amis : les uns mangent et boivent, mais ils mangent plus qu’ils ne boivent et ne s’enivrent pas ; les autres mangent et boivent, mais ils boivent beaucoup plus qu’ils ne mangent, et ce sont ceux qui s’enivrent. Or, manger, c’est méditer, car en méditant on mâche, tournant ça et là la viande spirituelle entre les dents de la considération, pour l’émietter, froisser et digérer, ce qui se fait avec quelque peine ; boire, c’est contempler, et cela se fait sans peine ni résistance, avec plaisir et coulamment ; mais s’enivrer, c’est contempler si souvent et si ardemment, qu’on soit tout hors de soi même pour être tout en Dieu.… en sorte que nous vivions plus en Dieu qu’en nous-mêmes, étant attentifs et occupés par amour à voir sa beauté et nous unir à sa bonté.

Traité de l’Amour de Dieu, VI, 6 (IV, pp. 324s)

b) La prière réussie est la prière abandonnée:

Vous ne faites rien, me dites-vous, en l’oraison. Mais qu’est-ce que vous voudriez faire, sinon ce que vous y faites, qui est de présenter et représenter à Dieu votre néant et votre misère ? C’est la plus belle harangue que nous fassent les mendiants que d’exposer à notre vue leurs ulcères et nécessités. Mais quelque fois encore ne faites-vous rien de tout cela, comme vous me dites, mais vous demeurez là comme un fantôme et une statue. Et bien, ce n’est pas peu que cela. Dans les palais des princes et des rois, on met des statues qui ne servent qu’à recréer la vue du prince : contentez-vous donc de servir de cela en la présence de Dieu ; il animera cette statue quand il lui plaira.

À la Présidente Brûlart, mars 1605 (XIII, p. 20)

c) L’attitude contemplative

Ô vrai Dieu, que c’est une bonne façon de se tenir en la présence de Dieu, d’être et vouloir toujours et à jamais être en son bon plaisir !… Or, cette quiétude en laquelle la volonté n’agit que par un très simple acquiescement au bon plaisir divin, voulant être en l’oraison sans aucune prétention que d’être à la vue de Dieu selon qu’il lui plaira, c’est une quiétude souverainement excellente, d’autant qu’elle est pure de toute sorte d’intérêt, les facultés de l’âme n’y prenant aucun contentement, ni même la volonté, sinon en sa suprême pointe, en laquelle elle se contente de n’avoir aucun autre contentement sinon celui d’être sans contentement, pour l’amour du contentement et bon plaisir de son Dieu, dans lequel elle se repose. Car, en somme, c’est le comble de l’amoureuse extase de n’avoir pas sa volonté en son contentement, mais en celui de Dieu, ou de n’avoir pas son contentement en sa volonté, mais en celle de Dieu.

Traité de l’Amour de Dieu, VI, 11 (IV, pp. 342s)

d) Quand la contemplation devient évidente

[Titre du chapitre : Du recueillement amoureux de l’âme en la contemplation] Je ne parle pas ici du recueillement par lequel ceux qui veulent prier se mettent en la présence de Dieu, rentrant en eux-mêmes, et retirant, par manière de dire, leur âme dedans leur cœur pour parler à Dieu ; car ce recueillement se fait par le commandement de l’amour, qui, nous provoquant à l’oraison, nous fait prendre ce moyen de la bien faire, de sorte que nous faisons nous-mêmes ce retirement de notre esprit. Mais le recueillement duquel j’entends de parler ne se fait pas par le commandement de l’amour, mais par l’amour-même ; c’est-à-dire, nous ne le faisons pas nous-mêmes par élection, d’autant qu’il n’est pas en notre pouvoir de l’avoir quand nous voulons et ne dépend pas de notre soin, mais Dieu le fait en nous, quand il lui plaît, par sa très sainte grâce.

… Il arrive donc quelquefois que Notre Seigneur répand imperceptiblement au fond du cœur une certaine douce suavité qui témoigne sa présence, et lors les puissances, voire même les sens extérieurs de l’âme, par un certain secret consentement se retournent du côté de cette intime partie où est le très aimable et très cher Époux, … Comme qui mettrait un morceau d’aimant entre plusieurs aiguilles, verrait que soudain toutes leurs points se retourneraient du côté de leur aimant bien-aimé et se viendrait attacher à lui, aussi lorsque Notre Seigneur fait sentir au milieu de notre âme sa très délicieuse présence, toutes nos facultés retournent leurs pointes de ce côté-là, pour se venir joindre à cette incomparable douceur.

Traité de l’Amour de Dieu, VI, 7 (IV, pp. 326s)

e) Comment se comporter quand cette évidence s’impose?

L’âme étant ainsi recueillie dedans d’elle-même en Dieu ou devant Dieu, se rend parfois si doucement attentive à la bonté de son Bien-Aimé, qu’il lui semble que son attention ne soit presque pas attention, tant elle est simplement et délicatement exercée ; comme il arrive en certains fleuves qui coulent si doucement et également, qu’il semble à ceux qui les regardent ou naviguent sur eux, de ne voir ni sentir aucun mouvement, parce qu’on ne les voit nullement ondoyer ni flotter.…

Néanmoins l’âme qui en ce doux repos jouit de ce délicat sentiment de la présence divine, quoiqu’elle ne s’aperçoive pas de cette jouissance, témoigne toutefois clairement combien ce bonheur lui est précieux et aimable, quand on le lui veut ôter ou que quelque chose l’en détourne ; car alors la pauvre âme fait des plaintes, crie, voire quelquefois pleure, comme un petit enfant qu’on a éveillé avant qu’il eût assez dormi, lequel, par la douleur qu’il ressent de son réveil, montre bien la satisfaction qu’il avait en son sommeil.…

Quand donc vous serez en cette simple et pure confiance filiale auprès de Notre Seigneur, demeurez-y sans vous remuer nullement pour faire des actes sensibles ni de l’entendement, ni de la volonté ; car cet amour simple de confiance et cet endormissement amoureux de votre esprit entre les bras du Sauveur, comprend par excellence tout ce que vous allez cherchant ça et là pour votre goût. Il est mieux de dormir sur cette sacrée poitrine que de veiller ailleurs, où que ce soit.

Traité de l’Amour de Dieu, VI, 8 (IV, pp. 330ss)

7) La Vierge Marie, soeur, épouse et mère

a) Marie unie à Jésus

Pour moi, j’ai accoutumé de dire qu’en certaine façon la Vierge est plus créature de Dieu et de son Fils que le reste du monde ; pour autant que Dieu a créé en elle beaucoup plus de perfections qu’en tout le reste des créatures, qu’elle est plus rachetée que tout le reste des hommes, parce qu’elle a été rachetée non seulement du péché, mais du pouvoir et de l’inclination même du péché, et que racheter la liberté d’une personne qui devrait être esclave, avant qu’elle le soit, est une grâce plus grande que de la racheter après qu’elle est captive.

… Bref, nous la nommons belle, et belle plus que tout le reste des créatures, mais belle comme la lune qui reçoit sa clarté de celle du soleil, car elle reçoit sa gloire de celle de son Fils. L’épine appelée spalatus, dit Pline, n’est pas de soi odoriférante ; mais si l’arc en ciel vient fondre sur elle, il lui laisse une odeur de suavité incomparable. La Vierge fut l’épine de ce buisson ardent mais non brûlé que vit le grand Moïse.… Et certes, de soi, elle n’était pas digne d’aucun honneur, elle était sans odeur ; mais puisque ce grand arc du ciel, ce grand signe de la réconciliation de Dieu avec les hommes, vint petit à petit fondre sur cette sainte épine, premièrement par grâce dès sa conception, puis par filiation, se rendant entièrement son Fils et reposant en son précieux ventre, la suavité en a été si grande que nulle autre plante n’en a jamais tant eu, suavité qui est tant agréable à Dieu, que les prières qui en sont parfumées ne sont jamais déboutées ni inutiles ; mais toujours l’honneur en revient à son Fils duquel elle a reçu son odeur.

Sermon pour la fête de l’Assomption (VII, pp. 458s)

b) Marie unie à nous

Il lui [= Jésus en croix] restait encore quelque legs à faire en son divin testament.… Il y a une certaine délicatesse spirituelle dont il devait faire présent à ses plus chers amis, délicatesse qui n’est autre qu’un moyen très singulier pour conserver la grâce acquise et pour parvenir au plus haut degré de gloire. Regardant donc de ses yeux pleins de compassion sa très bénite Mère… il lui donna une certaine union de cœur et amour tendre pour le prochain, cet amour des uns pour les autres qui est un don des plus grands que sa bonté fasse aux hommes.

Mais quel amour ? Un amour maternel. Femme, dit-il, voilà ton fils. Ô Dieu, quel échange ! Du Fils au serviteur, de Dieu à la créature ! Néanmoins elle ne refuse point, sachant bien qu’en la personne de saint Jean elle acceptait pour siens tous les enfants de la croix et qu’elle en serait la chère mère. Notre divin Maître nous enseignait par là que si nous voulons avoir part en son testament et aux mérites de sa mort et passion, il faut que nous nous aimions tous les uns les autres de cet amour tendre et grandement cordial du fils envers la mère et de la mère envers le fils, qui est en quelque façon plus grand que non pas celui des pères.

Sermon pour le Vendredi Saint ( IX, p. 276)

c) Mourir d’amour

Notre Dame Mère de Dieu est morte de la mort de son Fils. La raison fondamentale est parce que Notre Dame n’avait qu’une même vie avec son Fils, elle ne pouvait donc avoir qu’une même mort ; elle ne vivait que de la vie de son Fils, comment pouvait-elle mourir d’une autre mort que de la sienne ? C’étaient à la vérité deux personnes, Notre Seigneur et Notre Dame, mais en un cœur, en une âme, en un esprit, en une vie.

… Que si elle vivait de sa vie, aussi est-elle morte de sa mort.… Le corps de Notre Dame n’était pas joint et ne touchait pas à celui de son Fils en la Passion ; mais quant à son âme, elle était inséparablement unie à l’âme, au cœur, au corps de son Fils, si bien que les coups que le béni corps du Sauveur reçut en la croix ne firent aucune blessure au corps de Notre Dame, mais ils firent de grands contrecoups en son âme… Ce n’est donc pas merveille si je dis que les douleurs du Fils furent les épées qui transpercèrent l’âme de la Mère. … Les épines, les clous, la lance qui percèrent la tête, les mains, les pieds, le côté de Notre Seigneur, passèrent encore outre et outrepercèrent l’âme de la Mère. … Notre Dame fut blessée et atteinte du dard de douleur en la Passion de son Fils sur le mont de Calvaire, et ne mourut toutefois pas à l’heure, mais porta longuement sa plaie de laquelle enfin elle mourut. Ö plaie amoureuse ! Ô blessure de charité, que vous fûtes chérie et bien aimée du cœur que vous blessâtes ! … La Sainte Vierge se sentant blessée, chérit et garda soigneusement les traits dont elle était outrepercée et ne voulut jamais les repousser ; ce fut sa gloire, ce fut son triomphe, et partant elle désira d’en mourir et en mourut enfin ; si bien qu’elle mourut de la mort de son Fils, bien qu’elle n’en mourut pas sur l’heure.

… Mais son Fils, de quelle mort mourut-il ? … Voyez toutes les afflictions de son cœur, voyez les passions de son corps, considérez et voyez qu’il n’y a point de douleurs égales aux siennes ; mais néanmoins toutes ces douleurs, toutes ces afflictions, tous ces coups de main, de roseau, d’épines, de fouet, de marteaux, de lance ne pouvaient le faire mourir ; la mort n’avait pas assez de force pour se rendre victorieuse sur une telle vie, elle n’y avait point d’accès. Comment mourut-il donc? Ô chrétiens, l’amour est aussi fort que la mort. L’amour désirait que la mort entrât en Notre Seigneur, afin que par sa mort il pût se répandre en tous les hommes ; la mort désirait d’y entrer, mais elle ne pouvait d’elle-même. Elle attendit l’heure, heure bienheureuse pour nous, à laquelle l’amour lui fit l’entrée et lui livra Notre Seigneur pieds et mains cloués ; si bien que ce que la mort n’eut pu faire, l’amour, aussi fort qu’elle, l’entreprit et le fit.

… Or, puisqu’il est certain que le Fils est mort d’amour et que la Mère est morte de la mort du Fils, il ne faut pas douter que la Mère ne soit morte d’amour. … Elle portait toujours en son cœur les plaies de son Fils ; pour quelque temps elle les souffrit sans mourir, mais enfin elle en mourut sans souffrir.… Son cœur, son âme, sa vie était au ciel ; comment eut-elle pu demeurer en terre ? Enfin…, ayant soutenu miraculeusement mille et mille assauts d’amour, elle fut emportée et pris par un dernier et général assaut ; et l’amour qui en fut le vainqueur, emmenant cette belle âme comme sa prisonnière, laissa dans le corps sacré la pâle et froide mort.

Sermon pour la fête de l’Assomption (VII, pp. 439ss passim)

De quelle mort pensez-vous donc que mourut la Sainte Vierge, sinon de la mort d’amour ? Ô c’est une chose indubitable qu’elle mourut d’amour, mais je ne dis pas ceci parce qu’il est écrit. Elle a toujours été la Mère de la belle dilection ; l’on ne remarque point de ravissements ni d’extases en sa vie, parce que ses ravissements ont été continuels ; elle a aimé d’un amour toujours fort, toujours ardent, mais tranquille, mais accompagné d’une grande paix. Et si bien cet amour allait sans cesse croissant, cet accroissement ne se faisait point par secousses ni élans, mais, comme un doux fleuve, elle allait toujours coulant, et presque imperceptiblement, du côté de cette union tant désirée de son âme avec la divine Bonté.

L’heure, donc, étant venue pour la très glorieuse Vierge de quitter cette vie, l’amour fit la séparation de son âme d’avec son corps, la mort n’étant autre chose que cette séparation.

Sermon pour la fête de l’Assomption (IX, pp. 182s)

8) Le monachisme salésien: la Visitation

Cette Congrégation reçoit des femmes veuves et des filles indifféremment, mais pas les filles de moins de 17 ans. Elles font une année de probation, et, quand il est expédient, deux ou trois, quand elles n’ont pas donné en la première année le témoignage assuré de leur conversion. Après leur Noviciat, on les reçoit solennellement, non point aux vœux, car on n’en fait point de solennel, mais à l’établissement ou dédicace, en la forme que le bienheureux Cardinal Borromée a dressée pour les Ursulines, à peu de choses près, paucis mutatis. Néanmoins elles font le vœu de chasteté simple, avec l’avis du confesseur et de la Supérieure. En leur établissement, elles offrent leur âme, leur corps et l’usage de leurs biens à Dieu et à Notre-Dame, pour que tout soit employé à son honneur, selon les Règles de la Congrégation ; cela se fait lors d’une belle cérémonie.

Les hommes n’entrent point en leur maison, pour aucun motif que ce soit, et les femmes seulement avec une licence in scriptis. Les jeunes ne sortent pas, sinon en quelques cas fort rares ; les anciennes sortent pour servir les pauvres, mais avec une sage organisation, comme les Dames de la Torre di Specchi.

Elles disent seulement les Heures de Notre-Dame, en un chant rempli de dévotion. Elles se lèvent l’été à cinq heures, et se couchent à dix ; l’hiver à six et se couchent à dix et demi. Elles ont une heure le matin et une heure le soir d’oraison mentale, et pour le reste, elles ont un règlement pour le travail, le silence, l’obéissance, l’humilité, le dénuement de toute propriété très strict et autant qu’en un monastère du monde. Elles communient à toutes les fêtes et les dimanches. Si quelqu’une ne veut pas suivre l’esprit de la Congrégation, sa punition est d’être mise dehors, lui étant rendu néanmoins ce qu’elle a apporté ; mais cela seulement après avoir tout essayé pour la corriger. Il n’y a point d’autre jeûne que celui que prescrit ordinairement l’Eglise, sinon le vendredi et les vigiles de Notre-Dame.

Elle est instituée sous le titre de la Visitation de Notre-Dame. Les débuts sont fort plausibles et sont très édifiants. Il y vient des filles de Chambéry, de Grenoble, de Bourgogne. Enfin, c’est une Congrégation simple, instituée pour les femmes et filles qui, à cause de leur infirmité corporelle ou pour n’avoir pas l’inspiration d’entreprendre de grandes rigueurs, ne peuvent entrer dans des Ordres religieux déjà formés ou réformés. Car là elles auront un refuge doux et gracieux, avec la pratique des vertus essentielles de la dévotion.

À Philippe de Quoex, juillet 1610 (XIV, pp. 328ss)

C’est pour donner à Dieu des filles d’oraison et des âmes si intérieures, qu’elles soient trouvées dignes de servir sa Majesté infinie et de l’adorer en esprit et en vérité. Laissant aux grands Ordres déjà établis dans l’Eglise honorer Notre Seigneur par d’excellents exercices et des vertus éclatantes, je veux que mes filles n’aient d’autres prétentions que de le glorifier par leur abaissement. Que ce petit Institut de la Visitation soit comme un pauvre colombier d’innocentes colombes, dont le soin et l’emploi est de méditer la loi du Seigneur, sans se faire voir ni entendre dans le monde. Qu’elles demeurent cachées dans le trou de la pierre et dans le secret des masures, pour y donner à leur Bien-Aimé vivant et mourant des preuves de la douleur et de l’amour de leur cœur, par leur bas et humble gémissement.

Au Cardinal de Marquemont, juin 1615 (XVII, pp. 16-17)

Je fais réponse à Monseigneur l’Archevêque, sur un grand papier qu’il m’a envoyé, contenant toutes ses critiques contre l’Institut de la Congrégation. Et sur deux partis qu’il me propose, hors desquels il ne veut nullement établir notre pauvre Congrégation dans son diocèse, je lui laisse le choix, sans aucune réserve, hormis celle de la fin principale de notre Congrégation : que les veuves, au moins en leur habit de deuil, puissent s’y retirer jusqu’à ce que, libérées de tous les empêchements, elles puissent faire profession et prendre l’habit ; et que les femmes du monde puissent y rentrer, pour s’exercer et se résoudre à la dévotion, selon les circonstances.

Or, les deux partis qu’il propose sont ou de laisser notre Congrégation avec le titre de simple Congrégation, avec la clôture, ou de la réduire en Religion formelle, sous la Règle de saint Augustin. Il ne propose le premier parti qu’à contre cœur, de sorte que voyant qu’il ne favoriserait la Congrégation que difficilement si l’on ne venait au second parti, je lui en laisse la liberté. Car c’est une chose indifférente que le bien de la Congrégation se fasse d’une manière ou d’une autre. Mon sentiment était qu’il se ferait mieux avec le titre de simple Congrégation, où le seul amour et respect de l’Epoux servirait de clôture, avec la retraite que la bienséance de telles assemblées requiert, ainsi que nous l’avions mis dans les Règles. Mais puisque du bon accueil que Monseigneur l’Archevêque fera à cette Congrégation en sa ville dépend celui qu’elle peut espérer en toute la France, je veux bien que l’on en fasse une Religion formelle, à la réserve de ces deux points déjà mentionnés, puisque, à ce qu’il dit, on ne changera rien aux Règles. Car il les loue et les déclare « excellentes », disant que le fruit de cette Congrégation est admirable, mais que la racine n’en vaut rien, bien que Notre Seigneur dise qu’un mauvais arbre ne saurait produire de bons fruits. Je vois aussi que, par ce moyen, on contentera quantité de censeurs, de pères et de parents de filles qui ne les veulent donner à Dieu que pour gagner les portions qu’elles emporteraient s’ils les donnaient à quelque pauvre mari.

À la Mère Favre, 2 février 1616 (XVII, pp. 137ss)

J’ai toujours jugé que l’esprit particulier de la Visitation était un esprit d’une profonde humilité envers Dieu et d’une grand douceur envers le prochain ; d’autant qu’ayant moins de rigueur pour le corps, il faut qu’il y ait tant plus de douceur de cœur. … L’esprit de douceur est tellement l’esprit de la Visitation, que quiconque y voudrait introduire plus d’austérités qu’il n’y en a maintenant, la détruirait incontinent. D’autant que ce serait faire contre la fin pour laquelle elle a été dressée, qui est pour y pouvoir recevoir les filles et femmes infirmes, qui n’ont pas des corps assez forts pour entreprendre, ou qui ne sont pas inspirées et attirées de servir et s’unir à Dieu par la voie des austérités que l’on fait dans les autres religions. … Que s’il y avait une sœur qui fût si généreuse et courageuse que de vouloir parvenir à la perfection dans un quart d’heure en faisant plus que la communauté, je lui conseillerais qu’elle s’humiliât et se soumît à ne vouloir être parfaite que dans trois jours, allant le train des autres.

Vrais Entretiens spirituels, XIII, de l’Esprit des Règles (VI, pp. 229-230)

2e partie: Le directeur spirituel

1) Un exemple magistral: la direction de Jeanne de Chantal

Madame,

Ce m’a été une très grande consolation d’avoir eu la lettre que vous m’écrivîtes le 30 mai. Toutes ses parties sont agréables : la souvenance que vous avez de moi en vos prières, car cela témoigne de votre charité ; la mémoire que vous avez des sermons que j’ai faits ce Carême, car encore que de mon côté il n’y ait eu autre chose qu’imperfection, il est vrai que cela a toujours été parole de Dieu, dont le souvenir ne peut que vous être fort utile ; le désir que vous avez de la perfection, car c’est un bon fondement pour l’obtenir. Tout cela donc me console, comme aussi ce que vous m’écrivez que le Révérend Père que le Seigneur vous a donné pour directeur avait trouvé fort bon que pendant mon séjour à Dijon vous m’ayez communiqué votre âme, et que même il ne trouverait pas mauvais que vous me donnassiez quelquefois de vos lettres.

Madame, si vous vous en ressouvenez, je vous dis bien cela même, quand vous me dites que vous craignez de l’avoir offensé ayant reçu les petits avis que je vous donnai verbalement sur le sujet de votre affliction intérieure qui vous troublait en la sainte oraison. Car je vous dis qu’en cela vous ne sauriez avoir commis de faute, puisque le mal vous pressait et votre médecin spirituel était absent ; que cela n’était pas changer de directeur, ce que vous ne pouviez faire sans perte bien grande, mais que c’était seulement se soulager pour l’attendre ; que mes avis ne s’étendaient que sur le mal présent, qui requérait un remède présent, et partant, ne pouvaient nullement préjudicier à la conduite générale de votre premier directeur. Et quant au scrupule que vous aviez de m’avoir demandé mon avis pour la direction de toute votre vie, je vous dis que vous n’aviez non plus contrevenu aux lois de la soumission que les âmes dévotes doivent à leur père spirituel, parce que mes conseils ne seraient rien de plus qu’un écrit spirituel dont la pratique serait toujours mesurée par le discernement de votre directeur ordinaire, puisque la présence de son œil et la plus grande lumière spirituelle, avec la plus entière connaissance qu’il a de votre capacité, lui donnent le moyen de mieux le faire que je ne puis, étant ce que je suis ; ajouté au fait que les avis que je pensais vous donner seraient tels qu’ils ne pouvaient être que bien accordés avec ceux du Père directeur. Mais quand vous m’eûtes nommé le personnage, ressouvenez-vous, je vous supplie, que je vous dis avec pleine confiance qu’il me connaissait et m’avait fait le bien de me promettre un jour son amitié, et que je m’assurais qu’il ne trouverait point mauvaise la communication que vous aviez eue avec moi, tant je le tenais de mes amis. Vous voyez donc, Madame, que je jugeais fort bien de tout cela, et n’employais guère de temps ni de considération pour me résoudre à ce jugement. Je me réjouis donc que vous ayez reconnu combien il est véritable que ceux qui sont bien accordés dans l’intention du service de Dieu ne sont jamais guère éloignés ni pour l’affection ni pour la façon de voir.

Je loue infiniment le respect religieux que vous portez à votre directeur et vous exhorte de soigneusement y persévérer ; mais il faut aussique je vous dise encore ce mot. Ce respect doit sans doute vous maintenir en la sainte conduite à laquelle vous vous êtes si heureusement rangée, mais il ne doit pas vous gêner, ni étouffer la juste liberté que l’Esprit de Dieu donne à ceux qu’il possède. Pour certains, ne pas recevoir les avis et enseignements des autres, ni recourir à eux en l’absence du directeur, n’est nullement contraire à ce respect, pourvu que le directeur et son autorité soient toujours préférés. Béni soit Dieu.

J’ai voulu vous rappeler de tout ce que je vous ai dit en votre présence, et y ajouter ce que j’ai pensé en écrivant pour vous représenter pour une bonne fois mon opinion sur ce scrupule ; et si, j’ose bien me promettre que si vous la proposez à votre directeur la prochaine fois que vous le verrez, il se trouvera autant conforme avec moi en cet endroit comme il l’a été en l’autre. Mais je laisse cela à votre discrétion, de lui proposer ou non ; bien vous supplierais-je de le saluer de ma part et l’assurer de mon service. Je l’ai longuement honoré avant de l’avoir vu ; l’ayant vu, mon affection s’en est accrue, et m’étant aperçue du fruit qu’il a produit à Dijon (car vous n’êtes pas seule), je lui ai donné et voué autant de cœur et de service qu’il en saurait désirer de moi. Je vous chéris en lui et lui en vous, et l’un et l’autre en Jésus Christ.

Monsieur l’Archevêque m’a écrit une lettre si excessive en faveurs que ma misère en est accablée ; il le faut pardonner de sa courtoisie et naturelle bonté, mais je m’en plains à vous parce que cela me met en danger de vanité. Vous ne m’écrivez pas sur la santé de monsieur votre père, et toutefois j’en suis extrêmement désireux ; ni de monsieur votre oncle que je vous avais supplié de saluer de ma part.

Au demeurant, puisque le Père directeur vous permet de m’écrire quelquefois, faites-le, je vous prie, de bon cœur, encore que cela vous donnera de la distraction, car ce sera charité. Je suis en un lieu et en une occupation qui me rendent digne de quelque compassion, et ce m’est consolation de recevoir, parmi la presse de tant de fâcheuses et difficiles affaires, des nouvelles de vos proches ; ce m’est une rosée. Je vous témoigne par cette longueur combien mon esprit agrée la conversation du vôtre. Dieu nous fasse la grâce de vivre et mourir en son amour et s’il lui plaît, pour son amour. Je l’en supplie et vous salue bien humblement, donnant la sainte bénédiction à vos petits enfants, si vous êtes à Chantal ; car si vous êtes à Dijon je ne le voudrais entreprendre en la présence de monsieur leur oncle, bien que leur petit agenouillement et votre demande me fit faire une pareille faute à mon départ.

Dieu soit votre cœur et votre âme, Madame, et je suis votre plus humble et affectionné serviteur,

François, Évêque de Genève

Lettre du14 juin 1604 (XII, pp. 277ss)

Madame,

L’autre lettre vous servira pour contenter le bon Père à qui vous désirez pouvoir la montrer. J’y ai fourré beaucoup de choses pour empêcher le soupçon qu’il eut pu prendre qu’elle fut écrite à dessein, et l’ai néanmoins écrite avec toute vérité et sincérité, ainsi que je dois toujours faire ; mais non pas avec tant de liberté comme celle-ci, en laquelle je désire vous parler cœur à cœur.

Je suis bien d’accord avec ceux qui ont voulu vous donner du scrupule, qu’il est convenable de n’avoir qu’un père spirituel, dont l’autorité doit être en tout et partout préférée à la volonté propre, et même aux avis de toute autre personne particulière ; mais cela n’empêche nullement le commerce et la communication d’un esprit avec un autre, ni d’employer les avis et conseils que l’on reçoit d’ailleurs. Peu auparavant que je reçusse vos lettres, un soir je pris en main un livre qui parle de la bonne Mère Thérèse, pour délasser mon âme des travaux de la journée, et je trouvai qu’elle avait fait vœu d’obéissance particulière au Père Gracian, de son Ordre, pour faire toute sa vie ce qu’il lui ordonnerait qui ne serait contraire à Dieu ni à l’obéissance des supérieurs ordinaires de l’Église et de son Ordre. Outre cela, elle ne laissait pas d’avoir toujours quelque particulier et grand confident auquel elle se communiquait, et duquel elle recevait les avis et conseils pour les pratiquer soigneusement, et s’en prévaloir en tout ce qui ne serait contraire au vœu d’obéissance ; ce dont elle se trouva fort bien, comme elle-même en a témoigné en plusieurs endroits de ses écrits. C’est pour vous dire que l’unité de père spirituel n’exclut point la confiance et la communication avec un autre, pourvu que l’obéissance promise demeure ferme en son rang et soit préférée…

Lettre du 24 juin 1604 (XII, pp. 282ss)

Madame,

Plût à notre bon Dieu que j’eusse autant de moyen de me faire bien entendre par cet écrit comme j’en ai de volonté ; je m’assure que pour une partie de ce que vous désirez savoir de moi, vous seriez consolée, et particulièrement pour les deux doutes que l’ennemi vous suggère sur le choix que vous avez fait de moi pour être votre père spirituel… Ce n’a été ni vous ni moi qui en avons fermé le traité ; ç’a été un troisième [= le Père de Villars], qui en cela n’a pu regarder qu’à Dieu seul. La difficulté que j’y apportai au commencement, qui ne procédait que de la considération que j’y devais appliquer, vous doit entièrement résoudre ; car croyez bien que ce n’était pas faute de très grande inclination à votre service spirituel (je l’avais indicible), mais parce qu’en chose de telle conséquence je ne voulais suivre ni votre désir ni mon inclination, mais Dieu et sa providence. Arrêtez-vous là, je vous supplie, et ne disputez plus avec l’ennemi en ce sujet ; dites lui hardiment que c’est Dieu qui l’a voulu et qui l’a fait. Ce fut Dieu qui vous embarqua en la première direction, propre à votre bien en ce temps-là ; c’est Dieu qui vous a portée à celle-ci, laquelle, bien que l’instrument en soit indigne, il vous rendra fructueuse et utile…

François, évêque de Genève

Lettre du 14 octobre 1604 (XII, 352-370)

Dieu me veuille assister, ma très chère Fille, pour répondre utilement à votre lettre du 9 juillet…

Vous désirez savoir quelles sont les meilleures abjections. Je vous dis que ce sont celles que nous n’avons pas choisies et qui nous sont moins agréables, ou, pour mieux dire, celles auxquelles nous n’avons pas beaucoup d’inclination ; mais, pour parler net, celles de notre vocation et profession. Comme, par exemple : cette femme mariée choisirait toutes autres sortes d’abjection que celle de l’exercice du mariage ; cette religieuse obéirait à toute autre qu’à sa supérieure ; et moi je souffrirais plutôt d’être gourmandée d’une supérieure en religion que d’un beau-père en ma maison. Je dis qu’à chacun son abjection propre est la meilleure, et notre choix nous ôte une grande partie de nos vertus. Qui me fera la grâce que nous aimions bien notre abjection, ma chère Fille ? Nul ne le peut, que celui qui aima tant la sienne, que, pour la conserver, il voulut mourir. C’est bien assez.

Vous trouvant plongée en l’espérance et pensée d’entrer en religion, vous eûtes peur d’avoir contrevenu à l’obéissance. Mais non, je ne vous avais pas dit que vous n’en eussiez nulle espérance ni nulle pensée, oui bien que vous ne vous y amusassiez pas ; parce que c’est chose certaine qu’il n’y a rien qui nous empêche tant de nous perfectionner en notre vocation que d’aspirer à une autre, car, au lieu de travailler au champ où nous sommes, nous envoyons nos bœufs avec la charrue ailleurs, au champ de notre voisin, où néanmoins nous ne pouvons pas moissonner cette année. Et tout cela est une perte de temps, et est impossible que, tenant nos pensées et espérances d’un autre côté, nous puissions bien bander notre cœur à la conquête des vertus requises au lieu où nous sommes. Non, ma Fille, jamais Jacob n’aima bien Lia pendant qu’il souhaita Rachel ; et tenez cette maxime, car elle est très véritable.…

…Mais vous me demandez que je vous dise si je ne pense pas qu’un jour vous quittiez tout à fait et tout à plat toutes choses de ce monde pour notre Dieu, et que je ne le vous cèle pas, mais que je vous laisse cette chère espérance. Ô doux Jésus, que vous dirai-je, ma chère fille ? Sa toute Bonté sait que j’ai fort souvent pensé sur ce point et que j’ai imploré sa grâce au saint sacrifice et ailleurs ; et non seulement cela, mais j’y ai employé la dévotion et les prières des autres meilleurs que moi. Et qu’ai-je appris jusques à présent ? Qu’un jour, ma Fille, vous devez tout quitter ; c’est-à-dire, afin que vous n’entendiez pas autrement que moi, j’ai appris que je vous dois un jour conseiller de tout quitter. Je dis tout ; mais que ce soit pour entrer en religion, c’est grand cas, il ne m’est encore point arrivé d’en être d’avis ; j’en suis encore en doute, et ne vois rien devant mes yeux qui me convie à le désirer. Entendez bien pour l’amour de Dieu ; je ne dis pas que non, mais je dis que mon esprit n’a encore su trouver de quoi dire oui. Je prierai de plus en plus Notre Seigneur afin qu’il me donne plus de lumière pour ce sujet, afin que je puisse voir clairement l’oui, s’il est plus à sa gloire, ou le non, s’il est plus à son bon plaisir. Et sachez qu’en cette enquête, je me suis tellement mis en l’indifférence de ma propre inclination pour chercher la volonté de Dieu, que jamais je ne le fis si fort ; et néanmoins, l’oui ne s’est jamais pu arrêter en mon cœur, si que jusques à maintenant je ne le saurais dire ni prononcer, et le non, au contraire, s’y est toujours trouvé avec beaucoup de fermeté.

Mais parce que ce point est de très grande importance, et qu’il n’y a rien qui nous presse, donnez-moi encore du loisir et du temps pour prier davantage et faire prier à cette intention ; et encore faudra-t-il, avant que je me résolve, que je vous parle à souhait, qui sera l’année prochaine, Dieu aidant. Et après tout cela, encore ne voudrais-je pas qu’en ce point vous prissiez entière résolution sur mon opinion, sinon que vous eussiez une grande tranquillité et correspondance intérieure en icelle. Je vous la dirai bien au long, le temps en étant venu ; et si elle ne vous donne pas du repos intérieur, nous emploierons l’avis de quelque autre à qui, peut-être, Dieu communiquera plus clairement son bon-plaisir. Je ne vois point qu’il soit requis de se hâter, et cependant vous pourrez vous-même y penser, sans vous y amuser et perdre le temps ; car, comme je vous dis, encore que jusques à présent l’avis de vous voir en religion n’a su prendre place en mon esprit, si est-ce que je n’en suis pas entièrement résolu. Et quand j’en serais tout résolu, encore ne voudrais-je pas contester et préférer mon opinion ou à vos inclinations, quand elles seraient fortes en ce sujet particulier (car partout ailleurs je vous tiendrai parole à vous conduire selon mon jugement et non selon vos désirs), ou au conseil de quelque personnes spirituelles que l’on pourrait prendre.

Demeurez, ma Fille, toute résignée dans les mains de Notre Seigneur ; donnez-lui le reste de vos ans, et le suppliez qu’il les emploie au genre de vie qui lui sera plus agréable. Ne préoccupez point votre esprit par des vaines promesses de tranquillité, de goût, de mérites ; mais présentez votre cœur à votre Époux, tout vide d’autres affections que de son chaste amour, et le suppliez qu’il le remplisse purement et simplement des mouvements, désirs et volontés qui sont dedans le sien, afin que votre cœur, comme une mère perle, ne conçoive que de la rosée du ciel et non des eaux du monde ; et vous verrez que Dieu nous aidera, et que nous ferons prou [= bien] au choix et à l’exécution.…

Lettre du 6 août 1606 (XIII, 201ss)

2) Discerner les vocations

a) Le rôle relatif de l’attrait dans le discernement d’une vocation

L’avis que la bonne cousine vous donna si constamment, de demeurer en vous même au service de monsieur votre père et en état de vous consacrer par après cœur et corps à Notre Seigneur, était fondé sur une grande quantité de considérations tirées de plusieurs circonstances de votre condition ; c’est pourquoi, si votre esprit se fût trouvé en une pleine et entière indifférence, je vous eusse sans doute dit qu’il fallait suivre cet avis-là, comme le plus digne et le plus propre qu’on vous sût proposer, car, sans difficulté, il eut été tel. Mais puisque votre esprit n’est nullement en l’indifférence, mais totalement penché au choix du mariage, et que nonobstant que vous ayez recouru à Dieu, vous vous y sentez encore attachée, il n’est pas expédient que vous fassiez violence à une si forte impression par aucune sorte de considération ; car toutes les circonstances, qui d’ailleurs seraient plus que suffisantes pour me faire conclure avec la chère cousine, n’ont point de poids au prix de cette forte inclination et propension que vous avez ; laquelle, à la vérité, si elle était faible et débile, serait peu considérable, mais étant puissante et ferme, elle doit servir de fondement à la résolution.

Si donc le mari qui vous est proposé est d’ailleurs sortable, homme de bien et d’humeur compatissante, vous pouvez utilement l’accepter. Je dis : s’il est d’humeur compatissante, parce que ce manquement de taille requiert cela ; comme il requiert de vous que vous contrechangiez ce défaut par une grande douceur, par un sincère amour et par une humilité fort résignée, et bref, que la vraie vertu et perfection de l’esprit couvre universellement la tare du corps.…

À une demoiselle, sans date (XXI, pp. 39s)

b) Le rôle décisif des évènements dans le discernement d’une vocation

J’ai donc appris, par la bouche de la chère cousine, en combien de façons Notre Seigneur avait tâté votre cœur et essayé votre fermeté, ma très chère Fille. Or sus, il se faut saintement animer et renforcer entre toutes ces vagues. Béni soit le vent d’où qu’il vienne, puisqu’il nous fera surgir à bon port !

Voilà, ma très chère Fille, les conditions avec lesquelles nous nous devons donner à Dieu : c’est que, soudain, il fasse sa volonté de nous, de nos affaires et de nos desseins, et qu’il rompe et défasse la nôtre ainsi qu’il lui plaira. Ô qu’heureux sont ceux que Dieu manie à son gré et qu’il réduit sous son bon plaisir, ou par tribulation, ou par consolation ! Mais pourtant, les vrais serviteurs de Dieu ont toujours plus estimé le chemin de l’adversité, comme plus conforme à celui de notre Chef, qui ne voulut réussir de notre salut et de la gloire de son nom que par la croix et les opprobres.

Mais, ma très chère Fille, connaissez-vous bien en votre cœur ce que vous m’écrivez, que Dieu, par des voies épineuses, vous conduit à une condition qui vous avait été offerte par des moyens plus faciles ? Car si vous aviez cette connaissance, vous caresseriez infiniment cette condition que Dieu a choisie pour vous, et l’aimeriez d’autant plus que non seulement il l’a choisie, mais il vous y conduit lui-même, et par un chemin par lequel il a conduit tous ses plus chers et grands serviteurs.…

À la même, sans date (XXI, pp. 40ss)

c) Pas d’a priori dans le discernement d’une vocation

Or, quant à la vocation de mademoiselle de Pressin, je la tiens pour bonne, bien qu’elle soit mêlée de plusieurs imperfections du côté de son esprit, et qu’il serait désirable qu’elle fût venue à Dieu simplement et purement, pour le bien qu’il y a d’être tout à fait à lui. Mais Dieu ne tire pas avec égalité de motifs tous ceux qu’il appelle à soi, mais il s’en trouve peu qui viennent tout à fait à son service seulement pour être siens et le servir.

Entre les filles dont la conversion est illustre en l’Évangile, il n’y eut que la Madeleine qui vint par amour et avec l’amour ; l’adultère y vint par confusion publique, comme la Samaritaine par confusion particulière ; la cananéenne vint pour être soulagée en son affliction temporelle. Saint Paul, premier ermite, âgé de quinze ans, se retira dans sa grotte pour éviter la persécution ; saint Ignace de Loyola par la tribulation, et cent autres.

Il ne faut pas vouloir que tous commencent par la perfection : il importe peu comme l’on commence, pourvu que l’on soit bien résolu de bien poursuivre et de bien finir… Ceux qui furent contraints d’entrer au festin nuptial de l’Évangile ne laissèrent pas de bien manger et de bien boire. Il faut regarder principalement les dispositions de ceux qui viennent à la vie religieuse par la suite et persévérance ; car il y a des âmes qui n’y entreraient pas si le monde leur faisait bon visage, et que l’on voit néanmoins être bien disposées à véritablement mépriser la vanité du siècle. Il est tout certain, ainsi qu’on raconte l’histoire, que cette pauvre fille dont nous parlons, n’avait pas assez de générosité pour quitter l’amour de celui qui la recherchait en mariage, si la contradiction de ses parents ne l’y eusse contrainte ; mais il n’importe, pourvu qu’elle ait assez d’entendement et de valeur pour connaître que la nécessité qui lui est imposée par ses parents, vaut mieux cent mille fois que le libre usage de sa volonté et de sa fantaisie, et qu’enfin elle puisse bien dire : Je perdais ma liberté si je n’eusse perdu ma liberté.…

À la mère de Chastel, mi-mars 1622 (XX, pp. 282ss)

d) Vocation et obéissance

Ma très chère Fille,

Je vous dirai, sur la difficulté qu’a cette bonne fille, qu’elle se trompe grandement si elle croit que l’oraison la perfectionne sans l’obéissance, qui est la chère vertu de l’Epoux, en laquelle, par laquelle et pour laquelle il a voulu mourir. Nous savons par les Histoires et par l’expérience que plusieurs religieux et autres ont été saints sans l’oraison mentale, mais sans l’obéissance, nul.

C’est bien fait, ma très chère Fille, et il ne faut point de réserve ni de condition ; car qui recevrait des âmes de cette sorte, la Congrégation se verrait toute pleine du plus fin, et par conséquent du plus dangereux amour-propre qui soit au monde. L’une mettrait comme condition de communier tous les jours, l’autre d’entendre trois Messes, l’autre de faire quatre heures d’oraison, l’autre de servir toujours les malades, et par ce moyen, chacune suivrait son humeur ou sa présomption au lieu de suivre Notre Seigneur crucifié. Il faut que celles qui entreront sachent que la Congrégation n’est faite que pour servir d’école et de conduite à la perfection, et que l’on y acheminera toutes les filles par les moyens les plus convenables, et que les plus convenables seront ceux qu’elles ne choisiront point. « Qui se gouverne soi-même, dit saint Bernard, il a un grand fou pour gouverneur. »

Qu’elle demeure donc en paix entre les bras de sa Mère, qui la portera et la mènera par le bon chemin. Il faut aimer l’oraison, mais il faut l’aimer pour l’amour de Dieu. Or qui l’aime pour l’amour de Dieu n’en veut qu’autant que Dieu veut lui en donner, et Dieu n’en veut donner qu’autant que l’obéissance le permet. Si donc cette fille (que j’aime néanmoins bien fort pour le bien que vous m’en dites) se veut perfectionner à sa guise, il la faut remettre à elle-même ; mais je ne crois pas, si elle est bien dévote et qu’elle a le vrai esprit d’oraison, qu’elle ne se soumette à la pure obéissance.

Elle s’occupe trop du lendemain en disant que pour un peu de temps elle s’accommoderait de ne faire qu’une demie heure d’oraison, mais que pour toujours, cela lui serait pénible. La vraie servante de Dieu n’est point soucieuse du lendemain ; elle fait fidèlement ce qu’il désire aujourd’hui, demain elle fera ce qu’il désirera, et passé demain ce qu’il désirera, sans dire ni ceci ni cela. C’est ainsi qu’il faut unir sa volonté, non au moyen de servir Dieu, mais à son service et à son bon plaisir. Ne soyez point soucieux du lendemain, et ne dites point : Que mangerons-nous, ni de quoi nous vêtirons-nous, ni de quoi vivrons-nous ?

Votre Père céleste sait que vous avez besoin de tout cela. Cherchez seulement le règne de Dieu, et toutes choses vous seront données. Cela s’entend du spirituel comme du temporel. Que donc cette fille prenne un cœur d’enfant, une volonté de cire, et un esprit nu et dépouillé de toute sorte d’affections, hormis de celle d’aimer Dieu, mais quant aux moyens de l’aimer ils lui doivent être indifférents.

Vivez doucement et saintement entre les peines que vous avez sous votre charge, ma très chère Fille toute bien-aimée, et je prie Dieu qu’il soit la vie de votre âme. Amen.

À la Mère Favre, printemps 1617 (XVII, pp. 359ss)

e) Aimer sa vocation:

Ne semez point vos désirs sur le jardin d’autrui, cultivez seulement bien le vôtre. Ne désirez point de n’être pas ce que vous êtes, mais désirez d’être fort bien ce que vous êtes. Amusez vos pensées à vous perfectionner en cela et à porter les croix, ou petites ou grandes, que vous y rencontrerez. Et croyez-moi, c’est ici le grand mot et le moins entendu de la conduite spirituelle. Chacun aime selon son goût ; peu de gens aiment selon leur devoir et le goût de Notre Seigneur. De quoi sert-il de bâtir des châteaux en Espagne, puisqu’il nous faut habiter en France ?

À la Présidente Brûlart, juin 1607 ( XIII, p. 291)

3) Les âmes compliquées

Je vais vous dire maintenant ce que je vous avais promis. Il semble que je vous voie empressée avec grande inquiétude à la quête de la perfection ; car c’est cela qui vous a fait craindre ces petites consolations et ces sentiments. Or, je vous le dis en vérité, comme il est écrit au Livre des Rois : Dieu n’est ni au vent fort ni en l’agitation, ni en ces feux, mais en cette douce et tranquille portée d’un vent presque imperceptible. Laissez-vous gouverner par Dieu, ne pensez pas tant à vous-mêmes. Si vous désirez que je vous commande, puisque votre Mère Maîtresse le veut, je le ferai volontiers, et vous commanderai premièrement, qu’ayant une générale et universelle résolution de servir Dieu de la meilleure façon que vous le pourrez, vous ne vous amusiez pas à examiner et éplucher subtilement quelle est la meilleure façon. C’est une impertinence propre à la condition de votre esprit délié et pointu, qui veut tyranniser votre volonté et la contrôler avec supercherie et subtilité.

Vous savez que Dieu veut en général qu’on le serve, en l’aimant par-dessus tout, et notre prochain comme nous-mêmes ; en particulier, il veut que vous gardiez une Règle : cela suffit, il faut le faire à la bonne foi, sans finesse ni subtilité, le tout à la façon de ce monde, où la perfection ne réside pas ; à l’humaine selon le temps, en attendant un jour de le faire à l’angélique et selon l’éternité. L’empressement, l’agitation du dessein n’y sert à rien ; le désir en est bon, mais qu’il soit sans agitation. C’est cet empressement que je vous défends expressément, comme la mère imperfection de toutes les imperfections.

N’examinez donc pas si soigneusement si vous êtes dans la perfection ou non. En voici deux raisons : l’une, c’est que c’est pour rien que nous examinons cela, puisque, quand nous serions les plus parfaits du monde, nous ne le devons jamais savoir ni connaître, mais nous estimer toujours imparfaits. Notre examen ne doit jamais tendre à connaître si nous sommes imparfaits, car nous n’en devons jamais douter. De là s’ensuit que nous ne devons pas nous étonner de nous voir imparfaits, puisque nous ne devons jamais nous voir autrement en cette vie ; ni nous en attrister, car il n’y a pas de remède ; mais nous en humilier, car par là nous réparerons nos défauts, et nous en amender doucement ; car c’est l’exercice pour lequel nos imperfections nous sont laissées, et nous ne serions pas excusables de ne pas en rechercher l’amendement, ni inexcusables de ne pas le faire entièrement, car il n’en va pas des imperfections comme des péchés.

L’autre raison, c’est que cet examen, lorsqu’il est fait avec anxiété et perplexité, n’est qu’une perte de temps ; et ceux qui le font ressemblent aux soldats qui, pour se préparer à la bataille, feraient tant de tournois et d’excès entre eux que, quand viendrait le temps de se battre pour de bon, ils se trouveraient fatigués et épuisés ; ou comme les chanteurs qui s’enroueraient à force de s’essayer pour chanter un motet ; car l’esprit se lasse à cet examen si grand et continuel, et, quand le moment de l’exécution arrive, il n’en peut plus. Voilà mon premier commandement.

L’autre, en suite du premier : Si votre œil est simple, tout votre corps le sera, dit le Sauveur. Simplifiez votre jugement, ne faites point tant de réflexions ni de répliques, mais allez simplement et avec confiance. Il n’y a pour vous que Dieu et vous en ce monde ; tout le reste ne doit point vous toucher, sinon dans la mesure où Dieu vous le commande. Je vous prie, ne regardez pas tant ça et là, tenez votre vue ramassée en Dieu et en vous. Vous ne verrez jamais Dieu sans bonté, ni vous sans misère, et vous verrez sa bonté propice à votre misère et votre misère objet de sa bonté et miséricorde. Ne regardez donc rien que cela, je veux dire d’un regard constant, arrêté et exprès, et tout le reste en passant. Dès lors, n’épluchez guère ce que font les autres ni ce qu’ils deviendront, mais regardez-les d’un œil simple, bon, doux et affectionné. N’attendez pas d’eux plus de perfection que de vous et ne vous étonnez point de la diversité des imperfections, car l’imperfection n’est pas plus imperfection lorsqu’elle est extravagante et étrange. Faites comme les abeilles, tirez le miel de toutes les fleurs et herbes.

Mon troisième commandement est que vous fassiez comme les petits enfants : pendant qu’ils sentent que leur mère les tient par les manchettes, ils vont hardiment et courent tout autour, et ne s’étonnent point des petites bricoles que la faiblesse de leurs jambes leur fait faire : ainsi, tandis que vous apercevrez que Dieu vous tient par la bonne volonté et la résolution qu’il vous a donnée de le servir, allez hardiment, et ne vous étonnez point de ces petites secousses et choppements que vous ferez ; et il ne faut pas s’en fâcher, pourvu qu’à certains intervalles, vous vous jetiez dans ses bras et l’embrassiez du baiser de la charité. Allez joyeusement et à cœur ouvert le plus que vous pourrez ; et si vous n’allez pas toujours joyeusement, allez toujours courageusement et confidemment. Ne fuyez pas la compagnie des Sœurs, encore qu’elle ne soit pas selon votre goût ; fuyez plutôt votre goût, quand il ne sera pas selon la conversation des Sœurs. Aimez la sainte vertu de support et de sainte souplesse, car ainsi, dit saint Paul, vous accomplirez la loi de Jésus-Christ.

À la Sœur de Soulfour, 16 janvier 1603 (XII, 163ss)

Je suis assuré que vous remarquerez aisément que les peines intérieures que vous avez souffertes ont été causées par une multitude de considérations et de désirs, produits avec un grand empressement pour atteindre à quelque perfection imaginaire. Je veux dire que votre imagination vous avait formé une idée de perfection absolue, à laquelle votre volonté voulait se porter ; mais épouvantée de la grande difficulté, ou plutôt impossibilité, elle demeurait enceinte au mal de l’enfant, sans pouvoir enfanter. cette occasion, elle multipliait les désirs inutiles, qui, comme des bourdons et des frelons, dévoraient le miel de la ruche, et les vrais et bons désirs demeuraient affamés de toute consolation. Maintenant donc, reprenez un peu haleine, respirez un peu, et, par la considération des dangers passés, divertissez ceux qui pourraient advenir ensuite. Tenez pour suspects tous ces désirs qui, selon le commun sentiment des gens de bien, ne peuvent pas être suivis de leurs effets : tels sont les désirs d’une certaine perfection chrétienne qui peut être imaginée mais non pas pratiquée, et de laquelle plusieurs font les leçons mais nul ne fait les actions.

Sachez que la vertu de patience est celle qui nous assure le plus de la perfection, et s’il la faut avoir envers les autres, il la faut avoir aussi envers soi-même. Ceux qui aspirent au pur amour de Dieu n’ont pas autant besoin de patience envers les autres qu’envers eux-mêmes. Il faut supporter notre propre imperfection pour avoir la perfection, je dis supporter avec patience, et non pas aimer ou caresser : l’humilité se nourrit en cette patience.

Et faut-il pour cela s’inquiéter, se troubler, s’empresser, s’affliger ? Non pas, certes. Faut-il appliquer un monde de désirs pour s’exciter à parvenir à ce signe de perfection ? Non, à la vérité. On peut bien faire de simples souhaits qui témoignent de notre reconnaissance ; je puis bien dire : Hé, que ne suis-je aussi fervent que les Séraphins pour mieux servir et louer mon Dieu ! Mais je ne dois pas m’amuser à faire de tels désirs comme si en ce monde je devais atteindre à cette exquise perfection en disant : Je le désire, je veux essayer , et si je ne puis y parvenir, je me fâcherai. Je ne veux pas dire qu’il ne faille pas se mettre en chemin de ce côté là ; mais il ne faut pas désirer y arriver en un jour de cette mortalité, car ce désir nous tourmenterait, et pour rien. Il faut, pour bien cheminer, nous appliquer à bien faire le chemin que nous avons le plus près de nous, et la première journée, et non pas s’amuser à désirer faire la dernière pendant qu’il faut faire et achever la première.

Je vous dirai ce mot, mais retenez-le bien : nous nous amusons tant parfois à être de bons Anges, que nous cessons d’être de bons hommes et de bonnes femmes. Notre imperfection doit nous accompagner jusqu’au cercueil. Nous ne pouvons point marcher sans toucher terre ; il n’y faut pas s’y coucher ni s’y vautrer, mais il ne faut pas non plus penser voler ; car nous sommes de petits poussins qui n’ont pas encore leurs ailes. Nous mourons petit à petit ; il faut aussi faire mourir nos imperfection avec nous de jour en jour.

Je vous recommande la sainte simplicité. Regardez devant vous, et ne regardez pas ces dangers que vous voyez de loin, ainsi que vous m’avez écrit. Il vous semble que ce sont des armées, ce ne sont que des saules ébranchés, et pendant que vous les regardez, vous pourriez faire quelque mauvais pas. Ayons un ferme et général propos de servir Dieu de tout notre cœur et toute notre vie , et après cela, n’ayons soin du lendemain . Pensons seulement à faire bien aujourd’hui ; et quand le jour de demain sera arrivé, il s’appellera aussi aujourd’hui, et alors nous y penserons. Il faut encore en cet endroit avoir une grande confiance et résignation en la providence de Dieu. Il faut faire provision de manne pour chaque jour, et non plus ; et n’en doutons point, Dieu en fera pleuvoir d’autre demain, et après demain, et tous les jours de notre pèlerinage.

À Mademoiselle de Soulfour, 22 juillet 1603 (XII, pp. 202ss)

Je vois clairement cette fourmilière d’inclinations que l’amour-propre nourrit et jette sur votre cœur, ma très chère Fille, et je sais fort bien que la condition de votre esprit subtil, délicat et fertile contribue à cela ; mais pourtant, ma très chère Fille, en fin ce ne sont pour tout que des inclinations, et puisque vous en sentez l’importunité et que votre cœur s’en plaint, il n’y a pas d’apparence qu’elles soient acceptées par aucun consentement, ou du moins par un consentement délibéré. Non, ma très chère Fille, votre chère âme ayant conçu le grand désir que Dieu lui a inspiré de n’être qu’à lui, ne croyez pas facilement qu’elle prête son consentement à ces mouvements contraires. Votre âme peut être agitée par le sentiment de ses passions, mais je pense que rarement il pèche par consentements.

Ô moi misérable homme, disait le grand Apôtre, qui me délivrera du corps de cette mort ? Il sentait un corps d’armée composé de ses humeurs, aversions, habitudes et inclinations naturelles, qui avaient conspiré sa mort spirituelle ; et parce qu’il les craint, il témoigne qu’il les hait ; et parce qu’il les hait, il ne les peut supporter sans douleur ; et sa douleur lui fait faire cet élan d’exclamation, à laquelle il répond lui-même que la grâce de Dieu, par Jésus-Christ, le garantira, non de la crainte, non de la frayeur, non de l’alarme, non du combat, mais bien de la défaite, et l’empêchera d’être vaincu.

Ma Fille, être en ce monde et ne pas sentir ces mouvements de passions sont choses incompatibles. Notre glorieux saint Bernard dit que c’est hérésie de dire que nous puissions persévérer en un même état ici-bas, d’autant que le Saint Esprit a dit par Job, parlant de l’homme, que jamais il n’est en même état. C’est pour répondre à ce que vous dites de la légèreté et inconstance de votre âme, car je crois fermement qu’elle est continuellement agitée des vents de ses passions, et que par conséquent elle est toujours en branle ; mais je crois aussi fermement que la grâce de Dieu et la résolution qu’elle vous a donnée, demeure continuellement en la pointe de votre esprit, où l’étendard de la Croix est toujours arboré, et où la foi, l’espérance et la charité prononcent toujours hautement : VIVE JESUS !

Voyez-vous, ma Fille, ces inclinations d’orgueil, de vanité et de l’amour-propre se mêlent partout, et insinuent insensiblement et sensiblement leurs sentiments en presque toutes nos actions ; mais elles ne sont pas pour cela les motifs de nos actions. Saint Bernard les sentant qui le fâchaient tandis qu’il prêchait : « Retire-toi de moi, Satan, dit-il ; je n’ai pas commencé pour toi et ne finirai pas pour toi. »

J’ai une seule chose à vous dire, ma très chère Fille, sur ce que vous m’écrivez que vous fomentez votre orgueil par des affectations en paroles, en lettres. En paroles, certes, l’affectation passe si insensiblement qu’on ne s’en aperçoit presque pas ; mais si pourtant on s’en aperçoit, il faut soudain changer le style. Mais dans les lettres, cela est beaucoup plus insupportable ; car on voit mieux ce que l’on fait, et si l’on s’aperçoit d’une notable affectation, il faut punir la main qui l’a écrite, en lui faisant écrire une autre lettre d’un autre ton.

Au reste, ma très chère Fille, je ne doute point que parmi cette si grande quantité de tours et de retours de cœur, il ne se glisse par-ci par-là quelques fautes vénielles ; mais pourtant, comme étant passagères, elles ne nous privent pas du fruit de nos résolutions, mais seulement de la douceur qu’il y aurait de ne point faire ces manquements, si l’état de cette vie le permettait.

Alors, soyez juste : n’excusez ni n’accusez qu’avec une mûre considération votre pauvre âme, de peur que si vous l’excusez sans fondement vous ne la rendiez insolente, et si vous l’accusez légèrement vous ne lui abattiez le courage et ne la rendiez pusillanime. Marchez simplement, et vous marcherez confidemment. Il faut encore que j’ajoute à cette fin de page ce mot important : ne chargez point votre faible corps d’aucune austérité autre que celle que la Règle vous impose ; gardez votre force corporelle pour servir Dieu dans les pratiques spirituelles, que nous somme souvent contraints de laisser lorsque nous avons indiscrètement chargé celui qui, avec l’âme, doit les exercer.

Ecrivez-moi quand vous voudrez, sans cérémonie ni crainte ; n’employez point le respect contre l’amour que Dieu veut entre nous, selon lequel je suis à jamais invariablement

Votre très humble frère et serviteur,

À Angélique Arnaud, automne 1619 (XIX, pp. 50ss)

Que puis-je vous dire en cette occasion, ma très chère Fille, sinon qu’entre les bien grandes consolations que j’attends de revoir notre bonne Mère, celle de l’entendre parler de votre cœur en est une ? Mais je ne veux pas dire pourtant, que je veuille attendre son retour pour en apprendre des nouvelles, de ce cher cœur. Dites-moi donc, ma toujours plus chère Fille, que fait-il ? car maintenant il sait la résolution qui a été prise par ces six ou sept grands serviteurs de Dieu qui s’assemblèrent à son sujet.

Or sus, il faut donc attendre le mot de Rome, et en attendant demeurer en paix ; et quand le mot sera venu, demeurer en paix ; et quoi qu’il dise, demeurer en paix, et toujours demeurer en paix de tout notre pouvoir. Le passeport des filles de Jésus-Christ, c’est la paix ; la joie des filles de Notre-Dame, c’est la paix.

Il est vrai, ma très chère Fille, que vous n’avez point de cœur qui soit ni plus ni certes tant vôtre que le mien. Dieu soit béni ! Amen.

À Angélique Arnaud, 24 janvier 1622 (XX, p. 263)

Introduction aux lettres de saint François de Sales
à sainte Jeanne de Chantal

Vive Dieu ! ma Fille : ou rien, ou Dieu ; car tout ce qui n’est pas Dieu, ou n’est rien, ou est pis que rien. (1)

La correspondance entre saint François de Sales et sainte Jeanne de Chantal constitue la chronique de la plus extraordinaire amitié de tous les temps, car si l’amitié est réciproque communication de choses vertueuses, comme le rappelle François citant Aristote (2), le bien échangé ici n’est autre que Dieu lui-même : Si nous avions un seul filet d’affection en notre cœur qui ne fut pas à lui et de lui, ô Dieu, nous l’arracherions tout soudainement. (3) Mieux encore pour le chrétien, cette amitié entre Jeanne et François accomplit l’ultime prière de Jésus-Christ pour les siens : Père, qu’ils soient un comme nous sommes un, moi en eux et toi en moi, afin qu’ils soient parfaits dans l’unité. (4) Si bien que suivre le développement de cette amitié sera pénétrer le mystère du Christ en ses disciples, en même temps que celui de deux cœurs incroyablement doués pour aimer, et qui bientôt n’en feront plus qu’un en celui de Jésus pour l’éternité :

Ô ma Mère, Dieu comble de bénédictions votre cœur, que je chéris comme mon cœur propre. Je suis sans fin vôtre, en Celui qui sera par sa miséricorde, s’il lui plaît, sans fin tout nôtre. (5)

Certes, il est toujours fâcheux d’ouvrir une étude par des superlatifs ; et puis nous n’avons pas tout lu, et tout ce qui a été écrit n’a pas été publié, et il y a des amitiés qui n’ont point laissé de traces écrites… Oui, bien sûr. Mais enfin, même s’il est absurde d’établir une hiérarchie entre les chefs d’œuvre, ils ne sont chefs d’œuvre qu’en raison de la sensation d’absolu qu’ils dégagent, et qui en font des références pour comprendre et évaluer d’autres œuvres, lesquelles ne seront grandes, moyennes ou petites que par rapport à eux. Et nous sommes ici en face d’un triple absolu : qu’il s’agisse des lettres françaises, de l’analyse de l’âme ou de sa vocation à la sainteté, François nous porte ici au sommet.

Absolu littéraire ; François de Sales est en train de mettre au monde la langue française naissante, toute fraîche encore, colorée et libre, car j’aime les âmes indépendantes, vigoureuses et qui ne sont pas femelles, déclare-t-il à la baronne (6). On n’osera plus cette verdeur cent ans plus tard !

Absolu des sentiments, avant que ce mot ne sombre dans la mollesse romantique : Je me sens une suavité extraordinaire de l’amour que je vous porte, car j’aime cet amour incomparablement, fort, impliable et sans mesure ni réserve… (7) Il s’agit bien d’un jeune évêque écrivant à une jeune veuve, et, tant pis pour les âmes femelles, ils seront tous deux canonisés ! Oui, tant pis, car j’aime sans mesure, sans fin, hors de toute comparaison et au-dessus de tout ce qui s’en peut dire, ma très chère âme que vous avez… (8)

Et pourtant, absolu religieux : …mais amour doux, facile, tout pur, tout tranquille ; bref, si je ne me trompe, tout en Dieu. (9)

Dieu m’a donné à vous… (10) Dès cette toute première ligne de leur correspondance, on comprend que François va vivre le défi le plus rare de la sainteté chrétienne : donné à Dieu depuis toujours, voici que Dieu le donne à Jeanne, au point qu’il fera quelques années plus tard le vœu de recevoir et tenir son âme comme sienne, pour en répondre devant notre Sauveur (11), Jeanne de son côté lui rappelant comme une évidence : vous savez que je suis vous-même, par la grâce de Dieu. (12)

Au-delà des mots si insuffisants d’amitié, ou même d’amour, c’est cet échange d’âmes que nous allons voir se former et s’épanouir au fil de leurs lettres. La part de Jeanne en a presque entièrement disparu, puisque dans une pudeur qui ajoute encore à notre affection, elle a préféré brûler ce qui, à ses yeux, ne méritait de vivre que dans le cœur de François : de Jeanne à François, il ne nous reste plus qu’une quarantaine de lettres, souvent de simples billets d’affaire, assez toutefois pour deviner la parfaite symétrie de leurs échanges. Ne regrettons rien : s’il est vrai que “l’âme aimante vit plus là où elle aime, que là où elle anime”, c’est bien dans ce cœur de François que nous trouverons Jeanne en sa vérité ultime, en même temps qu’elle nous découvrira le secret de ce gentilhomme qui ne fut pasteur, fondateur, écrivain, diplomate, mystique, et tout cela excellement, que parce que d’abord il fut son très cher Père, tout uniquement et chèrement bien aimé (13).

1. La chronique d’une sainte amitié

1.1. La découverte mutuelle

Lorsque le saint et prestigieux évêque de Genève arrive à Dijon début mars 1604 pour y prêcher le carême à la meilleure société, sans doute ne se doute-t-il guère de ce qui l’y attend. Six semaines plus tard, apparemment indifférent aux succès et conversions qui, là comme ailleurs, auront accompagné sa parole, une nouvelle grande affaire occupe son cœur et son esprit : non plus la reconquête catholique du Chablais, non plus la réforme de son diocèse dévasté, non plus tout ce que lui offre la France d’Henri IV, non plus l’œuvre littéraire qui s’esquisse, mais Jeanne. Dès la première étape de son voyage de retour, comme inquiet qu’elle puisse en douter, François griffonne deux lignes urgentes à son intention :

Dieu, ce me semble, m’a donné à vous ; je m’en assure toutes les heures plus fort. C’est tout ce que je vous puis dire ; recommandez-moi à votre bon ange. François, évêque de Genève.

Nous sommes le 26 avril 1604 ; ils s’étaient vus pour la première fois le 5 mars, ils ont pu se parler ensuite autant qu’ils l’ont souhaité, et ils savent que désormais Dieu les a donnés l’un à l’autre ; jusqu’au soir de sa vie, François le répétera à Jeanne dans ses lettres les plus décisives : C’est assez dit une fois pour toutes : oui, Dieu m’a donné à vous ; je dis uniquement, entièrement, irrévocablement. (14) Tout cela est trop connu pour nous y attarder ; entrons dans l’âme de François.

L’âme de François : nous partons de l’hypothèse, trop longue à développer ici, que depuis la violente crise spirituelle de ses vingt ans, François est un saint. Certes, il n’a pas fini de grandir, certes, les saints pèchent encore sept fois par jour, mais les choix fondamentaux qui font les saints sont définitivement en place chez François au sortir de cette crise, qui l’aura fait passer, et l’âme occidentale avec lui, du Dieu désespérant de Calvin et de Baïus, à cette certaine douce émotion de cœur, qui témoigne que Dieu est Dieu du cœur humain. (15)

À cette donnée religieuse fondamentale, ajoutons maintenant une composante importante de la personnalité de François : la richesse de sa perception du monde féminin. Qu’il parle d’une villageoise, de la Sainte Vierge ou d’une novice de la Visitation, il sent étonnament les ressorts de l’âme féminine. Cela aussi a été largement étudié, mais remarquons qu’à 37 ans, si François avait donné beaucoup de place à la tendresse d’une maman qui n’avait pas quinze ans de plus que lui, à l’affection d’une petite sœur qui en avait vingt cinq de moins et à laquelle il passera tous ses caprices, à l’amitié de toutes les Philothée qui lui feront écrire l’Introduction à la Vie dévote, la rencontre de Jeanne va le trouver comme désarmé devant des sentiments qu’aucune femme n’avait encore éveillés en lui. Et il lui faudra quelques mois pour comprendre ce qui lui arrive, c’est-à-dire jusqu’au pélerinage à Saint-Claude en août 1604, qui leur permettra de planter définitivement le décor de leur avenir commun. Mais redisons-le : au moment de leur première rencontre, François est un saint, et si on le devine pris d’un certain vertige au contact de Jeanne, il n’appartient qu’au Christ, et c’est sur un équilibre surnaturel à toute épreuve que nous allons voir peu à peu s’organiser ses émotions.

1.2. Les premiers mois

Dans cette exploration de lui-même, remarquons d’abord cette hâte de François d’envoyer quelques lignes à Jeanne, au soir d’une journée harassante sur sa route de retour, comme pour la rassurer, ou se rassurer lui-même, sur la permanence de ce qu’ils s’étaient dit à Dijon, ainsi qu’il le lui répétera une semaine plus tard : C’est toujours pour vous assurer davantage que j’observerai soigneusement la promesse que je vous ai faite de vous écrire le plus souvent que je pourrai… Écrivez-moi, je vous supplie, le plus souvent que vous pourrez, avec toute la confiance que vous saurez. (16) “Le plus souvent que vous pourrez…” ; disons-le une fois pour toutes : ce sera la seule limite à la fréquence de leurs échanges. Et dans la même lettre, François observe sur lui-même une loi bien connue de l’amour véritable, c’est-à-dire d’un amour qui part du cœur et non des sens : Plus je me suis éloigné de vous selon l’extérieur, plus je me sens joint et lié selon l’intérieur.

Mais pour l’instant, François n’en est qu’aux premières constatations, et quelques semaines plus tard, on voit que la nature exacte du phénomène n’est pas encore claire à ses yeux : Croyez bien que j’ai une vive et extraordinaire volonté de servir votre esprit de toute l’étendue de mes forces. Je ne vous saurais pas expliquer ni la qualité ni la grandeur de cette affection que j’ai à votre service spirituel ; mais je vous dirai bien que je pense qu’elle est de Dieu et que pour cela je la nourrirai chèrement, et que tous les jours je la vois croître et s’augmenter notablement. S’il m’était bien séant je vous en dirais davantage, et avec vérité, mais il faut que je m’arrête là. (17) “S’il m’était bien séant…” ; un peu plus loin : J’ai repris la plume plus de douze fois pour vous écrire ces deux feuil1es… ; un peu plus tard : Je n’en voulais pas tant dire, mais un mot tire l’autre…, que ceci ne se communique point à personne… (18) Bref, on le sent tâtonnant, tortillant sa plume, se demandant, en quelque sorte, jusqu’où il peut aller trop loin ! Et cela durera encore des mois, jusqu’au moment où, finalement, ils auront vérifié l’un et l’autre que cette affection est bien de Dieu, si bien qu’en fait d’aller trop loin, ils n’iront jamais assez loin !

Parce que cette affection est de Dieu, François en relève une autre loi caractéristique, présente dès le départ, et qui se vérifiera toujours davantage jusqu’au soir de sa vie. Un saint Jean de la Croix nous dit que lorsqu’une affection vient de Dieu, plus elle grandit, plus celle de Dieu grandit aussi, et réciproquement ; tandis que si elle vient de la sensualité, c’est l’inverse qui se produit. (19) Dès sa lettre du 24 juin, François remarque : Je ne dis jamais la sainte Messe sans vous et ce qui vous touche de plus près ; je ne communie point sans vous… Et quelques mois plus tard : Le Seigneur sait si j’ai jamais communié sans vous dès mon départ de votre ville… (20); ou encore : Tous les jours je donne votre cœur à Dieu avec celui de son Fils en la sainte messe. (21) Et toute la suite de leur correspondance montre que c’est là, dans la prière, mais d’abord dans le Saint-Sacrement, qu’ils se savent présents l’un à l’autre, réellement présents en cette présence réelle, quels que soient les temps et les distances.

De cette phase d’apprentissage, une étape importante sera le pélerinage à Saint-Claude du mois d’août 1604. Jeanne et François prendront quatre jours (et même une partie de ses nuits, avouera François !) pour un premier bilan. Dés le mois de juin, ils avaient convenu de simplifier le protocole entre eux : Que vous importe-il de savoir si vous me pouvez tenir pour votre père spirituel ou non, pourvu que vous sachiez quelle est mon âme en votre endroit et que je sache quelle est la vôtre au mien ? (22) Et peu à peu, même si le gentilhomme résiste un peu, “Madame” et “Monseigneur” vont devenir “Ma Fille” ou “Ma Sœur, et “Mon Père”, en attendant “Ma Mère” et “Mon très cher Père” un peu plus tard. À Saint-Claude, donc, ils mettent tout à plat, François devient officiellement le directeur de Jeanne, il lui trace à ce titre un cadre de vie chrétienne qui ne variera plus, tandis qu’elle fait vœu d’obéissance entre ses mains et renouvelle celui de perpétuelle chasteté.

Pour notre chance, Jeanne est une inquiète, et dès qu’une décision importante est prise, on la voit tentée de faire demi-tour ; ce qui fait qu’elle appelle François au secours, provoquant par là quelques unes de ses plus admirables lettres de direction spirituelle. Nous analyserons un peu plus bas celle qui fait suite à cette rencontre de Saint-Claude (23), mais en voici déjà de quoi résumer le chemin parcouru en quatre mois depuis la rencontre de Dijon, en même temps que l’état d’âme de l’un et de l’autre:

Dès le commencement que vous conférâtes avec moi de votre intérieur Dieu me donna un grand amour de votre esprit. Quand vous vous déclarâtes à moi plus particulièrement, ce fut un lien admirable à mon âme pour chérir de plus en plus la vôtre, qui me fit vous écrire que Dieu m’avait donné à vous, ne croyant pas qu’il se pût plus rien ajouter à l’affection que je sentais en mon esprit, et surtout en priant Dieu pour vous. Mais maintenant, ma chère Fille, il y est survenu une certaine qualité nouvelle qui ne se peut nommer, ce me semble ; mais seulement son effet est une grande suavité intérieure que j’ai à vous souhaiter la perfection de l’amour de Dieu et les autres bénédictions spirituelles. Non, je n’ajoute pas un seul brin à la vérité, je parle devant le Dieu de mon cœur et du vôtre. Chaque affection a sa particulière différence d’avec les autres ; celle que je vous ai a une certaine particularité qui me console infiniment, et, pour dire tout, qui m’est extrêmement profitable. Tenez cela pour une très véritable vérité et n’en doutez plus. Je n’en voulais pas tant dire, mais un mot tire l’autre, et puis je pense que vous le ménagerez bien.

Grand cas ce me semble, ma Fille : la sainte Église de Dieu, à l’imitation de son Époux, ne nous enseigne point de prier pour nous en particulier, mais toujours pour nous et nos frères chrétiens : « Donnez nous, » dit elle, « accordez nous, » et en semblables termes qui en comprennent plusieurs. Il ne m’était jamais arrivé, sous cette forme de parler générale, de porter mon esprit à aucune personne particulière : depuis que je suis sorti de Dijon, sous cette parole de nous, plusieurs particulières personnes qui se sont recommandées à moi me viennent en mémoire ; mais vous, presque ordinairement la première, et quand ce n’est pas la première, ce qui est rarement, c’est la dernière pour m’y arrêter davantage. Se peut-il dire plus que cela ? Mais, à l’honneur de Dieu, que ceci ne se communique point à personne ; car j’en dis un petit trop, quoi qu’avec toute vérité et pureté. En voilà bien assez pour répondre ci-après à toutes ces suggestions (24), ou au moins pour vous donner courage de vous moquer de leur auteur et lui cracher au nez. Je vous dirai le reste un jour, ou en ce monde ou en l’autre.

…Croyez de moi deux choses : l’une, que Dieu veut que vous vous serviez de moi, et n’en doutez point ; l’autre, que en ce qui sera pour votre salut, Dieu m’assistera de la lumière qui me sera nécessaire pour vous servir ; et, quand à la volonté, il me l’a déjà donnée si grande qu’elle ne peut l’être davantage. J’ai reçu le billet de vos vœux, que je garde et regarde soigneusement comme un juste instrument de notre alliance toute fondée en Dieu, et laquelle durera à l’éternité, moyennant la miséricorde de Celui qui en est l’auteur. (25)

Les lettres des mois suivants montrent la persistance de ces dispositions, mais la persistance aussi des scrupules de Jeanne, si bien qu’une nouvelle rencontre doit être envisagée pour le printemps suivant. Cette fois-ci, François réserve largement son temps, et prépare minutieusement le séjour de Jeanne au château familial de Sales, bien décidé, semble-t-il, à lui faire franchir une nouvelle étape. En effet, après une revue générale de l’âme de Jeanne et le renouvellement de ses vœux de chasteté et obéissance, il évoque pour la première fois devant elle à mots couverts son idée déjà formée d’une forme inédite de vie consacrée féminine, à laquelle elle serait associée. Comme il devait le prévoir, il n’en a pas fallu davantage pour que Jeanne désormais ne pense plus qu’à cela ; la voilà sortie du cercle étroit de son veuvage scrupuleux : leur correspondance comme l’ensemble de leurs relations vont prendre de ce fait un tour nouveau, nous conduisant cinq ans plus tard à la fondation de la Visitation. Qu’il nous suffise, pour conclure cette première phase, de citer la lettre qui suivra le retour de Jeanne en Bourgogne, et qui nous révèle l’état d’esprit dans lequel ils vont aborder cette grande aventure, bien conscients par la suite d’en avoir jeté les fondations durant ce séjour qui leur sera d’inoubliable mémoire :

Que ces jours en lesquels Dieu vous a faite toute sienne vivent à jamais en votre esprit, et que la souvenance en soit perpétuelle ! Oui-da, ma Fille, ce sont des jours desquels le souvenir nous sera éternellement agréable et doux… Je veux que nous les appelions jours de notre dédicace, puisqu’en iceux vous avez si entièrement dédié votre esprit à Dieu…

Non, il ne sera jamais possible que chose aucune me sépare de votre âme ; le lien est trop fort. La mort même n’aura point de pouvoir pour le dissoudre, puisqu’il est d’une étoffe qui dure éternellement… Tant que je pourrai, je m’épargnerai pour vous tenir parole, afin que, moyennant la grâce céleste, je vous serve longuement. (26)

1.3. La maturité d’une relation

À partir de l’été 1605, Jeanne et Françoise avancent d’un même pas, et au fond, les découpes à faire ultérieurement dans leur correspondance sont liées aux temps et aux lieux plus qu’à une éventuelle évolution de leurs relations. Ces lettres de la maturité mériteraient une analyse doctrinale complète, car elles sont en fait le laboratoire du salésianisme, et l’on en retrouverait des passages entiers repris dans la direction d’autres correspondants, ou dans le Traité de l’Amour de Dieu, élaboré sur le fond d’un dialogue continuel avec Jeanne : Mon Dieu, ma Fille, que je suis aisé de parler un peu de ces choses avec vous ! (27) Mais restons-en à ce que ce dialogue nous dit de l’âme de ses protagonistes.

Plus que d’une évolution, il faut donc parler d’un approfondissement de leurs relations. Certes, à partir de 1610, la proximité de Jeanne désormais établie à Annecy diminuera forcément le nombre des vraies lettres, remplacées par de multiples “notes de service” ; certes, au fil des voyages de Jeanne devenue fondatrice, les considérations administratives et les problèmes de gouvernement prendront souvent le pas sur la direction spirituelle proprement dite, mais une lecture d’ensemble montre que la ferveur de leur affection, que la simplification de leur perception mutuelle, que leur volonté d’être l’un pour l’autre en Jésus, en un mot, que leur union, ne fera que croître au fil du temps. Pour qui en douterait, nous citerons un seul passage qui suffira à montrer leur surnaturelle affection, au moment où cette union étant définitivement formée, François entame la période la plus chargée de son épiscopat (…ce ne sont pas des eaux, ce sont des torrents que les affaires de ce diocèse ! (28)), et où s’ouvre pour eux deux la perspective de la Visitation :

Je ne vous dirai rien de la grandeur de mon cœur en votre endroit, mais je vous dirai bien qu’elle demeure bien loin au-dessus de toute comparaison ; et cette affection est blanche plus que la neige, pure plus que le soleil : c’est pourquoi je lui ai lâché les rênes pendant cette absence, la laissant courir de son effort. Oh, cela ne se peut dire, Seigneur Dieu, quelle consolation au Ciel à s’entr’aimer en cette pleine mer de charité, puisque ces ruisseaux en rendent tant !… À Dieu, ma très chère Fille ; à ce grand Dieu, dis-je, auquel nous nous sommes voués et consacrés, et qui m’a rendu pour jamais et sans réserve tout dédié à votre âme, que je chéris comme la mienne, [plus encore] que je tiens pour toute mienne en ce Sauveur qui, nous donnant la sienne, nous joint inséparablement en lui. (29)

À partir d’ici, nous abandonnerons donc aux biographes de Jeanne et de François la suite des événements, pour en rester à ce que leur seule correspondance révèle de leurs relations. Et d’abord, quel fut le rythme, l’abondance et les circonstances rédactionnelles de ces échanges par écrit?

1.4. Le seul moyen de communiquer

Il est trop évident que notre siècle ne sait plus écrire : la lettre d’amour ou d’affaire distribuée par le facteur, ne véhicule plus qu’une infime partie de l’information désormais transmise instantanément par messagerie électronique ou par le téléphone. Le geste même d’écrire ne pèse plus rien, alors que lorsqu’il était malade, François de Sales était obligé de dicter, l’effort physique du maniement de la plume d’oie sur le papier lui étant interdit par les médecins. Et surtout, la transmission des lettres était longue (dix jours quand tout allait bien entre Dijon et Annecy), les porteurs plus ou moins fiables, les risques de perte considérables… La disparition de toutes ces contraintes fait que nous avons perdu la délicieuse et angoissante sensation qui décuplait l’importance de la correspondance au siècle de nos deux amis : attendre une lettre. Pour mesurer l’intensité de cette attente, réalisons que lorsque le 4 avril 1610, François, escorté de vingt cinq gentilhommes, accueille sollennellement Jeanne à la porte d’Annecy en vue de fonder la Visitation, ce n’est que la septième fois de leur vie qu’ils se voient ! Tout le reste s’est fait par lettres !

Alors, combien de lettres ? Il nous reste, tous correspondants confondus, environ 2500 lettres de François, et l’on a estimé que cela représente le dixième de ce qu’il a pu écrire. Ses domestiques on témoigné qu’il ne leur était pas rare de devoir expédier vingt-cinq lettres le même jour !

Les seules lettres à Jeanne qui nous restent sont au nombre d’environ 300. Combien ont été perdues ? Il est bien difficile de le dire. Nous avons déjà noté l’essentiel : ils se sont écrit le plus qu’ils ont pu. Cela donnait une lettre par jour à certaines périodes, une lettre tous les quinze jours à d’autres (30) ; la moyenne nous semblerait de deux lettres dans chaque sens chaque semaine, en dehors des périodes où ils pouvaient se voir directement.

Bien sûr, tout change à partir de l’installation de Jeanne à Annecy : désormais, leurs rencontres seront presque quotidiennes. Et l’on observe pour ces rencontres ce que l’on a déjà relevé pour les lettres : aucune restriction. Sachez, ma très chère mienne Fille (mais vous le savez bien), que ça été outre mon gré que j’ai passé cette journée sans vous voir… C’est, de vrai, un sèvrement aux enfants de demeurer les jours entiers comme cela… Demain ce sera sans nulle faute, s’il n’arrive de l’impossibilité. Ou encore : Ô, Dieu me donnera demain quelque heure pour vous voir. Croyez que ce ne sera pas si tôt que je le souhaite… Ces petits billets ne sont pas datés, et appartiennent à un nouveau type de communication entre eux : quelques lignes rédigées à toute occasion et portées en un quart d’heure par un domestique de l’évêché à la Galerie. C’est souvent dans ces billets soigneusement conservés par Jeanne, que François est le plus spontané, et que nous trouvons les formules les plus librement abandonnées de son affection pour Jeanne au soir de sa vie.

Quoi qu’il en soit, il y a des lettres montrables, et d’autres qui ne le sont pas : vu que le courrier était le moyen essentiel de faire connaître les nouvelles, et qu’il était quasiment impossible de le reproduire, l’habitude de l’époque était de facilement faire circuler les lettres. C’est ainsi que François charge souvent Jeanne de communiquer à d’autres correspondantes auxquelles il ne peut pas prendre le temps d’écrire, des réponses à des questions souvent très personnelles de direction spirituelle. En tout cas, dans le cas de Jeanne, il tient très vite à indiquer les limites à ne pas dépasser : Je veux bien que vous communiquiez mes avis qui regardent votre conscience avec votre confesseur, mais non pas mes lettres, qui sont un peu trop naïves et cordiales pour être vues par des yeux autres que bien simples, et répondant à mon intention toute franche et ronde à votre endroit. (31) Il y aura d’autres rappels…

Et cela parce que, on l’aura deviné, écrire à Jeanne, c’est le meilleur moment de la journée de François, une vraie récréation au cours de laquelle il ne s’embarrasse d’aucune censure, laissant courir sa plume tout à l’abandon, selon qu’il me viendra(32); et même quand il est interdit d’écrire, avec Jeanne, cela reste permis, d’autant quil n’y a nul moyen d’écrire qu’aux heures auxquelles vous ne voulez pas que j’écrive! (33) Alors,

Il est vrai que les médecins m’ont défendu d’écrire le soir après souper, qui est le seul temps duquel je puis disposer ; mais ils ne m’ont pas défendu de vous écrire en plein jour, comme je fais maintenant. ]’ai tant de suavité au désir que j’ai de votre bien spirituel, que tout ce que je fais sous ce mouvement ne me saurait nuire. Je vous écrirai donc, et ne vous déplaise, et le plus souvent que je pourrai. Vos lettres, pour longues qu’elles soient, ne me sont jamais que trop courtes. Trèves à toutes ces considérations ; les amitiés cimentées au sang de l’Agneau n’ont pas besoin de tant de cérémonies. (34)

Combien de fois lisons-nous sous sa plume : “Je n’écris qu’à vous !” ; ou bien : “Je ne laisse écouler aucune occasion de vous écrire !” Et cela, redisons-le, jusqu’au soir de sa vie. Et il entend bien que Jeanne agisse de même envers lui : Ecrivez-moi donc, et souvent et sans ordre, et le plus naïvement que vous pourrez ; j’en recevrai toujours un extrême contentement. (35) Car j’aime bien que l’on m’écrive, et très souvent… Si faites, ma Fille, écrivez toujours ! surtout de ces lettres que je lis toujours avec tant d’avidité la première fois! (36)

Et de son côté, Jeanne n’éprouve pas moins de contentement à lui obéir, parlant joliment de ces heures passées à lui écrire comme d’un “petit restaurant” spirituel :

Mon Père, mon unique Père, et tout ce que vous savez que vous m’êtes, ceci me sera un petit restaurant de vous avoir un peu parlé, car enfin tout ce qui est çà-bas maintenant de créé n’est rien du tout pour moi, en comparaison de mon Père très cher, Monseigneur… (37)

Enfin, un dernier facteur doit encore être mentionné : la nécessité d’une particulière discrétion. François et Jeanne avaient convenu qu’ils éviteraient de parler l’un de l’autre sans nécessité ; ils savaient qu’ils vivaient une histoire rare, sinon unique, incompréhensible pour les tiers. Et puis, amour et bavardage font mauvais ménage, c’est prouvé ! Si bien que ne pensez pas que pour être à Lyon vous soyez dispensée du pacte que nous avons fait, que vous seriez sobre à parler de moi, comme de vous-même| (38) De plus, surtout au soir de sa vie, François a dû dicter certaines de ses lettres, s’obligeant dès lors à une certaine froideur, mais qui ne signifie en rien un refroidissement. La preuve en est que lorsqu’il ajoute quelques mots de sa main avant de signer, le ton redevient celui de toujours, comme on le voit encore le 30 août 1622, quatre mois avant sa mort : après le traitement de mille questions administratives, quelques lignes autographes laissent transparaître leur habituelle complicité : Ma très chère Mère, je vous écris de la main de Monsieur Michel jusqu’à présent, que j’achève de tout mon cœur, vous priant de me tenir toujours pour ce que je suis, ainsi que vous savez vous-même… Au premier jour je vous écrirai plus au long…

Ecrire et envoyer une lettre est donc un acte lourd, mais en recevoir une est un événement. Parfois, la poste tarde vraiment trop, et l’impatience se fait sentir : J’admire que vous ayant écrit de Chartres, d’Orléans, de Tours, d’Amboise, vous n’en ayez encore reçu pas un seul mot! (39) Mais on n’en est que plus heureux de recevoir enfin la lettre tant attendue :

Or enfin, ma très chère Fille, hier, voici un paquet qui m’arrive, comme une flotte des Indes, riche de lettres et de chansons spirituelles. Oh, qu’il fut le bienvenu et que je le caressai ! Il y avait une lettre du 22 novembre, l’autre du 30 décembre de l’année passée et la troisième du premier de celle-ci. Que si toutes les lettres que je vous aie écrites pendant ce temps-là étaient en un paquet, elles seraient bien en plus grand nombre ; car, tant que j’ai pu, j’ai toujours écrit et par Lyon et par Dijon. (40)

L’hiver surtout, et ses lenteurs, est une épreuve pour le cœur aimant, mais enfin, ce n’est que l’occasion de reprendre pied sur plus essentiel : Il y a trois mois que je suis sans vos lettres, mais je crois que Dieu est avec vous, ce m’est assez (41)

Voilà pour les conditions dans lesquelles François et Jeanne auront pu rédiger leur admirable correspondance. Lettres d’affection, lettres d’affaire, lettres de direction spirituelle…, mais de toute façon, lettres de cœur ; et c’est la sainteté de ces deux cœurs que nous voudrions maintenant examiner, telle qu’elle s’est développée dans leur situation pour le moins originale.

2. La sainteté du cœur

2.1. La prudence des saints

François avait à l’évidence conscience de l’audace de cette situation. Nous avons relevé ses tâtonnements durant les mois qui ont suivi sa première rencontre de Jeanne, et nous l’avons vu avancer à pas comptés sur un terrain qu’il ne prévoyait pas. Cette période d’apprentissage nous offre quelques unes des lettres de direction les plus précieuses que François ait jamais écrites, alors qu’il lui fallait discerner à la fois dans l’âme de Jeanne et dans la sienne, et que si les choses étaient simples de son côté, elles ne l’étaient pas du côté de Jeanne : s’il a immédiatement perçu chez elle des dons naturels et surnaturels exceptionnels, il a dû libérer son âme fragile de mille complications dûes à un premier directeur qui n’y avait rien compris.

Pour aborder cette complexité de l’âme de la baronne de Chantal, François ne manquait ni d’expérience, ni de clairvoyance, ni même de confiance en lui ; fort de son prestige épiscopale, un autre que lui aurait probablement expédié rondement le premier directeur, et préconisé des solutions d’autorité, mais qui auraient sans doute blessé irrémédiablement l’âme hypersensible de Jeanne. Et puis avec François, il importe peu que le bien se fasse d’une façon ou d’autre, pourvu qu’il se fasse en sorte qu’il en revienne plus grande gloire à Notre Seigneur.(42) Si bien qu’il va commencer par dire à Jeanne que cette première direction était bonne, puisqu’au fond, elle l’aura menée jusqu’à lui, mais qu’elle n’est plus de saison ; ensuite, il va doucement éloigner l’incompétent par une lettre que Jeanne est priée de lui montrer, dans laquelle il a fourré beaucoup de choses pour empêcher le soupçon qu’il eût pu prendre qu’elle fut écrite à dessein(43), et qui est un véritable chef d’œuvre de flagornerie, qui dénonce l’ancien élève des jésuites que fut aussi François de Sales ! Mais sa prudence n’est pas d’abord de cet ordre naturel : au moment d’accepter formellement de devenir le directeur de Jeanne, comme il le lui rappellera dans une de ces crises de scrupules qui la poursuivront de longues années, il prie et fait prier, et surtout ne veut rien arrêter sans la caution d’un homme d’Église autre que lui. En l’occurence, il s’agira du Père de Villars, auquel lui et Jeanne auront recours à plusieurs reprises pour ce genre de service : certes, François a grande confiance en ce religieux par ailleurs de grande qualité, mais ce qu’il lui demande, avec l’humilité des saints, n’est pas tant de confirmer son propre jugement, ou de le conforter dans ses responsabilités, que d’apporter la caution de l’Église, justement, à des décisions qui dès lors pourront être vécues dans la foi. Si bien que si une décision de François est longue à prendre, elle est toujours irréversible et apaisante :

Le choix que vous avez fait de moi pour être votre père spirituel a toutes les marques d’une bonne et légitime élection ; de cela n’en doutez plus, je vous supplie. Ce grand mouvement d’esprit qui vous y a porté presque par force et avec consolation ; la considération que j’y ai apporté avant que d’y consentir ; ce que ni vous ni moi ne nous en sommes pas fiés a nous mêmes, mais y avons appliqué le jugement de votre confesseur, bon, docte et prudent ; ce que nous avons donné du loisir aux premières agitations de votre conscience pour se refroidir si elles eussent été mal fondées ; ce que les prières non d’un jour ni de deux, mais de plusieurs mois ont précédé, sont indubitablement des marques infaillibles que c’était la volonté de Dieu… La difficulté que j’y apportai au commencement, qui ne procédait que de la considération que j’ y devais appliquer, vous doit entièrement résoudre ; car croyez bien que ce n’était pas faute de très grande inclination à votre service spirituel (je l’avais indicible), mais parce qu’en chose de telle conséquence je ne voulais suivre ni votre désir ni mon inclination, mais Dieu et sa providence. (44)

La même prudence surnaturelle transparaît dans la lettre, fondamentale pour l’avenir de Jeanne, du 6 août 1606. Nous arrivons à l’échéance indiquée par François lors de leur rencontre de l’année précédente à Sales, durant laquelle il lui avait promis d’en dire un peu plus sur le fameux projet de vie consacrée, comme Jeanne ne manque pas de le lui rappeler. Après de longs développements sur le nécessaire et aveugle abandon à la seule volonté de Dieu, il aborde enfin le sujet. Il faudrait tout citer ; contentons-nous du plus décisif:

Vous me demandez que je vous dise si je ne pense pas qu’un jour vous quittiez tout à fait et tout à plat toutes choses de ce monde pour notre Dieu, et que je ne le vous cèle pas, mais que je vous laisse cette chère espérance. Ô doux Jésus, que vous dirai-je, ma chère Fille ? Sa toute Bonté sait que j’ai fort souvent pensé sur ce point et que j’ai imploré sa grâce au saint Sacrifice et ailleurs ; et non seulement cela, mais j’y ai employé la dévotion et les prières des autres meilleurs que moi. Et qu’ai je appris jusqu’à présent ? Qu’un jour, ma Fille, vous devez tout quitter ; c’est-à-dire, afin que vous n’entendiez pas autrement que moi, j’ai appris que je vous dois un jour conseiller de tout quitter. Je dis tout ; mais que ce soit pour entrer en Religion, c’est grand cas, il ne m’est encore point arrivé d’en être d’avis ; j’en suis encore en doute, et ne vois rien devant mes yeux qui me convie à le désirer. Entendez bien, pour l’amour de Dieu ; je ne dis pas que non, mais je dis que mon esprit n’a encore su trouver de quoi dire oui. Je prierai de plus en plus Notre Seigneur afin qu’il me donne plus de lumière pour ce sujet, afin que je puisse voir clairement le oui, s’il est plus à sa gloire, ou le non, s’il est plus à son bon plaisir. Et sachez qu’en cette enquête, je me suis tellement mis en l’indifférence de ma propre inclination pour chercher la volonté de Dieu, que jamais je ne le fis si fort ; et néanmoins, le oui ne s’est jamais pu arrêter en mon cœur, si [bien] que jusqu’à maintenant je ne le saurais dire ni prononcer, et le non, au contraire, s’y est toujours trouvé avec beaucoup de fermeté.

Mais parce que ce point est de très grande importance, et qu’il n’y a rien qui nous presse, donnez-moi encore du loisir et du temps pour prier davantage et faire prier à cette intention ; et encore faudra-t-il, avant que je me résolve, que je vous parle à souhait, qui sera l’année prochaine, Dieu aidant. Et après tout cela, encore ne voudrais-je pas qu’en ce point vous prissiez entière résolution sur mon opinion, sinon que vous eussiez une grande tranquillité et correspondance intérieure en celle-ci. Je vous la dirai bien au long, le temps en étant venu ; et si elle ne vous donne pas du repos intérieur, nous emploierons l’avis de quelque autre à qui, peut-être, Dieu communiquera plus clairement son bon plaisir. Je ne vois point qu’il soit requis de se hâter, et cependant vous pourrez vous-même y penser, sans vous y amuser et perdre le temps ; car, comme je vous dis, encore que jusqu’à présent l’avis de vous voir en Religion n’a su prendre place en mon esprit, si est-ce-que [toutefois] je n’en suis pas entièrement résolu. Et quand j’en serais tout résolu, encore ne voudrais-je pas contester et préférer mon opinion ou à vos inclinations, quand elles seraient fortes en ce sujet particulier (car partout ailleurs je vous tiendrai parole à vous conduire selon mon jugement et non selon vos désirs), ou au conseil de quelques personnes spirituelles que l’on pourrait prendre.

Tout quitter ? Oui. Pour entrer en religion (c’est-à-dire dans un ordre religieux comme le Carmel) ? Plutôt non. Et là, on entrevoit la Visitation. Mais, a) prenons tout le temps nécessaire pour y voir clair ; b) prions et faisons prier ; c) mettons-nous dans la sainte indifférence ignatienne ; d) en matière de vocation, seul l’intéressé(e) peut trancher ; e) au moindre doute, nous demanderons à un tiers d’arbitrer. Voilà une décision salésienne.

François ne réserve pas cette prudence aux grandes occasions. Elle est une manière d’être qui accompagne toutes ses décisions, qui les rend aussi efficaces que paisibles, et qui fait que nous ne saurions trop conseiller aux âmes inquiètes de véritablement se gaver de ses lettres à Jeanne. Un dernier exemple, alors que Jeanne hésite une nouvelle fois dans la conduite à tenir en vue de la future Visitation :

Au demeurant, vous avez choisi un confesseur bon, prudent et docte ; dites-lui hardiment nos résolutions telles qu’elles sont, afin de bien alléger votre esprit par ses avis, car je ne doute nullement qu’il n’y bougera rien, mais vous y confortera. Je les dis au Père Recteur de Chambéry, sans rien nommer, il m’y conforta ; je les dis à un autre grand ecclésiastique, il m’y conforta : je les ai dites mille fois à Dieu, mais hélas ! non pas si révéremmentque je devais, et toujours il m’y a conforté. Expliquez donc bien votre fait à votre confesseur, le Père Gentil. Dites-lui les considérations qui font différer la sortie, et puis celles que j’ai faites pour le genre de vie après la sortie (mais, outre tout cela, ce sera sans doute la plus grande gloire de Dieu, pour des raisons que je ne puis dire), et vous verrez qu’il dira que nos résolutions sont résolutions faites de la main de Dieu. Pour moi, je n’en doute nullement. (45)

2.2. La liberté des saints

Jeanne étouffait dans le carcan des promesses faites imprudemment à son premier directeur. Dès la première vraie lettre qu’il lui envoie, le 3 mai 1604, François pose en principe qu’en tout et partout, je désire que vous ayez une sainte liberté d’esprit touchant les moyens de vous perfectionner. Liberté pour les moyens, parce qu’obéissance absolue pour la fin, qui n’est autre que nous unir parfaitement à la divine Bonté, que nous laisser à la merci de la volonté de Dieu.(46) On connaît la célèbre formule “Tout par amour et rien par force”, écrite “en grosses lettres” tant elle est centrale pour la conception salésienne de la sainteté, dans la lettre-programme du 14 octobre 1604. De ce point de vue, il faudrait relire toute la direction spirituelle de Jeanne comme une éducation à la liberté vraie, non pas celle qui exclut l’obéissance, car c’est la liberté de la chair, mais celle qui exclut la contrainte et le scrupule.

De cette liberté, nous ne développerons ici que ses conséquences sur les relations de Jeanne et de François : sera bon entre eux ce qui contribuera à les “unir parfaitement à la divine Bonté”, sera mauvais tout le reste. Donc, pas de limites réglementaires à leur amitié et à ses manifestations, mais une recherche permanente de la volonté de Dieu sur eux. Bref, l’Évangile. Et c’est cette volonté de sainteté qui va mesurer la fréquence et la durée de leurs retrouvailles, visibles ou épistolaires, en même temps qu’elle les maintiendra continuellement unis d’une union de parfaite charité en Dieu lui-même. De façon significative, dans cette même lettre du 14 octobre 1604, François donne à Jeanne comme plus haut exemple de liberté vraie, celui de saint Jean-Baptiste qui, par fidélité à son devoir d’état d’ermite et de prédicateur, renonce à la satisfaction de voir Jésus qui passait dans la région ; il aurait vu Jésus, mais il n’aurait pas été uni à Jésus : Laisser Dieu pour Dieu, et n’aimer pas Dieu pour l’aimer mieux et plus purement… Cet exemple étouffe mon esprit de sa grandeur !

“S’aimer mieux et plus purement…” : on a déjà remarqué que la correspondance de François et de Jeanne, pour abondante qu’elle fût, restait malgré tout limitée par les exigences de leurs devoirs respectifs de mère et d’évêque ; ce sera leur mortification quotidienne : Dites-moi, ma Fille, ne m’est-ce pas de l’affliction de ne vous pouvoir écrire qu’ainsi à la dérobée ? Ô voilà pourquoi il nous faut acquérir le plus que nous pourrons l’esprit de la sainte liberté et indifférence ; il est bon à tout, et même pour demeurer six semaines, voire sept, sans qu’un père, et un père de telle affection comme je suis, et une fille telle que vous êtes, reçoivent aucunes nouvelles l’un de l’autre. (47)

On voit de même, surtout dans les débuts, que François veille à ce que Jeanne ne s’autorise d’aucun faux prétexte pour le rencontrer au détriment de ses obligations, lui demandant doucement, mais clairement, de bien s’examiner en la matière : Si vous pensiez, ma chère Fille, que vous puissiez tirer de ma présence tant d’aide et de bon fruit et de provisions spirituelles comme vous m’écrivez, et que vous en ayez beaucoup de désir, je ne serai pas si dur que de vous remettre à l’année prochaine… (48)

Et grâce à cette rigueur dans la gestion de leurs rapports visibles, dont ils ne se privent pas de dire par ailleurs toute la joie qu’ils leur ont procurée, ils ont pu vivre intérieurement une union invisible et surnaturelle d’exceptionnelle intensité, union qui est l’un des noms de la charité:

Encore faut-il que je vous dise, pour couper chemin à toutes les répliques qui se pourraient former en votre cœur, que je n’ai jamais entendu qu’il y eût nulle liaison entre nous qui portât aucune obligation, sinon celle de la charité et vraie amitié chrétienne, de laquelle le lien est appelé par saint Paul le lien de perfection, et vraiment il l’est aussi, car il est indissoluble et ne reçoit jamais aucun relâchement. (49)

Nous sommes avec cette lettre au tout début de leurs relations, et François en profite pour venir au devant d’une inquiétude qui poursuivra Jeanne durant des années : et si François allait mourir ? Dès le premier jour, François ne veut que de l’immortel entre eux :

Tous les autres liens sont temporels, même celui des vœux d’obéissance, qui se rompt par la mort et beaucoup d’autres occurrences ; mais celui de la charité croît avec le temps et prend nouvelles forces par la durée. Il est exempt du tranchant de la mort, de laquelle la faux fauche tout sinon la charité : La dilection est aussi forte que la mort et plus dure que l’enfer, dit Salomon. (50)

Et en établissant dès le départ leur relation à ce niveau, François en écarte d’avance toute concurrence entre ce qu’ils doivent à Dieu et ce qu’ils vont vivre ensemble, s’obligeant et obligeant Jeanne à continuellement dépasser sans les détruire, des sentiments dont ils éprouvent dès lors sans trouble la merveilleuse douceur :

Voilà, ma bonne Sœur (et permettez-moi que je vous appelle de ce nom, qui est celui par lequel les apôtres et premiers chrétiens exprimaient l’intime amour qu’ils s’entre-portaient), voilà notre lien, voilà nos chaînes, lesquelles plus elles nous serreront et presseront, plus elles nous donneront de l’aise et de la liberté. Leur force n’est que suavité, leur violence n’est que douceur ; rien de si pliable [= si souple] que cela. Tenez-moi donc pour bien étroitement lié à vous, et ne vous souciez pas d’en savoir davantage, sinon que ce lien n’est contraire à aucun autre, soit de vœu, soit de mariage. Demeurez donc entièrement en repos de ce côté-là. (51)

“Plus nos chaînes nous serreront, plus elles nous donneront de l’aise et de la liberté.” Ces chaînes étant celles de l’amour de Dieu, c’est dans l’union à Dieu que François se découvre uni à Jeanne. Nous avons vu que l’une de ses premières et plus rassurantes constatations, étaient de la percevoir particulièrement dans sa prière, et plus particulièrement encore lorsqu’il célébrait la messe. Il ne manquera pas une occasion de le lui rappeler durant ces années où ils se verront peu, la présence réelle du Christ au Saint-Sacrement les rendant présents réellement l’un à l’autre ; “réellement”, c’est-à-dire au delà de toute impression ou de tout sentiment, dans la réalité de Dieu lui-même. À l’occasion de la procession de la Fête-Dieu, je tenais ce divin Sacrement bien serré sur ma poitrine, et m’était avis que les noms des enfants d’Israël étaient tous marqués en iceluy. Oui, et le nom des filles spécialement, et le nom de l’une encore plus… (52) Nous retrouverons ce texte.

Bien serrés par ces chaînes, François et Jeanne peuvent vivre dans “l’aise et la liberté” des enfants de Dieu : nous voyons qu’ils se sont mutuellement et très vite octroyé un droit d’ingérence dans leur vie privée tout à fait extraordinaire, compte tenu de leur pudeur naturelle et de leur éducation. C’est ainsi que Jeanne aura désormais sur François tous les droits d’une mère, veillant sur la santé de son âme et de son corps, et il faudra qu’il obéisse ! L’évêque ne se ménageait guère ; Jeanne y mettra bon ordre, et puisque c’est pour lui faire plaisir, il en est ravi :

Mais savez-vous quelle parole je vous donnerai bien ? C’est d’avoir plus soin de ma santé dorénavant, quoi que j’en aie toujours eu plus que je ne mérite ; et, Dieu merci, je la sens fort entière maintenant, ayant absolument retranché les veillées du soir et les écritures que j’y avais coutume de faire, et mangeant plus à propos aussi. Mais croyez-moi, votre désir à sa bonne part en cette résolution ; car j’affectionne en extrémité votre contentement et consolation, mais avec une certaine liberté et sincérité de cœur telle, que cette affection me semble une rosée, laquelle détrempe mon cœur sans bruit et sans coup. Et, si vous voulez que je vous dise tout, elle n’agissait pas si suavement au commencement que Dieu me l’envoya (car c’est lui sans doute), comme elle fait maintenant, qu’elle est infiniment forte, et, ce me semble, toujours plus forte, quoique sans secousse ni impétuosité. C’est trop dit sur un sujet duquel je ne voulais rien dire… (53)

Trop tard ! C’est quand même dit ! Non, décidément, ils ne sauront jamais se cacher leurs sentiments ! Mais qu’importe : puisque c’est Dieu qui les envoie, pourquoi s’en inquiéter ?

Mais au-delà de ces attentions bien douces, Jeanne doit aussi exercer une véritable maternité spirituelle sur François : Vous me fîtes grand plaisir en l’une de vos lettres de me demander voir si je ne faisais pas l’oraison. Ô ma Fille, si faites : demandez-moi toujours l’état de mon âme, car je sais bien que votre curiosité en cela sort de l’ardeur de la charité que vous me portez. (54) Et cela aussi durera jusqu’au soir de sa vie.

Bref, cette vraie fille doit être une vraie mère : Mon Dieu, que je lis avec beaucoup de consolation les paroles que vous m’écrivîtes, que vous désiriez de la perfection à mon âme presque plus qu’à la vôtre : c’est une vraie fille spirituelle, cela! (55)

2.3. Un amour universel

Faites courir votre imagination tant que vous voudrez, elle ne saurait atteindre où ma volonté me porte, pour vous souhaiter de l’amour de Dieu… Je suis immortellement tout vôtre, et Dieu le sait, qui l’a voulu ainsi, et qui l’a fait d’une main souveraine et toute particulière. (56)

Une telle intensité d’affection a suscité la question suivante : en pensant ainsi l’un à l’autre, Jeanne et François pouvaient-ils encore penser aux autres ? Et l’on sait tout ce que l’on a dit et écrit sur le caractère plus naturel que surnaturel de l’histoire de ces deux âmes. Nous refusons d’entrer dans ce débat, car il n’est pas chrétien : Amo quia amo, j’aime parce que j’aime, disait saint Bernard, l’un des maîtres de François ; l’amour n’est pas répartition, mais union, et c’est en s’unissant à moi que le Christ m’a sauvé, comme s’il n’eût point eu d’autre âme au monde en qui il eût pensé. (57) De ce point de vue, les “autres” ne sont que des êtres de raison, et la prodigieuse fécondité apostolique de François et de Jeanne suffirait à montrer que ces autres sont devenus leurs frères du jour où, unis par le Christ, leur union les a plongés dans le cœur du Christ :

Hélas ! qui regarde le prochain hors de là, il court fortune de ne l’aimer ni purement, ni constamment, ni également ; mais là, qui ne l’aimerait, qui ne le supporterait, qui ne souffrirait ses imperfections, qui le trouverait de mauvaise grâce, qui le trouverait ennuyeux ? Or, il y est ce prochain, mes très chères filles, dans la poitrine du Sauveur ; il est là comme très aimé et tant aimable que l’Amant meurt d’amour pour lui. (58)

Et parce que seule l’union au Christ nous rend aimants, c’est elle qui va mesurer et mettre en ordre tous nos amours, dépassant du même coup la question de la nature exacte de l’affection de François et de Jeanne : Alors encore, l’amour naturel du sang, des convenances, des bienséances, des correspondances, des sympathies, des grâces sera purifié et réduit à la parfaite obéissance de l’amour tout pur du bon plaisir divin. (59)

François et Jeanne avaient l’un et l’autre conscience de vivre cette “parfaite obéissance de l’amour tout pur”, et cela leur suffisait et doit nous suffire ; au procès de canonisation de François, Jeanne témoignera : Parlant une fois à une personne qu’il aimait comme lui-même (nous devinons qui !) de ce souverain amour qu’il portait à Dieu, il lui dit : “Si Dieu me commandait de vous sacrifier, comme il fit à Abraham son fils Isaac, je le ferais.” Et par son action il témoignait qu’il eût fait ce sacrifice avec un courage et un amour non pareils à la divine volonté. (60) Le plus extraordinaire de leur histoire, est qu’ils l’aient vécue dans une parfaite sérénité, le couteau d’Abraham continuellement levé au-dessus de leurs deux têtes. Voilà la liberté des saints, la liberté de la foi. Et pour autant, François ne se privera jamais de dire à Jeanne que sa place dans son cœur est unique (“Dieu l’a faite d’une main souveraine et toute particulière…”), non pas pour prévenir une éventuelle jalousie, mais parce que l’intensité de leur union ne saurait en rien diminuer l’universalité de leur amour :

J’ai dit qu’il y avait dix ans que j’avais été consacré, c’est-à-dire que Dieu m’avait ôté à moi-même pour [me] prendre à lui et puis me donner au peuple ; c’est-à-dire, qu’il m’avait converti de ce que j’étais pour moi en ce que je fusse pour eux. Mais pour ce qui nous regarde, vous savez que Dieu m’a ôté à moi-même, non pas pour me donner à vous, mais pour me rendre vous-même. (61)

“Dieu m’a ôté à moi-même pour me rendre vous-même.” Le lecteur qui nous aura suivi jusqu’ici, aura senti notre embarras pour qualifier précisément la relation établie entre François et Jeanne. Amitié ? C’est trop peu. Affection ? C’est encore moins. Amour ? Le mot est aujourd’hui ambiguë. Union ? Oui, à condition d’aller plus loin encore : il reste le mot chrétien que nous citions dans la prière de Jésus en tête de ces pages, le mot d’unité. François et Jeanne nous font assister à cette œuvre du Christ qui est de rendre ses disciples parfaits dans l’unité. (62) Depuis saint Bernard, ce mot d’unité indique chez les mystiques chrétiens l’aboutissement de l’amour : aimer, c’est devenir l’autre sans cesser d’être soi-même ; mieux, c’est devenir soi-même en l’autre, et par là même s’ouvrir à tous les autres. Je sens cette unité que Dieu a faite, d’un extraordinaire sentiment(63), écrira François au soir de sa vie ; c’est la richesse et la portée véritablement mystique de cette unité, que nous allons tâcher de comprendre pour terminer.

3. Deux âmes qui n’en font qu’une, trois cœurs qui n’en font qu’un

De ce mouvement de leur amour vers l’unité, François et Jeanne ont pris une conscience de plus en plus vive. On pourrait le relever au fil de leur correspondance : d’année en année, on voit peu à peu s’effacer le “je” et le “vous”, au profit du “nous”, et surtout du “notre” : “notre âme”, et plus encore “notre cœur”. De la réciprocité de l’amitié, ils passent ainsi à la communion de l’unité. Nous allons essayer de mettre ce passage en évidence, car c’est lui qui confère son architecture à toute leur correspondance, et qui nous en fournit la véritable clef de lecture.

3.1. Deux âmes qui n’en font qu’une

Que Jeanne soit désignée comme “l’âme” de François, cela apparaît très tôt : Or sus, ma Sœur, ma Fille, mon âme, et ceci n’est pas excessif, vous le savez bien… (64) Mais enfin, cela ne va guère plus loin que l’expression d’une grande affection. En 1609, un mouvement s’opère vers une progressive fusion des deux âmes de Jeanne et de François : parlant de la consécration de son âme à Dieu, celui-ci précise : Et quand je dis de mon âme, je dis de toute mon âme, y comprenant celle que Dieu lui a conjointe inséparablement. Et puisque je suis sur le propos de mon âme, je vous remercie du zèle que vous avez pour son bien, qui est indivis avec celui de la vôtre, si vôtre et mien se peut dire entre-nous pour ce regard. (65) Et quelques mois plus tard il précise encore, dans une note marginale après qu’il ait raturé l’expression : Oui, mon âme, [je raye ce mot non pas de mon cœur mais du papier]· ma Fille… (66)

Les petites phrases de ce genre se multiplient alors ; nous sommes au moment où la Visitation se fonde, et où François perçoit avec une nouvelle lucidité sa relation à Jeanne : Ma Fille, il faut que je vous dise que je ne vis jamais si clairement combien vous êtes ma fille que je le vois maintenant… (67) Et c’est cette perception nouvelle qui va le conduire à formaliser un véritable échange de son âme avec celle de Jeanne, par le vœu évoqué au début de ces pages ; on doit probablement le dater de cette période, et il scelle définitivement leur unité spirituelle. En voici la partie essentielle :

Je, François, évêque de Genève, accepte de la part de Dieu les vœux de chasteté, obéissance et pauvreté, présentement renouvelés par Jeanne Françoise Fremyot, ma très chère Fille spirituelle. Et après avoir moi-même réitéré le vœu solennel de perpétuelle chasteté, par moi fait en la réception des Ordres, lequel je confirme de tout mon cœur, je proteste et promets de conduire, aider, servir et avancer ladite Jeanne Françoise Fremyot, ma Fille, le plus soigneusement, fidèlement et saintement que je saurai, en l’amour de Dieu et perfection de son âme, laquelle désormais je reçois et tiens comme mienne, pour en répondre devant notre Sauveur. Et ainsi je le voue au Père, Fils et Saint Esprit, un seul vrai Dieu, auquel soit honneur, gloire et bénédiction dans les siècles des siècles.Amen. (68)

François accepte de la part de Dieu les vœux de Jeanne, et au même moment, il reçoit et tient désormais son âme pour sienne, tandis que symétriquement il se voue pour toujours à sa sainteté, au point d’en répondre devant Jésus-Christ. Comme si l’âme de Jeanne était la sienne ? Non, parce que l’âme de Jeanne est devenue la sienne. Plus encore : renouvelant sa propre consécration sacerdotale, il l’investit désormais dans les vœux que Jeanne vient de prononcer, lui transfèrant en quelque sorte la responsabilité de sa propre fidélité. On ne peut aller plus loin dans la logique de sa première lettre au départ de Dijon sept ans plus tôt : “Dieu m’a donné à vous.”

3.2. Trois cœurs qui n’en font qu’un

Plus net encore que celui de l’échange des âmes, c’est le thème du rapprochement, puis de l’union, et enfin de l’unité des cœurs de Jeanne et de François qui nous permet de suivre l’approfondissement de leur relation. Mais cette fois-ci, la présence de Jésus comme celui qui opère cette unité apparaît au premier plan : le Sacré Cœur arrive dans la dévotion française, avant même que la Visitation n’en devienne le sanctuaire.

C’est au moment où l’échange des âmes de Jeanne et de François devient clair, que ce thème de l’union de leur cœur finit également de s’imposer dans leur correspondance:

Ô ma Fille, que j’ai de désirs que nous soyons un jour tout anéantis en nous-mêmes pour vivre tout à Dieu, et que notre vie soit cachée avec Jésus Christ en Dieu. Oh ! quand vivrons-nous nous-mêmes, mais non pas nous-mêmes ; et quand sera-ce que Jésus-Christ, vivra tout en nous ? Je m’en vais un peu faire d’oraison sur cela, où je prierai le cœur royal du Sauveur pour le nôtre… Pourquoi pensons-nous qu’il ait voulu faire un seul cœur de deux, sinon afin que ce cœur soit extraordinairement hardi, brave, courageux, constant et amoureux en son Créateur et son Sauveur, par lequel et auquel je suis tout vôtre? (69)

“Le cœur du Sauveur”, “Dieu a voulu faire un seul cœur de deux…” ; désormais, ces trois cœurs n’en feront plus qu’un, mais bien plus tôt, moins d’un an après la rencontre de Dijon, nous les voyons déjà étroitement associés:

Je vis un jour une image dévote : c’était un cœur sur lequel le petit Jésus était assis. Ô Dieu, dis-je, ainsi puissiez-vous vous asseoir sur le cœur de cette fille que vous m’avez donnée et à laquelle vous m’avez donné. Il me plaisait en cette image que Jésus était assis et se reposait, car cela me représentait une stabilité ; et me plaisait qu’il y était enfant, car c’est l’âge de parfaite simplicité et douceur. Et communiant au jour auquel je savais que vous en faisiez de même, je logeais par désir ce béni Hôte en cette place et chez vous et chez moi. Dieu soit en tout et par tout béni, et veuille se saisir de nos cœurs dans les siècles des sièc1es. Amen. (70)

On aura remarqué au passage le voisinage de la communion eucharistique et de ce “cœur à cœur” qui s’esquisse entre Jeanne et François. Pour bien en comprendre la portée, sans doute faut-il voir dans le texte qui va suivre une allusion à une anecdote bien connue, quoique, à tort, souvent placée plus tard dans les biographies de Jeanne : sans cesse sollicitée par sa famille de se remarier, Jeanne se surprend un beau jour à entretenir quelque rêverie au sujet d’un prétendant plus à son goût que les autres. Prise d’une sainte colère contre elle-même pour ce qu’elle ressentait comme une légère égratignure à son vœu de chasteté, elle se précipite dans sa chambre, saisit un stylet, et grave sur son cœur le nom de Jésus, avec une ardeur telle que jamais la cicatrice ne s’en effacera. Sans doute son doux directeur n’aurait-il pas autorisé ce geste superbe, mais enfin il était loin et il y avait urgence ! Quoi qu’il en soit, on comprend que le thème du cœur ait pris de ce jour une signification toute particulière aux yeux de François et de Jeanne :

Vous dirai-je une pensée que je fis dernièrement en l’heure du matin que vous voulez que je réserve pour ma chétive âme ? Mon point était sur cette demande de l’Oraison dominicale : Sanctificetur nomen tuum ; ton nom soit sanctifié. Ô Dieu, disais-je, qui me donnera ce bonheur de voir un jour le nom de Jésus gravé dans le fin fond du cœur de celle qui le porte marqué sur sa poitrine ? Ô que j’eusse souhaité d’avoir le fer de la lance de Notre Seigneur en une main et votre cœur de l’autre ! Sans doute j’eusse fait cet ouvrage(71).

Trois ans plus tard, tout semble en place pour un développement décisif. En effet,

L’autre jour en l’oraison, considérant le côté ouvert de Notre Seigneur et voyant son cœur, il m’était avis que nos cœurs étaient tout alentour de lui, qui lui faisaient hommage comme au souverain Roi des cœurs. Qu’à jamais soit-il notre cœur ! Amen. (72)

Et cela nous conduit à la lettre importante du 18 juin 1609 ; nous avons déjà rencontré ce texte(73); comme souvent, c’est en serrant sur son cœur le Saint-Sacrement que François perçoit intensément la présence spirituelle de Jeanne :

Je mettais en comparaison le grand Prêtre de l’ancienne Loi avec moi, et considérais que ce grand Prêtre portait un riche pectoral sur sa poitrine, orné de douze pierres précieuses ; et en icelui se voyaient les noms des douze tribus des enfants d’Israël. Mais je trouvais mon pectoral bien plus riche, encore qu’il ne fut composé que d’une seule pierre, qui est la perle orientale que la Mère perle conçut en ses entrailles chastes, de la bénite rosée du ciel ; car voyez- vous, je tenais ce divin Sacrement bien serré sur ma poitrine, et m’était avis que les noms des enfants d’Israël étaient tous marqués en iceluy. Oui, et le nom des filles spécialement, et le nom de l’une encore plus.

Ah ! que j’eusse bien voulu que mon cœur se fût ouvert pour recevoir ce précieux Sauveur, comme fit celui du gentilhomme duquel je vous fis le conte (74); mais hélas ! je n’avais pas le couteau qu’il fallait pour le fendre, car il ne se fendit que par l’amour. Si ai-je bien pourtant eu des grands désirs de cet amour, mais je dis pour notre cœur indivisible.

Voilà ; désormais François peut conclure sa lettre : Ô ma Fille, mon cœur est plus vôtre que mien ; à jamais Notre Seigneur y règne. Amen. Et quelques mois plus tard, nous voyons la Visitation sortir de ce cœur indivisible qui figurera bientôt sur son blason :

Certes, l’autre jour, en recommandant ce projet à sa divine Majesté, je me confondais extrêmement de quoi elle se servait pour cela de mon cœur et du vôtre, je veux dire de notre cœur ; car, bien que la raison ne le veuille pas, si est-ce queje ne sais séparer ce cœur en deux. (75)

À partir de maintenant, on n’en finirait plus de relever les expressions telles que “notre cœur et notre âme”, “mon cœur qui est plus vôtre que mien”, “notre inséparable cœur”, etc. Et l’on en trouverait autant dans les lettres de Jeanne à François. Et pourtant, le thème va connaître une nouvelle simplification et intériorisation quelques mois plus tard : ce cœur, c’est tout simplement celui de Jésus. Une date décisive sur ce point est celle du 29 avril 1611, vigile de la fête de Sainte Catherine de Sienne, qui invite François à inscrire l’unité de son cœur et de celui de Jeanne dans le thème médiéval de l’échange des cœurs :

Je m’en vais à l’autel, ma chère Fille, où mon cœur répandra mille souhaits pour le vôtre ; ou plutôt, notre cœur répandra mille bénédictions sur soi-même ; car je parle plus véritablement ainsi.

Ô Dieu, ma chère Sœur, ma Fille bien aimée, à propos de notre cœur, que ne nous arrive-il comme à cette bénite Sainte de laquelle nous commençons la fête ce soir, sainte Catherine de Sienne, que le Sauveur nous ôtât notre cœur et mit le sien en lieu du nôtre ! Mais n’aura-il pas plutôt fait de rendre le nôtre tout sien, absolument sien, purement et irrévocablement sien ? Oh qu’il le fasse, ce doux Jésus ! je l’en conjure par le sien propre et par l’amour qu’il y enferme, qui est l’amour des amours. Que s’il ne le fait (oh! mais il le fera sans doute, puisque nous l’en supplions), au moins ne saurait-il empêcher que nous ne lui allions prendre le sien, puisqu’il tient encore sa poitrine ouverte pour cela. Et si nous devions ouvrir la nôtre, pour, en ôtant le nôtre, y loger le sien, ne le ferons-nous pas ?

Et pour la dizaine d’années qui lui reste à vivre, on ne compterait plus sous la plume de François les variations sur le thème de “l’unique cœur”, tandis que deviendra presque systématique la formule finale de tant de lettres à Jeanne : Notre Seigneur soit au milieu de notre cœur. Et dans la ligne d’une dévotion en train de naître, il faudrait ici relever certaines formules qui anticipent une véritable consécration au Sacré-Cœur : Oui, Seigneur Jésus, faites tout à votre gré de notre cœur, car nous n’y voulons ni part ni portion, mais le vous donnons, consacrons et sacrifions pour jamais. (76)

Conclusion: “Dieu est Dieu du cœur humain”.

Nous avons ouvert cette étude par l’un des plus touchants de ces petits billets rédigés par François au soir de sa vie. Nous le citerons intégralement pour conclure. Désormais, tout est simple ; extérieurement, ce grand évêque acclamé des foules a tout réussi ; intérieurement, cet homme épuisé vit déjà ailleurs, dans un au-delà qui réalisera sans limite ce que lui et Jeanne avaient entrevu à Dijon en 1604 :

Plus je vais avant, plus je trouve le monde haïssable et les prétentions des mondains vaines, et ce qui est encore pis, plus injustes. Je ne puis rien dire de mon âme, sinon qu’elle sent de plus en plus le désir très ardent de n’estimer rien que la dilection de Notre Seigneur crucifié, et que je me sens tellement invincible aux évènements de ce monde, que rien ne me touche presque. Ô ma Mère, Dieu comble de bénédictions votre cœur, que je chéris comme mon cœur propre. Je suis sans fin vôtre, en Celui qui sera par sa miséricorde, s’il lui plait, sans fin tout nôtre.

Sans que l’on puisse le vérifier, il serait merveilleux que ces lignes soient les dernières que François ait destinées à Jeanne, véritable cri de son cœur éperduement amoureux, sans que l’on puisse dire de qui, car Jeanne, Jésus et lui-même ne forment plus maintenant que cet unique cœur pour l’éternité.

Ce cri du cœur de François sera notre mot de la fin. Un non-croyant lirait ces lettres encore avec enthousiasme : elles n’ont rien perdu de leur fraîcheur et pourraient êtres abordées simplement comme la plus belle des histoires d’amour, la plus intense et la plus pure. Paradoxalement, on sait toutes les réserves et les incompréhensions que cette histoire a suscitées dans les milieux dévôts, histoire par trop sentimentale pour l’idée que nous nous faisons aujourd’hui de la sainteté.

Ce qui nous trompe, c’est qu’il manque à la plupart des amoureux d’être des saints, et ce mot même d’amoureux est interdit de sainteté, à force de n’en considérer que l’écho charnel, au lieu de le prendre à sa source. Et pourtant, c’est une grande chose que l’amour, nous dit saint Bernard, si du moins il remonte à son principe, si, revenu à son origine et replongé en sa source, il y puise sans cesse de quoi continuellement s’écouler. (77) Cette source, François et Jeanne l’ont trouvée dans le cœur palpitant de Jésus, et ils s’en sont laissés inonder : « Dieu est Dieu du cœur humain » ; nous avons déjà cité ce début du Traité de l’Amour de Dieu. Notre tort est de penser l’amour dans une vision païenne de l’homme, de le penser comme un instinct, de le couper de cette source, d’oublier qu’il est saint par essence, et que les vrais coeurs d’épouses, de mères, de filles, ce sont les cœurs des saintes(78), tandis que ces cœurs à demi morts, à quoi sont-ils bons ? (79) Nous avons fait de la sainteté une abstraction, alors qu’il ne s’agit pas d’émousser la sensibilité, de l’amortir, ni de l’exterminer comme nous ferions pour un vice, mais d’en faire un usage courageux pour nous rendre plus amis de Dieu et plus charitable envers les hommes. Ce qu’il faut éviter, c’est l’erreur commune d’attacher le blâme aux sentiments, et non point aux inconvénients qui ne s’ensuivent que faute de correspondance à la grâce. (80)

Mais l’Église a canonisé François et Jeanne, et en cela elle nous rend l’immense service de nous rappeler que l’essence de la vie chrétienne n’est ni la vertu, ni même la bienfaisance, mais bien l’amour. Et que l’on ne nous demande pas ici de quel amour il s’agit : il nous suffit dans la Tradition chrétienne que Dieu soit Amour, et que l’homme tout entier soit à l’image de Dieu. Deux jours avant sa mort, François disait une dernière fois au parloir de la Visitation : Ce n’est pas par la grandeur de nos actions que nous plaisons à Dieu, mais par l’amour avec lequel nous les faisons. (81) C’est pour cela qu’un monastère de visitandines ou de carmélites est plus précieux pour le salut du monde que toutes les bonnes œuvres prises ensemble ; ou plutôt : les bonnes œuvres ne sont bonnes que si elles sortent de cœurs aimants, et ils ne seront aimants que dans le cœur du Christ. Jeanne et tant d’autres n’auraient pas été capables d’une sainteté de performance ; ces lettres leur révèlent que la sainteté est affaire de cœur : “Venez à moi, car je suis doux et humble de cœur”, leur dit Jésus. On sait que la définition de la sainteté salésienne tient dans ces deux mots de douceur et d’humilité : au fond, qui n’en aurait envie, et qui n’en serait capable?

(1) 1 Janvier 1611
(2) Introduction à la Vie dévote, III, 19 ; cf. Aristote, Éthique à Nicomaque, VIII, III.
(3) Lettre de Fin juillet ou commencement d’août 1606
(4) Jn 17, 23
(5) Lettre MDCCCLXXIII. Ce fragment sans date pourrait être les dernières lignes adressées par François à Jeanne.
(6) Lettre MDCCCLXVII, de 1620 ou 1621
(7) Lettre du 7 juillet 1607
(8) Lettre du 9 avril 1615
(9) Lettre du 7 juillet 1607
(10) Lettre du 26 avril 1604
(11) Appendice, pièce XVII
(12) Lettre de Jeanne à Françoisdu 26 octobre 1621, in Sainte Jeanne de Chantal, Correspondance, éd. Cerf-Cefi, I, n° 420.
(13) Lettre de Jeanne à François entre 1616 et 1618, in Sainte Jeanne de Chantal, Correspondance, éd. Cerf-Cefi, I, n° 199.
(14) Lettre du 21 novembre 1604.
(15) Traité de l’Amour de Dieu, I, XV
(16) Lettre CCXVI, d’Annecy, le 3 mai suivant.
(17) 24 juin 1604
(18) 14 octobre 1604
(19) Saint Jean de la Croix, Nuit Obscure, I, 4
(20) 21 novembre 1604
(21) 7 décembre 1604
(22) 24 juin 1604
(23) Cf. ci-dessous : La prudence des saints.
(24) Allusion aux scrupules de Jeanne d’avoir définitivement quitté son premier directeur.
(25) 14 octobre 1604
(26) Début juin 1605
(27) 16 janvier 1610
(28) 30 janvier 1606
(29) 1er août 1605
(30) Exemple le 30 janvier 1606 : “Pour moi, je pense bien, Dieu aidant, vous écrire tous les huit jours…”
(31) 7 décembre 1604. Et la question deviendra de plus en plus épineuse, la Visitation une fois fondée : “Voyez-vous, ma très chère Mère, quand je vais voir nos filles, il leur vient de petites envies de savoir de vos nouvelles par moi, et si je leur pouvais montrer de vos lettres, cela les contenterait grandement. C’est pourquoi, je vous demande ainsi des feuilles que je leur puisse montrer, et à M. de Thorens et au neveu. Or, quant à ma nièce de Bréchard, elle sait bien que je suis vous-même, car elle a vu des billets qui contiennent cette vérité-là ; mais pourtant, je ne lui ai pas voulu montrer ces trois dernières lettres, ni en tout, ni en partie.” (fin mars ou début avril 1615)
(32) 11 décembre 1609
(33) 28 ou 29 septembre 1619
(34) 28 février 1605
(35) 18 février 1605
(36) 4 mars 1608
(37) Lettre de Jeanne à François de septembre 1617, in Sainte Jeanne de Chantal, Correspondance, éd. Cerf-Cefi, I, n° 137
(38) 1er ou 2 mars 1615
(39) ou 29 septembre 1619
(40) 11 février 1607
(41) 29 décembre 1609
(42) À l’abbesse de Sainte-Catherine, 29 août 1622
(43) Lettres des 14 et 24 juin 1604
(44) 14 octobre 1604
(45) 5 mars 1608
(46) Vrais entretiens spirituels, VI, pp. 22-28
(47) 30 janvier 1606
(48) Avril 1606
(49) 24 juin 1604
(50) Idem ; cf. 8 juin 1606 : Que je demandasse de vous survivre ? Oh vraiment ! que ce bon Dieu en fasse comme il lui plaira, ou tôt ou tard : ce ne sera pas cela que je voudrais excepter en mes résignations, si j’en faisais. Mais, ce dites-vous, vous n’êtes pas encore détachée de ce côté là. Seigneur Dieu, que dites-vous, ma très chère Fille ? Vous puis-je servir de lien, moi, qui n’ai point de plus grand désir sur vous que de vous voir en l’entière et parfaite liberté de cœur des enfants de Dieu ? Mais je vous entends bien, ma chère Fille, vous ne voulez pas dire cela ; vous voulez dire que vous pensez que ma survivance soit à la gloire de Dieu, et pour cela vous vous y sentez affectionnée… En est-il vraiment si sûr ?
(51) 24 juin 1604
(52) 18 juin 1609
(53) 8 juin 1606
(54) Septembre 1607
(55) 14 septembre 1605
(56) Idem
(57) Introduction à la vie dévote, V, 14
(58) Vrais Entretiens spirituels, XII, De la Simplicité
(59) Idem
(60) Déposition de Jeanne de Chantal au procès diocésain.
(61) 9 décembre 1612
(62) Jn 17, 23
(63) MDCCCLXVII, en 1620 ou 1621
(64) 21 novembre 1604. Cf. également ci-dessus, lettre du 1er août 1605.
(65) 14 juillet 1609
(66) 11 décembre 1609
(67) 28 mai 1610
(68) 22 août 1611
(69) 28 mai 1610
(70) Fin février 1605, souligné quelques semaines plus tard, le 29 mai 1605 : “Le doux Jésus soit assis sur votre cœur et sur le mien ensemble, et qu’il y règne et vive à jamais. Amen.
(71) 21 juillet 1605
(72) 6 mai 1608
(73) Cf. ci-dessus : La liberté des saints.
(74) Allusion à un conte que François de Sales insèrera ultérieurement dans le Traité de l’Amour de Dieu, VII, 12, où, citant saint Bernardin de Sienne, il raconte le pélerinage en Terre Sainte d’un chevalier qui, célébrant l’Ascension au Mont des Oliviers, en mourut d’amour : “Sans doute, dit le médecin, son cœur s’est donc éclaté d’excès et de ferveur d’amour. Et afin de mieux affermir son jugement, il le voulut ouvrir, et trouva ce brave cœur ouvert, avec ce sacré mot gravé au dedans d’icelui Jésus mon amour ! L’amour, donc, fit en ce cœur l’office de la mort, séparant l’âme du corps sans concurrence d’aucune autre cause.” On voit au passage à quel point le geste de Jeanne inspirera François dans le traitement de ces thèmes fondamentaux du Traité de l’Amour de Dieu, que sont la blessure et la mort d’amour.
(75) 5 mai 1610
(76) 29 décembre 1618
(77) Sermon 83 sur le Cantique des Cantiques
(78) E. Bougaud, Histoire de Sainte Chantal et des origines de la Visitation
(79) 2 novembre 1607
(80) W. Faber, Conférences Spirituelles, Sentiments blessés
(81) Vrais entretiens spirituels, 26 décembre 1622